Ci sono alcuni registi nella storia del cinema che hanno saputo non solo rappresentare delle storie fatte di luce e movimento, ma dato vita a interi mondi autosufficienti, ecosistemi narrativi che ritornavano di pellicola in pellicola, con il loro apparato iconografico estremamente riconoscibile. Basti pensare a François Truffaut e al personaggio di Antoine Doinel (interpretato da Jean-Pierre Léaud) di cui seguiamo la maturazione sia fisica che sentimentale, da I 400 colpi fino a Baci rubati; Federico Fellini e l’onnipresenza del circo oppure David Lynch e i suoi sogni dalla sintassi rigorosa. Infine c’è Quentin Tarantino, tra tutti forse il più ostinato costruttore di mondi paralleli in cui ridurre la vita a un paio d’ore di girato. C’era una volta a… Hollywood (Once Upon a Time in Hollywood) è infatti l’ultima trovata del regista di Pulp Fiction per affermare una visione totalizzante di cinema cara anche a Truffaut, il quale definiva la settima arte un mezzo per “migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, prolungare i giochi dell’infanzia”. Così Tarantino si affida nuovamente alla potenza ri-creatrice del cinema per immergerci in una catarsi di celluloide. A passare sotto la lente deformante della sua cinepresa – dopo la seconda guerra mondiale in Unglorious Basterds e la schiavitù in Django – è il tragico caso dell’omicidio dell’attrice Sharon Tate – moglie di Roman Polański – per mano della Manson family. Siamo agli ultimi scampoli dell’età dorata di Hollywood e l’efferato delitto chiude simbolicamente un’era. Lo spettatore attraversa Los Angeles dall’abitacolo dell’auto di Rick Dalton, attore di film western in declino (interpretato dal solito istrionico Di Caprio) e guidata da Cliff Booth (Brad Pitt) il suo stuntman da sempre, uomo schivo e misterioso, per alcuni colpevole dell’omicidio della moglie, diversi anni prima. È attraverso gli occhi di Rick e Cliff, due buddy guys figli del sogno assolato di Hollywood, che Tarantino ci mostra una città quasi sotto incantesimo, dove il male si spande con il profumo degli oleandri. Il film è in parte questo: un indugiare compiaciuto tra le vie private di Beverly hills a bordo di automobili velocissime, intervallato dal solito mosaico di citazioni tarantiniane, sempre più fitte, a intessere una rete di rimandi tra questa e le pellicole precedenti del regista, senza dimenticare l’ormai nota passione dello stesso per il western italiano (vedi la citazione a Nebraska Jim di Sergio Corbucci). Torna anche la figura dello stuntman, già vista in Death Proof con Stuntman Mike, la psicopatica controfigura che massacra un gruppo di ragazze a bordo del suo bolide (interpretato da Kurt Russel, presente anche in C’era Una Volta a… Hollywood). Tarantino sembra ossessionato da questa categoria professionale, tanto da affidare ad alcune controfigure piccole parti da attore in quest’ultima pellicola. Lo stuntman è come il nostro alter ego, appartenente a un piano di realtà che esiste parallelamente al nostro, separato come da un sottilissimo velo. Fidato scudiero di Rick Dalton, lo stuntman Cliff Booth in C’era una volta a… Hollywood è come un’ombra che si aggira per il set, parlando poco e agendo molto. L’ambiguità del personaggio lo rende fin da subito un’enigma agli occhi dello spettatore, che si attende da Cliff la più imprevista delle reazioni. I film di Tarantino sono del resto sempre caratterizzati da una tensione latente, come fossero pistole cariche impugnate da mani tremanti. A volte il dito scivola sul grilletto e fa una carneficina, altre volte l’arma si inceppa sul più bello, facendo tirare un sospiro di sollievo. Tarantino in fondo non fa altro che seguire alla lettera la lezione di Hitchcock sulla suspense: La bomba è sotto il tavolo e il pubblico lo sa, che esploda è solo una questione di tempo. In questo modo ogni dialogo diventa improvvisamente molto interessante, perché il pubblico partecipa alla scena. Spesso le bombe di Tarantino iniziano a ticchettare mesi prima dell’arrivo in sala della pellicola, con rumors diffusi ad arte ed enigmi da risolvere su cast e controverse scelte registiche. Prima dell’uscita del penultimo film, The Eightful Eight, si parlò per mesi del caso di un copione diffuso da un attore, che avrebbe svelato la trama e fatto quasi desistere il regista dal far uscire la pellicola; nel caso di C’era una volta a… Hollywood, oltre al alla scelta rischiosa di rievocare uno dei più inquietanti capitoli di cronaca americana, sono arrivate le polemiche in relazione a un poco lusinghiero ritratto del compianto Bruce Lee che compare nel film. Sembra quasi che Tarantino giochi con il pubblico a una sorta di Cluedo, fornendo indizi, più o meno fuorvianti, mescolando in ogni sequenza feticci ed elementi in grado di risolvere il mistero finale. Allo spettatore viene chiesto di rilassarsi, rimettere insieme i frammenti e partecipare alla genesi di un mondo che dura lo spazio di due ore, dove i piani si confondono, esattamente come i buoni e i cattivi, gli eroi e i semplici stuntman.