Sopra, Maurizio Salabelle in una foto scattata nel maggio 2002 al Salone del Libro di Torino in occasione dell’uscita del romanzo L’altro inquilino. Si ringraziano la vedova, Lucia Casini, e la famiglia dello scrittore per il permesso di utilizzare la presente immagine.
L’anno corrente sta dimostrando a più riprese come l’anniversario, ormai vero e proprio format culturale, rappresenti uno degli ultimi espedienti a disposizione della letteratura per ritagliarsi qualche spazio all’interno della macchina mediatica nazionale. In anni in cui le occasioni di socializzazione letteraria sono sempre più asservite alle logiche dell’eventismo, ben vengano i numerosissimi articoli, iniziative e incontri dedicati ai duecento anni de L’infinito di Leopardi, ai cento dalla nascita di Primo Levi o ai cinquanta dal primo allunaggio; ben vengano anche perché non sembra essere rimasto molto altro per richiamare l’attenzione su autori, opere e fatti che hanno sempre costituito un terreno di conoscenza comune e condivisa, ma che col passare del tempo corrono il rischio di esserlo sempre meno.
Con un po’ di malizia si potrebbe ipotizzare l’esistenza di un rapporto di proporzione diretta tra la proliferazione degli anniversari letterari e la progressiva rimozione di ciò che ci si propone di ricordare e difendere, come suggeriva lapidariamente Guy Debord a proposito dei rapporti tra società spettacolare e temporalità: «Quest’epoca, che mostra a se stessa il proprio tempo essenzialmente come un ritorno precipitoso di innumerevoli e varie festività, è però anche un’epoca senza festa». D’altra parte, queste ricorrenze non vanno considerate a tutti i costi come sintomi di un malanno, ma soprattutto come pretesti per riprendere e proseguire discorsi interrotti che, per un motivo o per l’altro, ci sembra doveroso affrontare ancora una volta.
All’ombra dei numerosi anniversari appartenenti alla categoria dei pesi supermassimi che ricorrono in questo 2019, se ne nasconde uno che a prima vista sembrerebbe un peso leggero, se non addirittura un peso piuma: si tratta del sessantennale dalla nascita di Maurizio Salabelle, scrittore prematuramente scomparso nel 2003 all’età di quarantatré anni. Credo che Salabelle rappresenti uno di quei casi per i quali ogni occasione dovrebbe essere buona per parlarne, perché le sue pagine, che possiedono il non trascurabile pregio della vitalità, meriterebbero senza dubbio un pubblico più ampio. Scorrendo la cronologia della sua produzione ci si accorge di essere di fronte a un autore precoce e prolifico, in grado di pubblicare cinque romanzi in poco più di un decennio, ai quali va aggiunto il postumo La famiglia che perse tempo (Quodlibet 2015), il suo primo libro, in parte anticipato nell’antologia Narratori delle riserve (Feltrinelli 1992) curata da Gianni Celati, ma rimasto inedito per molti anni perché bloccato dalla continua presenza di altri suoi lavori di più recente stesura. Nel presentare il brano, che poi altro non era che una versione dell’incipit del romanzo in questione, Celati parla di una «strana mitezza comica» e di stramberie “in sordina”, entrambe ottime locuzioni da cui partire, perché suscitano, credo, un po’ di curiosità.
Già notato da Giuseppe Pontiggia, Salabelle viene scoperto da Ermanno Cavazzoni, che propone il manoscritto di Un assistente inaffidabile all’editore Bollati Boringhieri, per il quale lo stesso Cavazzoni lavorava come consulente all’inizio degli anni ’90. Il libro, pubblicato nel 1992, vale a Salabelle il Premio Giuseppe Berto Opera Prima, della cui giuria faceva parte anche un giovane Michele Mari, e la candidatura al Premio Narrativa Bergamo. Sempre per Bollati Boringhieri esce nel 1994 Il mio unico amico, al quale seguiranno Il maestro Atomi (Comix 1997; Casagrande 2004), Il caso del contabile (Garzanti 1999) e L’altro inquilino (Casagrande 2002), l’ultimo romanzo pubblicato in vita dall’autore.
La sua scomparsa ci ha privato di una delle voci più appartate e originali dell’ultimo decennio del Novecento e la difficilissima reperibilità nelle librerie di buona parte della sua produzione ha impedito che il suo nome attecchisse completamente anche fra gli addetti ai lavori, ostacolandone il meritato riconoscimento nei bilanci sulla letteratura italiana di quel periodo.
In media, per così dire, i quarant’anni sono un’età dove gli scrittori iniziano a consolidare la propria fisionomia e il proprio pubblico: qualcuno, in rari casi nel contesto italiano, si consacra. Con tristezza si constata il fatto che Salabelle sia stato strappato ai suoi lettori in un’età in cui gli autori di solito cominciano a scrivere qualcosa di davvero interessante. D’altro canto, questa stessa considerazione deve far riflettere sulla sua parabola di scrittore: forzatamente breve, certo, ma assolutamente significativa e ancora degna di attenzione.
La narrativa di Maurizio Salabelle può essere immaginata come una grande casa con numerose e coloratissime finestre, ma una sola porta: infatti una caratteristica tipica di molti suoi libri è la presenza di un narratore in prima persona, che è anche il protagonista della storia e che costituisce il punto di vista privilegiato attraverso il quale il lettore percepisce il mondo raccontato. Quasi sempre il narratore è un ragazzino dall’età e dalla fisionomia imprecisata, preadolescente o adolescente, figlio-di o nipote-di, o almeno così è in Un assistente inaffidabile, Il mio unico amico, Il maestro Atomi e La famiglia che perse tempo. Questa scelta dice qualcosa di importante sullo stile di Salabelle, che è sempre in grado di calare la sua fortissima personalità linguistica in un dettato che, per quanto stravagante e allucinatorio, si mantiene in ogni sua riga semplice, chiaro e definitorio, in linea con il modo con cui i personaggi dei suoi libri potrebbero registrare i dettagli della realtà che li circonda. Questa caratteristica lo rende un autore altamente consigliabile non solo a chi legge, ma anche a chi scrive, oltre che linguisticamente fruibile anche da giovani lettori, fatto che non moltissimi scrittori italiani possono a tutt’oggi vantare.
In un interessante testo pubblicato su «L’Indice dei libri del mese», segnalato anche nella bella ed esaustiva recensione di Elena Frontaloni a La famiglia che perse tempo apparsa su Nazione Indiana, Salabelle esplicita in maniera cristallina l’argomento principale della sua narrativa, a vario titolo declinato in tutti i suoi libri:
«Come un motore può essere applicato a un’automobile, a una pompa idraulica o a un generatore, così ogni romanzo ha il suo tema. Nel mio caso il tema è sempre lo stesso: i rapporti interpersonali, le difficili e goffe relazioni che ciascuno di noi intrattiene con coloro che lo circondano». Il contesto in cui tali rapporti si manifestano con più evidenza è la famiglia, istituzione le cui assurdità sono descritte da Salabelle in una maniera inconfondibile, in cui identificazione e alienazione sono due facce della stessa medaglia. Personalmente non ho mai letto un altro autore che rappresenti con eguale efficacia la situazione di ordinaria follia nota come “pasto in famiglia”.
È difficile trovare parole adatte a descrivere l’universo di Salabelle: nei suoi libri si trovano famiglie che pasteggiano a cracker e patatine, madri che lavano la frutta col detersivo e gare scolastiche dove gli alunni si sfidano a chi fa funzionare meglio gli elettrodomestici. Tutti gli adulti, ma in modo particolare i maschi, sono dei falliti afflitti dai disturbi più singolari e fantasiosi: lo zio Mariano di Un assistente inaffidabile si ritrova temporaneamente invecchiato di vent’anni a causa di un disguido burocratico; in Il mio unico amico, il signor Antonio Didgy, padre del narratore, ha una dipendenza patologica da un vecchio e pesante vocabolario che gli impedisce di vivere; il maestro Atomi che dà il nome all’omonimo romanzo (forse tra i più belli dedicati alla scuola) soffre di una depressione causata dal gioco delle carte, mentre il padre di La famiglia che perse tempo è portatore di un malanno che causa un’accelerazione del flusso temporale all’interno della sua casa. In questa dimensione dove svevianamente età adulta e malattia coincidono, il narratore non è mai un osservatore distaccato e ironico, bensì coinvolto, dentro all’insensatezza di ciò che accade anche se non totalmente conformato ad essa, come qualcuno che esegue goffo i passi di una coreografia mandata a memoria al quale talvolta capita di incespicare.
Salabelle è in grado di elaborare in ogni libro decine di immagini che restano scolpite nella memoria del lettore (ognuno “sceglie” le sue) e mostrano la stravaganza naturale della cosiddetta realtà. Per l’icasticità delle sue descrizioni, che sono la scaturigine profonda della sua vena narrativa, può essere accostato al già citato Perec, allo Schulz di Le botteghe color cannella o al Vian di La schiuma dei giorni. Da quanto detto si evince come la casa costituisca lo spazio fondamentale di questa narrativa, al quale si aggiungono altri elementi ricorrenti, come l’ambientazione urbana dei suoi romanzi, caratterizzata dalla presenza di strane rivendite e di ancor più strane agenzie per il lavoro, ma che ha sempre nella casa il suo centro emotivo. Anche in questo Salabelle ha qualcosa da insegnare: con un’economia di mezzi che meriterebbe ben altro approfondimento egli sa sempre descrivere città particolari e tipiche al contempo, in cui i protagonisti dei suoi libri si muovono in uno stato di perenne disorientamento e nelle quali ogni lettore può riconoscere i tratti familiari della sua personale provincia o periferia.
Volutamente ho utilizzato e suggerito delle qualifiche di significato contrario per descrivere la prosa di Salabelle: semplice e complessa, familiare e alienante, realistica e fantastica. È questa sorprendente sussistenza di spiriti contrari a garantire linfa inesauribile alle pagine di Salabelle, dove si ha l’impressione che «le cose (queste discariche di particolari) convivano come sposi vicino al divorzio, e quindi un po’ si vergognino del connubio forzato, e anche si facciano reciprocamente un po’ schifo», come osserva Cavazzoni in un significativo in memoriam pubblicato su «La Repubblica» a pochi giorni dalla scomparsa dell’autore. E risposte contrarie sono suscitate nel lettore, che stupisce a ogni riga e ghigna per le singole trovate, ma che tuttavia non riesce a scacciare una velata malinconia una volta conclusa la lettura.
Aiuta a spiegare meglio questa ulteriore contraddizione un pezzo apparso nel 1996 sul terzo numero della rivista «Il Semplice», intitolato La scatola di Minsky e considerabile come manifesto della poetica di Salabelle, che prende spunto dal famoso congegno ideato da Marvin Minsky, il quale, oltre ad essere uno dei pionieri dell’intelligenza artificiale, poteva vantare di essere l’inventore della «most useless machine ever made so far»: lo scatto del fortunato congegno prevede che, dopo l’accensione manuale dell’interruttore, un dito o una manina meccanica esca dalla scatola per spingere l’interruttore nel senso contrario, spegnendosi da sé. La descrizione di questo aggeggio serve e a Salabelle per fare un paragone con le opere letterarie, che a suo modo di vedere sono autoreferenziali, inattuali per costituzione, fondamentalmente inutili:
L’unica differenza è questa: mentre il costruttore della scatola conosce il funzionamento del meccanismo che la fa funzionare, sa dove ha sistemato questa o quella rotellina, l’autore di un romanzo è a conoscenza solo di ciò che appare in superficie. Addirittura, per chissà quale fenomeno, ignora l’esistenza di numerosi pistoni e cilindri che lui stesso ha messo in moto, e che sono nascosti all’interno del testo. Ma ciò, facendola restare sconosciuta, rende ancora più affascinante la letteratura.
Chi ha una qualche familiarità con le metafore teoriche di Giorgio Manganelli, non potrà fare a meno di scorgere una certa somiglianza di tono e di argomenti con le pagine di La letteratura come menzogna (1967) dedicate al funzionamento dell’opera letteraria, definita significativamente in quella sede come “ordigno letterario”. Queste immagini costruttivistiche sono proprie di chi ha una concezione retorico-artigianale della letteratura, di chi non si lascia solamente ispirare, ma appunto modella la propria scrittura a partire dai suoi meandri più profondi, soppesando le più piccole scelte e cercando di testare, per quanto possibile, ogni minima rondella del suo costrutto. Direi che Salabelle in tutti i suoi libri è riuscito a creare delle macchine complesse, giocosi e ben oliati emulatori di realtà, la cui cinematica è così naturale da occultare al lettore la nutrita presenza di ingranaggi dietro il velo della rappresentazione. Ars est celare artem dicevano i latini, un motto che Maurizio Salabelle ha onorato come pochi:
I libri che vale la pena di leggere […] sono quelli che hanno il meccanismo più ricco, complesso, misterioso e il cui funzionamento appare più semplice. L’unico modo per cercare di scoprirne il segreto è accostare le loro copertine all’orecchio e ascoltare il ronzio delle parti in movimento.