Nato nel 1945 nella provincia della Francia centrale, Pierre Michon ha esordito a quasi quarant’anni con un libro folgorante, destinato a diventare un classico della letteratura francese contemporanea: Vies minuscules (1984). Da allora, quasi tutta la sua produzione ha esplorato il territorio del biografico letterario e finzionale: a partire da documenti fattuali e di archivio – sui quali interviene in maniera decisiva lo stile dello scrittore – e utilizzando la prima persona autobiografica come la terza eterobiografica, il modo storiografico e quello romanzesco, il frammento e il saggio, Pierre Michon ha lavorato – da Vie de Joseph Roulin (1988) a Les Onze (2009) – alla costruzione di una «autobiografia del genere umano»[1]. Che racconti le vite di contadini o grandi pittori, quello che conta per Michon è la «ricerca del minimo comun denominatore di umanità»[2] tra i pochi grandi personaggi della Storia e la miriade di piccole comparse che pure la attraversano. Iscrivendosi nella storia millenaria del récit de vie, Michon ha trovato una strada che si proietta molto più avanti: come la maggior parte delle sperimentazioni biografiche e biofinzionali contemporanee, si tratta non tanto di riattivare dei generi tradizionali quanto di inventare delle modalità totalmente nuove di raccontare una vita, storica o immaginata. Michon resta ancora oggi lo scrittore più “letterario” della sua generazione, nonché fra i più interessanti dal punto di vista formale, e l’attenzione che ha riscosso sin dall’esordio non ha fatto che aumentare, aprendo a ogni tipo di interpretazione.
Ciononostante, in Italia Pierre Michon resta pressoché sconosciuto, non solo al grande pubblico, soprattutto a causa di una storia editoriale assai strana. La prima traduzione e pubblicazione di un’opera di Michon si deve a Guanda, che nel 1990 pubblica in un solo volume Vie de Joseph Roulin (1988) e Maîtres et serviteurs, (1990)[3]; la seconda al piccolo editore Mavida, che una quindicina d’anni dopo fa uscire Rimbaud le fils (1991)[4]: entrambe tuttavia passano sotto silenzio. È infatti solo nel 2016 che Michon entra nel dibattito letterario italiano, quando Adelphi finalmente pubblica Vite minuscole[5], una raccolta di racconti biografici considerati come la svolta del genere della vita immaginaria e la pietra angolare della biofiction contemporanea.
Su questa scia Adelphi ha deciso di pubblicare lo scorso anno anche la traduzione (ad opera di Giuseppe Girimonti Greco) dell’ultimo dei testi importanti dello scrittore francese: Les Onze (2009), un récit storico-biografico in cui il periodo rivoluzionario guidato dal Comitato di Salute Pubblica è raccontato attraverso un quadro immaginario di un pittore inventato. Il protagonista, François-Élie Corentin, è un pittore affermato a cui nel 1794 viene commissionata la realizzazione di un quadro raffigurante gli undici uomini del Comitato (Billaud, Carnot, Prieur, Prieur, Couthon, Robespierre, Collot, Barère, Lindet, Saint-Just, Saint-André), simbolo del nuovo corso rivoluzionario che prenderà il nome di Terrore, destinato a essere esposto al Louvre e che darà al suo autore gloria eterna. Gli Undici è quindi un testo in cui ancora una volta storia e immaginazione sono mischiati, e in cui i documenti sono manipolati e riscritti dall’immaginazione dell’autore.
Prima di dire in che modo Michon compie questa operazione, soffermiamoci sulla genesi di quest’opera: l’idea di scrivere sul periodo finale della Rivoluzione francese risale al 1992, quando Michon redige la prima parte di un’opera che si sarebbe dovuta pubblicare l’anno dopo, in occasione del bicentenario del Terrore. Tuttavia, lo scrittore ne interrompe la stesura, poi la riprende (nel 1997 dichiara che sta scrivendo un «romanzo sul Terrore»[6]), ne pubblica degli estratti su rivista, per poi abbandonare definitivamente il progetto qualche anno dopo. Nel corso di un’intervista a France Culture del 2017[7], l’autore dichiara che se oggi leggiamo Gli Undici è perché nel 2008 il suo editore (Gérard Bobillier, delle edizioni Verdier), ammalatosi gravemente, gli ha chiesto di dare finalmente alle stampe quel romanzo sul Terrore: su questo impulso Michon scrive quindi una seconda parte e lo pubblica nel 2009, pochi mesi prima che Bobillier muoia.
Secondo lo scrittore però questo suo libro presenta parecchi problemi. Primo: l’incipit non lo soddisfa. Michon ha più volte dichiarato che la prima frase di un libro è decisiva, e l’attacco degli Undici è l’unico che non gli è riuscito. Quel «Era scialbo, di media statura, ma catturava l’attenzione con i suoi silenzi febbrili […]» gli sembra «un truc façon Balzac», non va bene. Secondo: non è finito. Certo, nessun libro è mai finito e tranne che nel caso delle Vite minuscole lo scrittore sente di non essere «mai arrivato dove voleva», ma in questo caso il problema è più profondo. Se nel 1993 ha abbandonato la stesura è proprio perché non riusciva a continuare, a passare dal racconto dell’infanzia del pittore al racconto di come dipinge questo quadro destinato a cambiare la storia dell’arte. Quindici anni dopo scrive questa parte ma ormai il progetto è cambiato, lui è cambiato: nel 1992 era ancora dentro quella “mitologia padre-figlio” che costituisce, a partire dalle Vies minuscules, il nodo poetico principale della prima parte della sua carriera letteraria. Infatti, nelle sue intenzioni il libro doveva avere una terza parte, «molto più interessante» delle prime due, che però non riesce a scrivere. Gli Undici è dunque un testo discontinuo, eterogeneo e monco. E allora, perché dovremmo leggerlo? Innanzitutto, proprio a causa della sua lunghissima gestazione questo testo racchiude una ricerca poetica trentennale: da un lato contiene tutti i temi e le ossessioni di Michon (il mondo rurale, la mancanza del padre, l’educazione letteraria come aspirazione religiosa, la salvifica figura materna), dall’altro costituisce, da un punto di vista formale ma non solo, un passo avanti nella scrittura biografica, un’evoluzione in direzione assolutamente contemporanea.
Quello che accomuna Gli Undici ai primi testi di Michon (soprattutto Maîtres et serviteurs) è prima di tutto il fatto di essere una serie di ritratti di pittori e poi il fatto di mettere al centro la questione della rappresentazione, «della sua vanità e della sua necessità», per dirla con le parole dello scrittore stesso[8]. Solo che questa volta il pittore di cui si racconta la vita è completamente inventato e quindi la rappresentazione del Terrore che il suo quadro fittizio propone è una speculazione storica (e per molti versi filosofica), un tentativo di comprendere un periodo decisivo attraverso la potenza dell’immaginazione e della verosimiglianza letteraria.
Raccontato in prima persona da un narratore non identificato, e rivolto a un altrettanto anonimo “signore”, Gli Undici si compone di due parti, ciascuna di quattro capitoli. La prima parte riferisce l’infanzia del protagonista: il punto di partenza è la descrizione di un ritratto dello stesso Corentin realizzato da Tiepolo (Michon dichiara che l’idea del libro gli è venuta come un «flash su un’alleanza tra Tiepolo e il Terrore»), alla quale segue – come si conviene a ogni biografia – la storia degli antenati del protagonista, prima del lato materno e poi di quello paterno. Questa genealogia inventata rispecchia da vicino quella reale dell’autore: le origini umili, la vocazione letteraria fallita del padre di Corentin e la sua fuga con relativo abbandono del figlio nonché le figure femminili come unico rifugio ricordano infatti il mondo delle Vite minuscole. Proprio il tema del desiderio di scrivere, di essere dei letterati riconosciuti, costituisce il trait-d’union con la Rivoluzione. Gli undici membri del Comitato raffigurati nel quadro sono infatti tutti (ad eccezione di uno) degli scrittori, e il narratore-autore individua in questo elemento la chiave per interpretare il quadro: Corentin avrebbe deciso infatti di rappresentare «la figura di suo padre sotto le sembianze degli undici uccisori del re, del Padre della nazione – gli undici parricidi, come chiamavano allora gli uccisori di monarchici» (p. 57).
Tuttavia, il cuore dell’operazione di Michon, l’interrogativo da cui muove tutto il racconto degli Undici, ovvero chi potrebbe aver commissionato un quadro eroico sul Terrore, e a quale scopo, si trova nella seconda parte, che racconta appunto di come il pittore Corentin finisca per realizzare quell’opera fino ad allora solo evocata. L’incontro e il dialogo fra alcuni rivoluzionari e il pittore servono a Michon per proporre un’interpretazione politica del quadro, e più in generale di ogni rappresentazione storica. L’invenzione del personaggio è dunque al servizio dell’invenzione del quadro, cioè di un’allegoria di un periodo di tragica incertezza, ambivalente e subdolo. Cosa significa l’anno II della Repubblica? Esito inevitabile dell’utopia rivoluzionaria, degenerazione assolutistica di un ideale diventato culto vuoto, o frutto di invidie e rivalità politiche umane troppo umane? Forse un quadro, proprio perché inventato, ci può dire dove finisce l’esercizio di un potere e dove inizia il suo simulacro fantasmatico.
Gli Undici è la finzione di una finzione, un esercizio di immaginazione che solo l’intelligenza di Michon è in grado di trasformare in un tentativo sensato di ricostruzione storica e di riflessione universale, invece che in uno sterile gioco letterario.
Li vede, signore? Tutti e undici, da sinistra a destra: […] Il Gran Comitato del Grande Terrore […] Un quadro improbabile, che non aveva ragione alcuna per esistere, che avrebbe benissimo potuto, anzi dovuto, non esistere, così improbabile che, al suo cospetto, ci sorprendiamo a rabbrividire al pensiero che avrebbe potuto non esistere, e abbiamo la percezione della straordinaria fortuna toccata alla Storia e a Corentin (p. 43).
Se tutto il testo si basa sui sintagmi discorsivi tipici del discorso biografico, da un punto di vista formale le due parti di cui si compone sono però molto diverse: nella prima parte non c’è narratività, tutto è riferito e non raccontato, mentre nella seconda il tono cambia drasticamente e il lettore entra finalmente nella scena dell’azione. Nella prima parte la biografia è data da brevi ritratti, schizzi frammentari, lampi evocativi e suggestivi; nella seconda dal racconto di azioni precise e dalla descrizione dei pensieri e dell’interiorità del protagonista.
Gli Undici è allo stesso tempo un ritratto storico, una biografia, una visione, un saggio: ma a differenza di molti altri libri di Michon qui le parti sono meno amalgamate fra di loro e l’eterogeneità resta eccessiva. Le ultime pagine, in cui si ragiona della fortuna del quadro presso Gericault e Michelet, preludono evidentemente a una terza parte mai pubblicata (e chissà se scritta), dando a Gli Undici l’aspetto di un affresco non finito. Eppure, anche qui, nel solito profluvio di immagini palesi e citazioni nascoste, di erudizione massiccia ma discreta, la potenza evocativa della scrittura di Michon è in grado di manifestarsi come ironia e come tragedia, con quella tenerezza e disperazione di cui tutti i suoi personaggi sono fatti.
Come molti autori di biofiction, Michon combina il gesto antico dell’elogio con il lavoro moderno dell’inchiesta: se Gli Undici si può leggere come la vita immaginaria di un pittore ma anche come una meditazione sul rapporto tra arte e Storia è perché la fiction di Michon è sempre uno spazio del sapere, un’affabulazione allucinata ma anche un’ermeneutica rigorosa, in cui convergono l’arte dell’individuale e la scienza dell’universale. D’altronde «ogni cosa reale esiste molte volte, tante volte, forse, quanti sono gli individui su questa terra» (p. 123): per questo, forse, continuiamo a credere alle menzogne della letteratura.
[1] Le Roi vient quand il veut : propos sur la littérature, 2007, p. 135-136.
[2] Idem
[3] Padroni e servitori, traduzione di Roberto Carifi, Guanda, 1990.
[4] Rimbaud il figlio, traduzione di Maurizio Ferrara, Mavida, 2005.
[5] Vite minuscole, traduzione di Leopoldo Carra, Adelphi, 2016.
[6] “Pierre Michon, un auteur majuscule”, propos recueillis par Therry Bayle, Le Magazine littéraire, n. 353, avril 1997.
[7] https://www.franceculture.fr/emissions/les-masterclasses/pierre-michon-les-entretiens-eveillent-des-idees-car-je-ne-les-prepare
[8] “Pierre Michon, un auteur majuscule”, propos recueillis par Therry Bayle, Le Magazine littéraire, n. 353, avril 1997.