Che cos’è il postmoderno? Quale rapporto intercorre fra questo e l’orizzonte della modernità che costituisce ancora il nostro principale punto di riferimento culturale? Si tratta di una grande “cesura” dalla razionalità moderna, oppure di una moda? Oppure ancora di un intelligente espediente pubblicitario che, pur senza grandi innovazioni teoretiche, ha consentito ad intellettuali di dare maggior visibilità alle loro tesi, presentandosi in opposizione ad un mondo accademico incapace di rinnovarsi?
È difficile dare una risposta definitiva a queste domande : il postmoderno, infatti, risulta ancora troppo vicino a noi per poter essere studiato con la necessaria obiettività. Tuttavia, l’apparente oblio a cui è stata destinata quella definizione e l’allontanamento da essa di alcuni dei suoi protagonisti consentono di azzardare un bilancio di quell’esperienza. È proprio questa l’intenzione dell’ultimo libro Moderno e postmoderno. Un bilancio (Cortina, 2018) del filosofo milanese Elio Franzini. L’autore del saggio, rappresentante della scuola fenomenologica della Statale di Milano, è uno studioso di estetica e questo rende ancora più interessante l’operazione, dal momento che lo stesso termine “postmoderno”, nato all’interno della riflessione estetica, vede nella fenomenologia husserliana uno dei suoi bersagli polemici prediletti.
Nel libro di Franzini non si trova un’unica e definitiva definizione di postmoderno; se ne trovano molte, spesso non perfettamente combacianti fra loro: come ad esempio, “qualcosa di interno al moderno, come una sua esaltazione/esasperazione, come sua crisi che permette di vederne elementi non ancora giunti a maturazione”, ma anche “limite del moderno, che lo confina nel passato” (p.178). Questa apparente indeterminatezza è invece indice della serietà dell’operazione, distante dalle semplificazioni che leggono il moderno come il dispotismo della ragione e il postmoderno, invece, come il trionfo della non-ragione. I due oggetti del bilancio, infatti, sono termini culturali che non delimitano un periodo storico preciso e per questo l’obiettivo dell’autore è “mostrare la forza di “idee” nel quadro di una loro “fenomenologia”, che ha lo scopo di presentare quei nessi utili per comprendere come tali idee abbiano inciso sui percorsi generali della filosofia e della teoria della conoscenza» (p.18).
Franzini sostiene che un’interpretazione del postmoderno non possa essere in alcun modo slegata da una riflessione sul moderno. La modernità si presenta attraversata da fratture fin dalle sue origini, a partire dal tentativo di differenziarsi dalla cultura antica e medievale, come è testimoniato dalla querelle tra antichi e moderni che coinvolge gli intellettuali del XVII secolo. Questa opposizione originaria non interessa però esclusivamente quella stagione, ma esemplifica ciò che Franzini definisce come l’autentica essenza della modernità: un’epoca attraversata da fratture distinguibili in almeno due momenti essenziali, rappresentati simbolicamente dalle figure di Cartesio e di Vico.
La prima tendenza cartesiana è quella di un funzionalismo razionalista che si confronta con lo scetticismo per sospendere il giudizio su tutte le conoscenze accettate acriticamente e che elabora un metodo fondato sulla chiarezza e sulla distinzione dei concetti. Questo mondo della modernità si fa portatore di un nuovo senso, rappresentato dal passaggio dall’ontologia antica e medievale alla gnoseologia fondata sul soggetto; dalla fede nel Dio della rivelazione, alla metafisica del Dio dei filosofi; dalla scienza teorica e qualitativa al meccanicismo moderno della nuova e rivoluzionaria scienza sperimentale. La seconda tendenza, esemplificata dal pensiero di Vico, ma anche dalla corrente romantica della filosofia popolare di Mendelssohn, mostra subito la crisi immanente al filone cartesiano, recuperando l’importanza della tradizione antica e del mito, criticando lo specialismo della nuova scienza e il dogmatismo della nuova ragione. L’immagine che emerge dalla descrizione di Franzini è quella di una modernità liquida, ambivalente: «da un lato la coscienza di un io pensante per potersi orientare in questo mondo nuovo […] , dall’altro un mondo inteso come ambiguità, che non si può afferrare a partire da una sola verità assoluta» (p.30). È l’immagine dalla modernità come crisi, come frammentazione, che rimane però ancora descrivibile: forse è questa la grande differenza con il postmoderno. Il momento storico in cui emerge con maggiore evidenza questa frattura è sicuramente l’illuminismo e il dibattito su di esso tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo: lo “spirito enciclopedico” di Diderot e D’Alambert (anticipato dall’interessantissimo e imponente Dizionario storico e critico di Bayle) rappresenta il culmine del filone cartesiano della modernità. La crisi di questo ottimismo illuminista della ragione emerge nelle successive riflessioni di Hegel, secondo il quale l’illuminismo svela effettivamente il contenuto dello spirito moderno, «ma il suo concludersi nel terrore ne rivela non solo gli intrinseci limiti costitutivi, ma anche e soprattutto l’errore tragico che è alla sua base, la rigidità di un cupo ordire giudicativo e la violenza cieca che in esso si cela» (p.75). La vera essenza della modernità sarebbe allora una coscienza lacerata, dialettica, in cui «la ragione prende forma non come dimensione astratta, bensì nel divenire della storia e dei suoi paradossi» (p.80). Il tentativo disperato di Hegel di giungere ad una forma ultima di conciliazione riconoscendo nella contraddizione l’essenza delle cose viene abbandonato dai grandi spiriti moderni successivi. Benjamin, passando per Baudelaire, identificherà modernità e crisi: del mondo non è possibile alcuna comprensione razionale, né una conciliazione dialettica, ciò che rimane è solo «l’esplorazione di quegli istanti che la storia sembra avere dimenticato» (p.85) e l’arte come «testimonianza delle contraddizioni dell’epoca moderna… e dei suoi processi di mercificazione» (p.87). Alle riflessioni di Benjamin possono essere affiancate quelle di Simmel, che mostra come la modernità non sia «considerabile in un’unica teleologia, bensì possa essere soltanto “descritta”, e descritta all’interno di quell’irrisolvibile aporia in virtù della quale la vita è destinata a diventare realtà solo grazie al suo opposto, la forma» (p.92).
La modernità descritta da Franzini risulta essere un modo di abitare il mondo basato su una filosofia dell’ente fondata sul soggetto (e quindi sulla gnoseologia): una ragione aperta e finita, bene incarnata dallo spirito originario dell’illuminismo. Nessuna chiusura, quindi, nessun dogmatismo: «il moderno è pluralità dialogica e privilegiare una voce piuttosto che un’altra è solo il segno della scelta di una specifica curvatura interpretativa, non di una verità che si afferma a scapito delle altre» (p.110).
Dopo questa lunga “fenomenologia della modernità”, la seconda parte del volume di Franzini è dedicata alla postmodernità che a questa vorrebbe opporsi. Il termine “postmoderno” compare per la prima volta in un articolo dedicato alla teoria della architettura in cui Joseph Hudnut descrive l’abbandono del modello razionalistico del rigorismo funzionalista. È tuttavia nella celebre opera del filosofo Lyotard, La condizione postmoderna, che compare quella che probabilmente è la definizione più celebre di questa corrente culturale: la fine delle grandi narrazioni. Raccontare il postmodernismo come vorrebbe fare Franzini rischia quindi di essere una contraddizione in termini, ma questo è un rischio che deve essere corso per distruggere «le mitologie della sua autogeneratività» (p.117). Il saggio cerca di considerare schematicamente – per quanto possibile – tutte le esperienze che a diverso titolo sono rientrate sotto l’etichetta di postmoderno, mostrando come nessuna di esse costituisca una novità in senso assoluto. La riscoperta dei maestri del sospetto (Marx, Nietzsche e Freud), infatti, era già avvenuta all’interno della tradizione fenomenologica francese (si pensi alle ricerche di Paul Ricoeur), mentre la tradizione del decostruttivismo francese (forse la scena postmoderna per antonomasia), impegnata nella decostruzione di qualsiasi pretesa fondativa da parte del pensiero filosofico mostra un’intenzione critica non dissimile da quella che aveva animato alcuni momenti aurorali dell’illuminismo, ad esempio la celebre critica di Hume alla causalità metafisica.
La scena francese è sicuramente la più interessante per comprendere la presa di distanza del postmoderno dalla modernità e, allo stesso tempo, la sua dipendenza da essa. Foucault, attraverso il suo metodo genealogico, parcellizza la verità in una serie di giochi veritativi privi di un fondamento forte, nemmeno quello del soggetto chiamato a formulare il giudizio. Nelle ricerche realizzate assieme a Guattari, Deleuze cerca di mostrare come la ragione sia «la forma sublimata del pensiero, la sua immagine ripetitiva e dogmatica» (p. 139), superando la falsa dicotomia tra razionalismo e irrazionalismo, alla ricerca di nuovi valori in cui affermatività positiva e istanza critica non si escludano a vicenda. Se Foucault e Deleuze, a causa del loro perdurante anelito verso una qualche forma di positività, non riescono a discostarsi completamente dall’orizzonte della modernità, è invece il già citato Lyotard, secondo Franzini, a realizzare il tentativo più radicale di emancipazione dal modernismo. Egli rivolge il suo pensiero decostruttivo contro la pretesa fondativa della fenomenologia (tradizione da cui proveniva) attraverso il concetto di differenza (concetto niente affatto nuovo, anzi tipicamente moderno), che però viene declinato in un’accezione puramente negativa che lo rende irriducibile ad una prospettiva di carattere fenomenologico o dialettico (si pensi alla Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno, tentativo estremo di rispondere al problema della crisi della ragione senza abbandonare l’orizzonte concettuale tipico della modernità).
L’altro grande filone della postmodernità è costituito dalla radicalizzazione dell’ermeneutica. Ciò che emerge da questo pensiero è un mondo di simulacri: «un circolo vizioso dove non sempre le cose hanno il senso che appare, inaugurando una dispersiva molteplicità segnica. […] Il cosiddetto postmoderno segna una fase del consumo, un passaggio dalla trascendenza all’immanenza, l’ingresso in scena di un pensiero magico che crede nell’onnipotenza dei segni ed è dominato da una logica del consumo, che non è quella dell’appropriazione del valore d’uso dell’oggetto, bensì una logica della produzione e manipolazione dei loro significati sociali» (pp. 151,152). Protagonisti di questa corrente sono filosofi francesi come Baudrillard, critico di una società dei consumi basata su finti bisogni e interessato a spezzare la generalizzazione della significazione da lui giudicata repressiva, e Derrida, secondo il quale la decostruzione applicata al testo supera il concetto di rappresentazione tipico della modernità in favore di una molteplicità complessa e irriducibile della “cosa”. Il rischio di questa ermeneutica radicale e del postmodernismo in generale, secondo Franzini, è una deriva autoreferenziale «che sembra esaurirsi in una serie di pratiche, sempre più testuali e sempre meno connesse al senso reale del mondo e delle cose che lo abitano» (p. 159). L’immagine che l’autore, sulla scorta di Deleuze, sceglie per rappresentare (ecco un’altra contraddizione!) il postmoderno è quella del rizoma (modificazione del fusto tipica di alcune felci, simile a una radice): un principio di molteplicità senza più alcun rapporto con l’unità.
È particolarmente interessante la forma assunta dal postmoderno in Italia: il pensiero debole. Per certi versi l’esperienza italiana costituisce una sintesi di tutto ciò che è stato inteso fino ad ora per postmodernità: la fine della storia intesa come immobilità post-storica e la verità concepita come esperienza estetica e retorica, o come pratica discorsiva debole, priva di alcun fondamento. La debolezza con cui il postmoderno italiano definisce se stesso è da intendersi come frantumazione del senso, come un progetto incompiuto e non ultimabile. Come è evidente, il fenomenologo Franzini non può che prendere le distanze dal pensiero debole, nonostante il riscontro ottenuto in Italia: «sul piano epistemologico, le affermazioni postmoderne hanno in effetti un valore risibile che, come si è già osservato, riveste solo un vago senso etico, retorico, estetico […] anche sul piano ontologico il discorso non muta: rifiutando un ricorso fondativo alla verità, i fatti si sciolgono facilmente nelle loro interpretazioni e persino le gadameriane ontologie linguistiche si perdono nelle loro tracce testuali, negli eventi rizomatici» (p.171).
Qual è in conclusione la tesi di fondo che si può trarre dal lavoro di Franzini? Il saggio si basa sulla concezione del moderno come ragione costantemente in crisi. Non esiste alcuna vera ragione dispotica: anche nei suoi momenti più alti e forti la modernità ha sempre trovato in se stessa le ragioni per una critica immanente (come nel caso di Husserl, fra gli ultimi sostenitore di una concezione forte della ragione, autore de La crisi delle scienze europee). La ragione moderna procede per continue crisi, ma sempre all’interno del paradigma unitario del progetto di razionalizzazione del mondo (magistralmente descritto da Max Weber). Tutti i grandi critici della ragione moderna a cavallo tra ‘800 e ‘900, Husserl e Nietzsche per quanto riguarda la dimensione teoretica (ma bisogna notare che Heidegger parte da questi due autori e a sua volta sarà punto di riferimento per gli autori postmoderni), Weber e Schmitt per la dimensione socio-politica, si situano all’interno di questo comune destino della modernità.
Il tempo attuale si inscrive ancora all’interno di questo paradigma? È ancora possibile un’unità dei saperi all’interno di un orizzonte comune? È in fondo questa l’ultima domanda radicale lasciata in eredità dallo Husserl della Crisi. Da questo punto di vista il postmoderno sembra essere un sintomo (inconsapevole e spesso incoerente) di una dimensione dominata dall’incomunicabilità dei diversi specialismi, in cui il sapere più potente, il dispositivo tecno-scientifico, finisce per dominare gli altri, condannandoli all’irrilevanza. Sembra essere questa, quindi, l’inquietante verità che il saggio di Franzini offre al lettore attraverso l’analisi delle due correnti della modernità e della postmodernità, che in realtà si rivelano due momenti dell’unico destino di una ragione che procede e si sviluppa per crisi.
Elio Franzini, Moderno e postmoderno. Un bilancio, Raffaello Cortina, Milano 2018, 215 pp. € 20