Forse i mostri più famosi creati da Juan Rodolfo Wilcock (1919-1978) sono quei donghi che compaiono nell’Antologia della letteratura fantastica curata da Jorge Luis Borges, Cristina Ocampo e Adolfo Bioy Casares.

Molto simili a porcellini trasparenti, i donghi «possono digerire qualunque cosa, perfino la terra, il ferro, il cemento. […] Sono ciechi, sordi, vivono nel buio»; infestano le gallerie delle metropolitane e, ovviamente, sono antropofagi («Dicono che sia l’animale che dovrà sostituire l’uomo sulla terra […] Cinque donghi si mangiano una persona in un minuto, tutto, ossa, vestiti, scarpe, denti, persino la carta di identità»). Questi donghi che si diffondono come un’epidemia hanno ancora addosso l’aria letteraria che soffia dall’Argentina di Borges e Julio Cortázar, e infatti la loro presenza pericolosa e impalpabile può ricordare alcune loro pagine.

Con il racconto La bella Concetta invece (che si trova in Parsifal. I racconti del «Caos») Wilcock prende un’altra strada e inaugura una sorprendente declinazione antropoide e al femminile del mostro: Concetta è una bella «femmina davvero formosa» che si scatena in balli provinciali, ma in realtà si tratta di una finta femmina meccanica, un’accozzaglia di ingranaggi che, sotto alla «morbida pelle della mammellina», è fatta inoltre di «una sostanza sabbiosa, friabile e polverosa, come l’interno di un formicaio. Migliaia di canalicoli o cunicoli percorrevano in ogni direzione questo fenomeno» dalle cui «minuscole gallerie spuntavano milioni – o in ogni caso dozzine – di vermicelli a forma di spaghetto, col corpo bianco e la testina delicatamente lillà».

È a questo tipo di astrusa difformità, più che ai donghi, che sono vicine tutte le creature del Libro dei mostri, l’ultimo libro scritto da Wilcock (uscito nel 1978 per Adelphi, che lo ha appena ristampato), un’opera che segue un po’ la traccia delle antiche vite di uomini illustri, dei bestiari, delle raccolte di oggetti imprevedibili e curiosi, e un po’ sembra anche una ordinata sequenza di fotogrammi.

Infatti percorrendo a raffica questa galleria di sessantadue “mostri”, con una media di due pagine ciascuno, si ha come l’impressione, più che di leggere un’opera letteraria, di vedere passare le immagini scattanti di un film, di un documentario sulle ibride mostruosità come avrebbe potuto girarlo il Wells dell’Isola del dottor Moreau. Sorelle della bella Concetta in questo film sono presenze ammaliatrici come Fulvia Net, il cui corpo frana da tutte le parti («è in avanzato stato di putrefazione, eppure come si spiegano i suoi successi, non soltanto con gli uomini?»: in questo «non soltanto» c’è quasi tutta l’ironia wilcockiana); o come Juana Pè, che anche se «non è bellissima» a causa di un «difetto» («una breve membrana tesa tra le cosce, anzi non tanto breve se arriva quasi alle caviglie») «ha l’ambizione di diventare Senatore della Repubblica Italiana».

Nel catalogo wilcockiano ci sono teologi che camminano a quattro zampe e sparano fuoco dalla bocca, agrimensori che perdono pezzetti del loro corpo, mariti liquefatti che riposano tranquilli e color rosa cicca nella propria vasca da bagno, ufficiali postali che sono diventati sfere di lana portati in giro dal vento o dall’amore. Il tutto nel ritmo implacabile di due pagine per volta, come sarà per una raccolta di racconti per certi versi simili che uscirà l’anno dopo Il libro dei mostri, Centuria di Giorgio Manganelli.

E i nomi, usciti da una anagrafe che tutti vorremmo completamente a portata di mano, sono degni di chi li indossa: da Piramide Veso (che quando si alza comincia a rotolare), a Zulemo Moss (è diventato un portacenere rancoroso che cova vendetta pensando di cucinare in modo elaborato i suoi nemici: segue ricetta per cucinare il «Signor Martinez alla Ungherese»), a Primio Doppo (fa parlare tutto il paese perché ha iniziato a fare le uova).

Quasi tutti hanno una professione regolare: il capitano Luiso Ferrauto è un «ufficiale della Pubblica Sicurezza» (e se esce dal guscio come un insetto sua moglie colleziona questi gusci in cantina); il «Cavaliere del Lavoro» Bellestar è una mummia dalla conversazione «spaventosamente limitata»; Illio Collio è «grandemente impedito nell’esercizio delle sue funzioni di assistente sociale per il fatto che dalle mammelle gli esce una specie di olio denso, come da macchine» e lui scivola continuamente sui propri piedi e non riesce a soccorrere negli appartamenti i suoi assistiti.

Il meglio però sono gli sfottò dedicati a quel mondo letterario pieno di intrallazzi che Wilcock conosce planando in Italia dall’Argentina verso la fine degli anni ’50, e al quale dedica in veste di giornalista le stoccate dei suoi corsivi, in parte raccolti da Edoardo Camurri in Il reato di scrivere (Adelphi, 2009): Gaio Forcellio per esempio «è molto peggiorato» da quando «gli sono spuntati i soliti due tentacoli, detti del romanziere impegnato, sui lobi frontali, ma più lunghi e un po’ più disfatti che negli altri romanzieri impegnati»; «il critico letterario Berno Zenobi è una massa di vermi, un ammasso dalla forma non meglio definita» che è «consulente delle migliori case editrici»; Effio Daudaben per «qualche stravaganza genetica […] è nato ominide, e più esattamente del genere Australopithecus»: scrive saggi incomprensibili sulla semiotica strutturalistica «che egli ha scelto prima come hobby e in seguito come professione»; ma il punto massimo è questo: «la testa del poeta Eher Sugarno ricorda da vicino la capsula del papavero», e se ha una sola bocca circondata da tre buchi del naso, tre occhi, tre sopracciglia, tre braccia, tre gambe, tre organi genitali in realtà «quel che interessa è il fatto che Eher Sugarno è un validissimo poeta, sulla linea di Eugenio Montale ma più moderno e più vario nella scelta degli argomenti».

Questo sbeffeggiamento spalmato sia sui costumi letterari che sui tic della vita quotidiana la dice lunga sul fatto che Il libro dei mostri non imiti passivamente, come potrebbe fare sospettare il titolo, le raccolte di mostri e prodigi classiche (da Plinio il Vecchio al Fisiologo) o in salsa sudamericana (Il libro degli esseri immaginari di Borges).

Il libro dei mostri 1978Anche le copertine delle due edizioni di Adelphi del 1978 e del 2019 possono essere allusive ma fuorvianti: nella copertina della prima edizione, su sfondo giallo, campeggia un’opera del 1953 della pittrice e scrittrice surrealista Leonora Carrington che porta il titolo E allora andammo dalla figlia del Minotauro; e chi nel 1978 si trova in mano per la prima volta questo libro già lega in un cortocircuito i mostri wilcockiani alla bestiale mitologia classica (il Minotauro) riletta dal surrealismo (non per niente la Carrington è antologizzata, con il suo racconto La debuttante, nell’Antologia dello humour nero di André Breton). Da qui al legame con il Manuale di zoologia fantastica di Borges il passo è breve. Nella copertina della nuova edizione invece da un umanissimo color incarnato emerge un mostro a tre teste (tutto squame e artigli ma molto femminile) tratto da un’opera del bizzarro genio tardorinascimentale di Ulisse Aldrovandi. E qui siamo appunto tra l’ambiguo gusto per i feti in barattolo delle Wunderkammern cinquecentesche e le antiche pagine sulle deformità e i prodigi della natura.

Ma andando oltre titolo e copertine e leggendo anche solo qualche ritratto si capisce che Il libro dei mostri non è così didascalico, e che il suo bersaglio seducente non è altro che quella pasta di sciocchezze e idiozia che l’uomo secerne come un suo sudore caratteristico in qualunque situazione si trovi – quella pasta che con Flaubert chiamiamo bêtise: ogni mostro non solo è un mostro comune, cioè un uomo («uomo, paradigma del mostro» sono le ultime parole del libro), ma è un luogo comune.

Wilcock non vede pubblicato il suo Libro dei mostri perché un infarto lo uccide all’improvviso il 16 marzo 1978, pochi mesi prima dell’uscita; un’altra cosa lasciata nel cassetto e pubblicata da Adelphi nel 1980 è la sua curatela e traduzione del Dizionario dei luoghi comuni di Gustave Flaubert, il quale a sua volta ha lasciato incompiuto questo libretto (che doveva essere parte del suo ultimo romanzo Bouvard e Pécuchet) per un ictus che lo ha ucciso all’improvviso l’8 maggio 1880. Come dice il titolo, l’idea di Flaubert quando scrive il Dizionario dei luoghi comuni è quella di creare qualcosa a cavallo tra il catalogo universale delle sciocchezze e il manualetto pratico di conversazione in cui si leggono definizioni come «EREZIONE. Si usa soltanto a proposito di monumenti», «FAGIANO. Molto elegante per un pranzo», «MINISTRO. Traguardo estremo della gloria umana», «BIONDE. Più calde delle brune (v. brune)», «BRUNE. Più calde delle bionde (v. bionde)», «MOSTRI. Non se ne vedono più» (questa definizione tra l’altro Flaubert nel manoscritto l’ha ambiguamente cancellata). I due eroi flaubertiani del disastro, Bouvard e Pécuchet, cercano di applicare alla vita tutte le teorie umane che riescono ad attirare nell’orbita della loro comprensione, ma non usando il buon senso falliscono esemplarmente in tutto (come coltivatori, come archeologi, come religiosi, come letterati…), e ogni idea, passata attraverso il filtro della loro stupidità, si rivela appunto un luogo comune assolutamente privo di spessore e stabilità. Il tempio etrusco, forse il libro più bello di Wilcock (e di fatto quello meno ristampato e tuttora quasi introvabile), è un romanzo in cui per duecento pagine si aspetta la costruzione, in una anonima cittadina, di un tempio etrusco voluto dall’amministrazione comunale come ornamento di una rotonda spartitraffico: progetto affidato a un impiegato telefonico aiutato da tre immigrati trovati accampati «sotto un frassino» e che naufraga nel niente (più esattamente in una voragine, tanto che il tempio etrusco sarà solo una semplice prospettiva, un puro nome) come ogni cimento di Bouvard e Pécuchet.

Nella sua introduzione Wilcock parla del Dizionario interrotto di Flaubert come di una «minuziosa e quasi maniacale raccolta di prove della estremamente diffusa stupidità umana» (e verrebbe da rispondergli tirando in causa il suo australopiteco semiologo Effio Daudaben: «non si può pretendere vedute luminose da una scimmia»): «prove» inventariate dallo stesso Wilcock praticamente in tutti i suoi libri, da Fatti inquietanti, a La sinagoga degli iconoclasti, a I due allegri indiani; «Flaubert, come tutti i pensatori seri fondamentalmente un umorista, era affascinato dalla stupidità, molla principale della storia moderna […] Tutto ciò che in Flaubert non è invenzione lirica ma osservazione della società, tende verso quella smilza pietra tombale della società cattolica europea, fascista ieri e fascista oggi per qualunque partito la sua svaporatezza voti: il Dizionario. Poche pagine tenaci di sciocchezze correnti da un secolo, qua e là adattate ora a nuova veste secondo i gusti della propaganda».

Il Dizionario dei luoghi comuni, in un altro senso, è la pietra tombale sotto alla quale Flaubert e Wilcock stanno insieme per una casualità che ha poco di casuale, visto che è nel modo in cui si avvicinano alla stupidità e alla bêtise, alla verbigerazione continua e alla chiacchiera (come quella di Pino Scarro, che «dedica tutto il suo tempo alla chiacchiera. Chiacchiera tanto, che non gli è rimasto un goccio di grasso, e si direbbe di niente altro, nel corpo […]; unico, il muscolo della lingua conserva in lui le sue dimensioni normali, e con questa lingua Pino chiacchiera e chiacchiera, come altri scrivono e scrivono, ma più vanamente ancora se possibile») che le loro traiettorie di scrittori, almeno negli ultimi metri, sono gemelle.


Il libro dei mostriJuan Rodolfo Wilcock, Il libro dei mostri (1978), Adelphi, Milano 2019, 143 pp. 16,00€


In copertina: Leonora Carrington, Down Below, 1941