Gabriele Galloni è venuto allo scoperto: Olimpia Buonpastore c’est moi. La misteriosa orfana ventiquattrenne autrice della sanguinaria silloge inedita Corpo di mamma era un ventiquattrenne poeta maschio già noto per diverse pubblicazioni. Ciò che molti nel giro della poesia avevano subodorato sta ora rimbalzando dalle riviste di settore ai quotidiani nazionali. Fa ridere ma anche pensare il dietrofront degli editori, anche sommi, già pronti a pubblicare l’estrema (e invero caricaturale) Olimpia, ma improvvisamente disinteressati a quegli stessi versi una volta messi davanti ai veri estremi anagrafici dell’autore. Lo stesso valga per le reazioni scandalizzate di tanti commentatori davanti all’esperimento, quasi che gli eteronimi e le beffe letterarie fossero una disdicevole novità. A ogni modo, la vicenda ha dimostrato con particolare evidenza quanto recentemente osservavamo: che nella letteratura d’oggi, e in poesia specialmente, l’interesse è tutto per il personaggio, meglio se racconta con stile viscerale una vicenda sofferta che tocchi temi di forte impatto come la corporeità e il gender. L’accaduto non mancherà di portare ulteriore attenzione alla produzione seria di Galloni; e non si può dire che non la meriti, per ben altre ragioni.
Galloni, classe 1995, è infatti fra le migliori rivelazioni ‘giovani’ delle ultimissime stagioni, insieme direi a Giulia Martini. Nella sua ricetta, il talento letterario e quel modicum di faccia tosta che qualcuno chiamerebbe accorta gestione del personaggio si sposano con un presenzialismo editoriale che qualcuno chiamerebbe grafomania. La sua bibliografia ortonima conta già tre sillogi poetiche – Slittamenti (Alter Ego-Augh!, 2017), In che luce cadranno (RPLibri, 2018), Creatura breve (Ensemble, 2018) – più un’altra in arrivo, e una raccolta di prose brevi, a cui va aggiunto l’opus della summenzionata Olimpia. Il ritmo forsennato di queste prime pubblicazioni non faccia pensare a un’incontinenza scrittoria: Galloni è un miniaturista tanto in versi quanto in prosa, e un perfezionista dalle lunghe gestazioni (mentre pare che la raccolta della Buonpastore sia stata scritta di getto in una mattinata).
Lucidità, calcolo formale e labor limae sono dunque i tratti di un autore che nasce già pienamente consapevole di sé stesso e delle proprie ossessioni tematiche, tanto da museizzarle anzitempo, ragionando faceto di un gallonismo che effettivamente non è difficile da delineare. La sua è una voce nuova per il timbro personale ma non novatrice a tutti i costi; l’autore si muove in una tradizione tutto sommato (primo-)novecentesca, tra frammentismo e prosa d’arte. L’inquadramento genealogico dei suoi versi ha invero creato qualche imbarazzo alla critica, che ha fatto inizialmente e non troppo a proposito il nome di Penna. In realtà, di penniano Galloni ha solo la misura epigrammatica, l’endecasillabo facile, la limpidezza linguistica; ma sensibilità e interessi sono parecchio distanti. Certo, questo esteta bellettrizza anche il trollaggio: la Buonpastore è un personaggio sopra le righe e partorito per gioco, come parodia e come provocazione (riuscita), ma è anche una figura a suo modo compiuta.
Allo stesso modo, lo si può considerare un poeta ‘lirico’ solo in senso molto improprio e per esclusione: non è uno sperimentale e non si rivolge alle soluzioni formali delle scritture di ricerca contemporanee (elencazione algido-ossessiva, sintassi inceppata, parodia dell’oggettività burocratica o informatica…). Nei suoi versi, però, com’egli stesso ha osservato, manca quasi del tutto l’io, e il suo sguardo è piuttosto quello di una telecamera di servizio, puntata su angoli sordidi che non si sa più se siano quelli di una realtà inimmaginabile o di immaginazioni inconfessabili:
Dietro la tenda l’ombra di una palma.
Pomeriggio. Domenica. Tijuana.
Sopra il letto, svestita, una salma
di bambina.
Nonostante il suo uso di versi regolari e spesso rimati, infine, non è un neometrico, perché non tematizza la sua scelta metrica e non ci gioca sopra, né la ostenta con insistenza cantilenante. Il suo ricorso all’endecasillabo e alla rima suona invece spontaneo e naturale (superate certe inversioni un po’ goffe ancora sporadicamente reperibili in Slittamenti: «A questo punto sai che lo sgarrare | è di pochi millimetri questione»), una scelta non marcata, e non lascia mai che il ritmo distolga l’attenzione dal montaggio delle immagini. In questo è lontano anche dalla stessa Martini, poetessa tutta programmaticamente metalinguistica il cui impeccabile metricismo non è (solo) giocoso ma certo è esibito e messo al centro della riflessione.
Il gusto per il morboso e il viscerale sviluppati con un tocco da realismo magico, gl’intrecci di eros e thanatos o di sacro e profano, insieme alla tecnica del mottetto fulminante, possono tutt’al più accostarlo a Francesco Maria Tipaldi, ma a un Tipaldi raggelato e calcolato (e dunque davvero perverso) laddove FMT è spettinato, naïf, irruente (e dunque sanamente vitalista). Una sezione di Creatura breve raccoglie ritratti immaginari di preti improbabili. Fra questi, Padre Giorgio che «da bambino | mangiò per sbaglio un vitellino vivo»: l’immagine – come quella dell’«umore vaginale delle mucche (masturbate per gioco dai macellai annoiati)» (p. 62) – è molto tipaldiana, la pronuncia e la costruzione complessiva no.
Con il nuovissimo Sonno giapponese, Galloni ramifica il suo percorso senza tradirne l’impostazione di base. Da un lato, il passaggio alla prosa non implica un abbandono della vena poetica. Il personaggio che a p. 10 «aveva esaurito ogni possibile combinazione di parole all’interno di quel sistema crudele che è l’endecasillabo» è probabilmente autobiografico; e Galloni va lodato per non aver ceduto all’attuale moda d’inserire quasi per forza sezioni in prosa nei libri di versi, tenendo piuttosto separate le due produzioni. Questi sono però i ‘racconti’ di un poeta – flashes immaginifici senza vero sviluppo narrativo (solo alla fine trovano spazio due racconti più estesi e articolati: un’apertura verso la narrativa vera e propria?), né scavo nella realtà sociale. Ma per i motivi già discussi non è la ‘prosa in prosa’ da anni diffusa in area sperimentale, piuttosto squisite e capricciose prose d’arte nella linea novecentesca di Cecchi, Savinio, Landolfi, e anche Borges – borgesiano è ad esempio il mini-bestiario (genere comunque non raro nella poesia italiana ultima, da Pacini a Pellegatta.
Al netto del cambio di genere, suonano familiari ai lettori della poesia di Galloni tanto i temi (ancora la morte, ancora il sesso, ancora il sacro) quanto le coordinate spazio-temporali. I luoghi sono di preferenza gli amati “lungomari laziali” (Fiumicino, Torsanlorenzo, Anzio) o altrimenti location ‘latine’ (Messico, Andalusia, Castiglia, L’Avana, Francia del Sud), forse perché consentono di evocare atmosfere in cui un senso carnale del sacro si mescola a un senso festivo della morte, «quartieri grandi come una bara […] in cui gli uomini sono sempre in lacrime e le donne sono scheletri festosi». Le date, quando specificate, oscillano attorno a quegli anni ‘90 in cui l’autore è nato (1989, due volte il 1991, 1999); la stagione è per eccellenza l’estate; l’ora, la notte.
Galloni ricorda davvero certo Landolfi per la puntigliosità apparentemente immotivata del dettaglio grottesco (cito a caso da Racconto d’autunno: «Lui la incatenava lì, ecco perché tutti gli anniversari ci metteva i fiori; la incatenava lì, gridava: neanche il cielo ti deve vedere, l’aria ti vuol penetrare, ma s’inganna, piuttosto t’impedisco di respirare, ti soffoco. E le dava da mangiare lucertole e carote crude, non so perché» – già, perché le carote?). Questo idiosincratico calligrafismo della morbosità fa pensare a un autore sinceramente alle prese con persistenti dèmoni (o sinceramente rapito dai suoi feticci), più che a un freddo e diligente discepolo di retoriche grandguignolesche. Il lato superficiale e sensazionalistico è casomai sviluppato nell’eteronimo Buonpastore, che peraltro alla luce di Sonno giapponese appare sempre meglio come enfatizzazione selettiva ma neanche troppo estrema di tratti già del Galloni ortonimo: l’oltraggio al corpo materno, gli accoppiamenti bestiali e canini in ispecie… Nelle prose, anzi, nonostante la fattura sempre squisita e meditata, viene spesso meno la rarefatta compostezza dei versi, e le varie scene horror o weird, sviluppate nei loro dettagli, non mancano di suscitare una vertigine batailliana. Ce n’è per tutti i gusti: dall’incesto alla bestialità (magari accoppiata alla pedofilia: «mi chiedesti di scopare con un cane […] nonostante i miei undici anni», p. 15), dalla necrofilia (a p. 23 ci si eccita sessualmente davanti a un «cadavere meraviglioso» esposto a pagamento) al sadismo (anche sugli animali: a p. 53 «diedero fuoco al coniglio della donna»), fino alla vorarefilia del signore che vorrebbe «essere mangiato dai negri». Ma proprio come nella Buonpastore, è in seno alla famiglia che si sfogano le pulsioni più perverse:
Si riesuma lo scheletro della nonna per giocare a rimontarne l’ossa (p. 3), quello della madre per sostituirlo alla statua del santo in processione (p. 55). Tale Gianna, seviziata nei modi più orrendamente sadici, è infine violata a turno dai figli (p. 61), e persino un gatto di razza sphynx uccide la madre e la penetra (p. 9). Un tizio che «voleva scrivere un romanzo sulla Morte» non trova di meglio che sperimentare l’accoltellamento su madre e sorella (pp. 40s.).
Le stesse divinità prendono parte attiva all’orgia di sesso e di morte:
Gli abitanti di Sodoma «volevano farselo, Dio» (p. 21); il «Diavolo … ogni notte spompinava Jarry fino a esaurirlo» (p. 31); «Il piccolo Satana sta scopando un cane minuscolo, un cane-bambino» (p. 47); «Apollo creò dei cloni di Marsia» per un nuovo supplizio, che saranno gettati poi «a uso e consumo dei gabbiani e degli antropofagi» (p. 20). Similmente, d’altronde, in Messico «i bambini morti … se li mangiano i cani o gli affamati di passaggio» (p. 44).
Quando non è surrealmente orrorifico, Galloni è – a volte anche nella stessa pagina – metafisico e astratto, quasi concettoso (ma senza mai indugiare troppo sul concetto). Si discetta, così, di linguistica impossibile (pp. 29 e ss.), di teologia (p. 48: il Dio del sonno e il Dio della veglia), si visita la «salma di Moby Dick» ancora pensante e comunicante (p. 32), si delibano varie qualità di sonno (p. 33) fra cui quella che dà il titolo al volume. S’inventa una storia d’amore che procede in retrogradazione temporale (p. 50) e si misurano le gradazioni di colore del cielo (p. 64). Questo è il Galloni che nella sua seconda e migliore raccolta poetica s’inventava con estro e delicatezza un’etnografia ironico-empatica dei morti («loro, | l’ultima didascalia del mondo | conosciuto»), coniugando perizia tecnica e sottigliezza di sentimento.
L’autore spiega invece che il suo ultimo è un libro «a uso e consumo dei seleniti» (e la luna vi ricorre spesso a livello tematico e lessicale). Ma senza necessariamente bisogno di visitare, come un novello Luciano, l’aldilà o la Luna, Galloni ha il dono di costruire un mondo autonomo e parallelo con una sua necessità interna, dove CIA è la sigla di «Centro Informazioni Abisso» (p. 53) e dove pare normale che il caffè castigliano venga servito negli stivali (p. 46). All’autore piace disseminare calcolate incongruenze, anacronismi (pp. 15-17: «Facebook» nel 1989!), sfasature rispetto al ‘nostro’ mondo, a partire dai dettagli più banali – un frigorifero che ronza benché non sia collegato (p. 5) – fino all’astronomia: l’argento si coltiva (!) su Saturno (p. 7) e i bradipi del bestiario sono tali nomine tantum, dato che si tratta di bestie senzienti, e festaiole, che vengono dalla Luna (p. 59).
Spesso la pagina prende le mosse da un nome famoso della storia della cultura, ricontestualizzandoli in modo irreverente, imprevisto: «Buddy Holly si sposò nel 1958 […] a Torsanlorenzo» (p. 24), Alfred Jarry cerca moglie fra i pinguini (p. 31), «la salma di Moby Dick» è esposta nelle catacombe di Anzio (p. 32), Edipo è invitato ai congressi degli psicanalisti (pp. 42s.), e «La caverna di Platone era la stanza dove giocavamo con Gianna e le sue interiora esposte» (p. 60). Un periodo, quest’ultimo, da spezzare il fiato per come precipita a capofitto nella brutalità; ma potrebbe ben sembrare una tattica di shock molto a buon mercato se nel prosieguo del raccontino l’autore non raccogliesse la sfida gettata a sé stesso: e invece nella paginetta così introdotta l’accanimento delle sevizie blasfeme attinge il parossismo.
Siccome l’oltranza e l’originalità stanno tutte nell’inventio, la lingua evita ogni espressionismo, ogni scarto troppo marcato verso l’alto o verso il basso; lessico e sintassi sono piani, trasparenti, a volte persino leggermente ‘giornalistici’. Si è già detto dell’abilità nel montaggio: e la scrittura di Galloni ha molto di cinematografico. Bisogna specificare che è proprio di montaggio delle immagini, in senso registico, che si parla, e non del montaggio di materiali linguistici praticato dagli sperimentali. Sa partire da un campo lungo o da un primo piano; sa chiudere sul più bello dopo una lenta preparazione (come a p. 30: «E così partii. ») e iniziare dal momento culminante, anzi un attimo dopo (p. 38: «Era morto; se ne accorse con l’ultimo pugno. »), per poi divagare in direzione inattesa. Come i maestri del terrore, sa creare tensione senza che accada nulla: basta stare in una casa con le pareti di vetro, in attesa dell’arrivo degli Altri; o visitare un mattatoio pieno di strumenti di morte e macellazione ma senza animali in vista. Alterna punti di vista soggettivi e oggettivi, prima e terza persona, e accennando in miniatura a generi diversi – dalla lettera alla biografia, dalla confessione all’apologo.
Tutti segni, in conclusione, che Galloni è uno scrittore – anche se forse non uno scrittore con cui vorreste che uscisse vostr* figli*.
E come scrittore rientra senz’altro nella categoria, spirituale non anagrafica, dei “boy writers” individuata da Paul Auster per i genialoidi come Poe, Pynchon o lo stesso Borges: inventivi e sfrontati, esaltati dalle loro stesse continue trovate, innamorati del gioco della letteratura e capaci d’innamorarne il lettore.
Mai parco di proclami dal vivo e sui social, l’autore ha da ultimo annunciato l’inaridimento dell’ispirazione e il silenzio. Già ce lo immaginiamo, come un Rimbaud del 2020, darsi a traffici loschi non in Africa ma sul deep web… E se invece la prossima tappa fosse proprio il «romanzo lirico-pornografico» (p. 9)?
Gabriele Galloni, Sonno giapponese, Ancona, italic & pequod, 2019, 73 pp., € 13,00.