Michele Mari ha dichiarato, nelle interviste a cura di Carlo Mazza Galanti Scuola di demoni (Minimumfax, 2019), di non comprendere il successo arriso alla sua prima raccolta poetica tanto amata dal pubblico, che gli pare viceversa secondaria nella sua produzione. Eppure presenta una seconda opera poetica (Dalla cripta, Einaudi 2019), che raggruppa testi scritti dagli anni Settanta ad oggi, ma con una marcata prevalenza degli antichi. Si dispongono su cinque sezioni, con in coda un poemetto e una Versione del canto XXIV dell’Iliade in endecasillabi sciolti. Rime amorose ed Esercitazioni comiche stanno tra loro a specchio: l’alta lode alla donna ed il suo abbassamento deformato. Siamo qui davvero nella tradizione, o meglio nel Manierismo su cui certa critica poco benevola ha inchiodato Mari (per esempio Berardinelli e il suo miglior allievo Marchesini che, in Casa di carte, a proposito di Leggenda privata scrive di “feticismo linguistico-sentimentale che non lascia spazio a nessuna autentica alterità”, p. 234) e che l’autore ha talvolta spavaldamente rivendicato (ancora nell’intervista citata all’inizio la concezione “ventriloquesca” della letteratura, che nasce dall’imitare o fare il verso agli autori più ammirati).
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Per quanto ci riguarda abbiamo sostenuto che in generale il rifacimento è servito per mettere del proprio, diventando l’assunzione dell’abito più adatto a un sentimento vero e vitale (i puntini celiniani per la furia amorosa di Rondini sul filo per fare un solo esempio ); in caso contrario si ha di fronte una spoglia vuota da indossare come i fantasmagorici vestiti nuovi dell’imperatore. Sembra purtroppo il caso di questi testi, in cui un giovane studioso assimila e restituisce senza soffio di poesia. Siano la forma del sonetto più o meno caudato, i protagonisti invocati (la “Donna gentile”, “Amore”), i motivi come quello prevalente della lontananza con l’amata, i riferimenti agli auctores (gli ultimi tre versi petrarcheschi di D’orto in occaso e da l’occaso a l’orto, quelli iniziali di Ancor che l’estensione di mia vita rimembranti Il pastore leopardiano), o ancora le figure (iterazione della “e” in Per un bel rettile o delle stesse sei parole in rima nella già citata Ancor che), le agudezas (“D’orto in occaso e da l’occaso a l’orto”; “se priso / prisa da voi”), il lessico (“guardo”, “beltade”, “imago”, “auro”, “spiro”, fino ad “appo”, “consorbe”).
Come già in passato la letteratura comico-realistica aveva un ché di meccanico nel ribaltamento puntuale di quella alta, se non appunto in pochi esempi convincenti per coincidenza formal-sentimentale o superiore bravura (Cecco Angiolieri esplicitamente citato dall’autore), così in Mari si trova l’artificio al quadrato, con invettive soprattutto su donne (“A sturalavandino è la sua bocca / esperta in succiolare i peggior cazzi / ai cani agli orbi agli appestati ai pazzi / e a quegli sventurati che gli tocca.”) o su personaggi sgraditi (“Questi smacvato e smunto si è il Vesnati, / suttil più che l’ossame di un sevpente / a più pallente ancov che gl’impiccati: / fa ‘l Segno se lo vedi, incontanente.”) che lasciano del tutto freddi. Così la sezione Versi d’occasione non si eleva dalla circostanza privata del matrimonio di un amico o del “genetliàco” del proprio professore universitario, in un clima da Accademia più o meno giocosa dei tempi molto andati. Il poemetto Atleide, dedicato al centravanti del Milan Mark Hateley, viene detto in nota “commossa epicizzazione come purissima mitopoiesi autosensata”, ma si risolve in 1140 noiosissimi versi, più pindarici che parodici, che ritraggono i calciatori del derby come avrebbero fatto antichi e colti liceali per divertirsi tra loro.
Le poche cose che ci paiono riuscite sono quelle, bisogna ripetersi (e del resto si tratta di un punto nodale nell’interpretazione di tutta l’opera di Mari), dove si avverte il salutare rompersi della scorza, il superamento del gioco fine a se stesso. Per esempio il Lamento di Gianciotto Malatesta, in cui il piagnucoloso fallo dei due amanti che ha sempre messo alla berlina un personaggio tipico dell’autore, sfortunato e selvatico, viene rovesciato con molto acume e divertimento: qui è infatti il marito offeso ad aprire gli occhi sul tradimento attraverso la lettura dei poemi cavallereschi, secondo l’idea di letteratura conoscitiva e vendicativa che riconosciamo di Mari. Oppure la sezione Altre rime dove si rinvengono tracce sofferte di sé non soffocate ma esaltate dal virtuosismo. Ricordiamo in particolare alcune chiuse energiche: da Riconosco antichissimi furori, che richiama quanto sopra (Rondini e Gianciotto): “e maledir sol posso la coscienza / che ogni piacer mi nega di violenza.” Oppure, in occasione di un concorso per cattedra di scuola superiore, con l’altrui ripasso, goffo, frenetico e pietoso dell’ultimo minuto: “Eppur, forse, così, queste presenti / sei pagine di sconcio manuale, / dicon più vero il mal, veri gli stenti.” (Ripassano inesausti gli argomenti); la meditazione, non solo come omaggio alla tradizione, sulla fuga temporis, che rende incisivi la ripetizione ed il gioco di parole (“tempo non tempo di beati e tristi / che dell’umano hanno varcato il rivo, / esisti, o tempo? O tempo mio, resisti.”). Infine forse l’emblema araldico dell’intero corpus di Mari – che ha sempre insistito sul ruolo chiave dell’infanzia e degli anni di formazione attraverso la letteratura –, e che forse spiega il senso della presente raccolta come dei pubblicandi fumetti adolescenziali La morte attende vittime:
frammenti di memoria, noi e voi,
precipiti nel nulla a capofitto
perché il passato è tutto, e siamo suoi.
Tuttavia l’ossessione di portare tutto con sé può giocare brutti scherzi nella vita come in letteratura. Il problema degli incunaboli, del non rifinito e dell’abbandonato, si pone molto spesso, con annesse polemiche, alla morte degli autori che non hanno lasciato precise indicazioni testamentarie; a volte, come nel celebre caso di Kafka, anche in presenza delle indicazioni: qui la pubblicazione è stata una vera fortuna, ma non succede di frequente. Gli autori sono del resto perfettamente autorizzati a sottovalutare o a sopravvalutare le proprie opere. Quanto a queste nuove poesie di Mari l’editore avrà di certo calcolato ciò che si diceva in apertura della nostra riflessione, ovvero l’insperato successo di Cento d’amore a Ladyhawke.
Inoltre i lettori di Mari non sono numerosissimi ma molto fedeli e profondamente convinti delle sue qualità letterarie, cosicché, al modo dei veri e propri fans, amano avere tutto del loro beniamino; e più in particolare le reliquie biografiche che attengono in pieno al mito di un autore tanto connotato ed eccentrico, che scontornano appunto la sua “leggenda privata”. E forse un altro oggetto intriso di biografia e di estraneità alla poesia contemporanea non dispiacerà a molti. Resta il fatto che pubblicare da un lato scarica gli scrittori dalla vicinanza – talvolta marcescente e infettiva – del contenuto di cassetti troppo pieni o vetusti, offrendo in tal modo il panorama completo del buono e del meno buono, dall’altro però li cristallizza pure in opere non necessarie, lontane dalle proprie vette; sarà allora il tempo ad incaricarsi della selezione, relegando comunque nel perduto passato, secondo eterogenesi dei fini, quanto si voleva invece conservare.
Michele Mari, Dalla cripta, Torino, Einaudi, 2019, pp. 160. € 12,50.