Ci sono libri che raccontano storie straordinarie e trascinano il lettore in un mondo di stravolgimenti radicali e scelte epiche. Poi ci sono libri che descrivono vite più comuni, dove si vive e si muore in modi banali, ma in cui a prendere forma nella narrazione è un’architettura di tensioni tra sistemi apparentemente distanti: una serie di aperture che permettono di vedere le cose in filigrana quando sono attraversate da una giusta luce. Ossa di sole (2016) di Mike McCormack appartiene a questa seconda categoria, e nella sua forma particolare riannoda i fili di una tradizione letteraria che passa per alcuni cardini della letteratura come Joyce e Beckett, indagando anche quei moti interiori che Auerbach riconosceva nella scrittura dei principali esponenti del modernismo. Ma la lezione qui è acquisita e interiorizzata, non ostentata. Da un punto di vista formale un rimando a quei riferimenti è evidente nell’organizzazione – o nella mancanza di organizzazione – dell’intero libro. Ossa di sole è infatti composto da un’unica frase che si estende attraverso le pagine, seguendo in certi punti un principio di versificazione lirico. Si inscrive così in quella linea ribattezzata dagli anglofoni con la categoria di “one sentence novel”, e che muovendo proprio dalle forme moderniste del monologo interiore e del flusso di coscienza arriva a noi passando, ad esempio, attraverso lavori come Storia di un oblio (2011) di Laurent Mauvigner. Proprio questa struttura particolare è valsa al lavoro di McCormack il Goldsmiths Prize nel 2016, mentre nel 2018 lo scrittore irlandese ha ottenuto il prestigioso International Dublin Literary Award. In questa sua forma, inoltre, il libro suona anche come una sorta di omaggio: all’Irlanda, in primo luogo, quella del passato e quella del presente, quella letteraria e quella reale, sconvolta dalla crisi economica scoppiata nel 2008 e dalle decisioni di politici e affaristi senza scrupoli. Ma in quelle stesse pagine trova anche spazio un omaggio alla fragilità dell’essere umano e ai continui dubbi, ripensamenti e rimpianti che ogni vita porta con sé nel momento in cui ci si ferma a pensare e a pesare il tempo.
E questo è proprio ciò che accade. Nel fluire ininterrotto di quell’unica frase, la narrazione segue i pensieri di Marcus Conway, spirito che torna nel mondo dei vivi ed è presentato seduto al tavolo della cucina di casa a ripercorrere alcuni episodi della sua vita fino al momento della morte. Questo monologo senza fine configura anche un movimento costante di oscillazioni e fluttuazioni, dove la voce disincarnata di Marcus si espande attraverso lo spazio e il tempo in un riverbero potenzialmente infinito. Una simile impressione sonora prende il lettore fin dalle prime pagine, che si aprono sui rintocchi “sistolici” della campana dell’Angelus a mezzogiorno del 2 novembre – il giorno dei morti – nella contea di Mayo, dove il narratore viveva insieme alla moglie Mairead dopo che i figli Agnes e Darragh avevano deciso di andarsene per cercare le loro strade altrove.
Qui già si trova un elemento radicato nella tradizione irlandese, secondo cui tra il giorno di ognissanti e quello dei morti le anime dei defunti possono tornare nel mondo dei vivi annullando il confine tra i due mondi. Quegli stessi rintocchi introducono poi il lettore nella conformazione geografica di un’Irlanda suburbana fatta di vallate, baie, colline e strade che si perdono lungo la linea di costa, verso la pura luce argentata riflessa sul mare: un paesaggio che riporta alla mente alcune descrizioni di William Butler Yeats, al netto però di ogni seconda natura data per assodata. Sempre nell’evocazione dei rintocchi della campana emerge anche la cattolica Irlanda, che torna con cadenza scandita in diverse parti del libro. Alcuni esempi si ritrovano nel caso dello scandalo destato in Marcus dalle opere esposte nella prima personale della figlia Agnes e interamente realizzate con il sangue; oppure nella reazione di Mairead di fronte al tradimento del marito; nelle tracce degli anni di seminario di Marcus, o ancora nelle descrizioni del flagello dell’acqua contaminata che condanna il paese e la stessa Mairead a sofferenze atroci, e trasforma le proteste contro le autorità in una sorta di collettivo rito di purificazione. In questi casi, però, la dimensione religiosa più superficiale sembra voler suggerire gli estremi di uno scontro che non si consuma mai apertamente, sia che si tratti di una contrapposizione generazionale, culturale o politica.
Lo stesso sentimento religioso, però, si struttura in altri casi su diversi gradi di profondità, fino ad aprire nella narrazione degli spazi volti a una comprensione più spirituale delle cose. È qui che la voce monologante, nella sua peregrinazione tra le più piccole variazioni della mente di Marcus, le sue visioni, i suoi ricordi, ma soprattutto i suoi dubbi sulla vita trascorsa interamente in quella piccola parte di mondo, si spalanca alla dimensione universale, pescando a piene mani nella forma delle epifanie joyciane e nella capacità della parola scritta di riscattare il mondo infimo a cui si è confinati.
Gli oggetti inanimati rivelano dunque inaspettate geometrie: i pezzi di un motore smontato sul pavimento sono la prova dell’instabilità e del caos che sostiene il mondo; le parti di una gigantesca turbina eolica trasportata per le vie del paese diventano «le ossa luminose di una creatura massiccia, estinta e dissotterrata» e sono un possibile presagio della fine; e dietro ad ogni minima imperfezione delle cose si cela il sintomo di una «imminente catastrofe» prodotta da forze oscure e ingovernabili. Nel seguire questa trama di connessioni emerge un altro movimento oscillatorio costante che attraversa la narrazione, un ritmo che alterna il vicino e il lontano, il presente e il passato, la materia e lo spirito, la vita e la morte, perché «la luce è piena di spiriti maligni e fantasmi, e il margine tra questo e l’altro mondo così nebuloso che ci vuol poco a ritrovarsi gomito a gomito coi morti», proprio come accade al lettore. Le stesse «ossa di sole», poi, non sono altro che il «rarefatto amalgama di tempo e luce il cui sviluppo è visibile ogni minuto del giorno». Ma tutto viene descritto come se fosse a un passo dal disfarsi e dal perdersi definitivamente, perché ogni riscatto fa anche i conti con il fallimento e con un’impossibilità altrettanto connaturata alle cose. Più di Joyce, è qui Beckett a fare da maestro.
Dalla sua posizione forse privilegiata di spirito che ritorna in vita per qualche ora, lo sguardo che l’ingegnere, il padre, il marito e il cittadino Marcus proietta sul mondo è sempre leggermente sfasato, e tutto sembra qualche grado fuori posto. Da questo piano differenziato e differenziale il suo monologo attraversa tutti i punti centrali della vita, dalla politica all’amore, dalla religione al lavoro, rimescolando continuamente il tutto all’interno di un caotico e interminabile srotolarsi del mondo, così come si srotola la sua riflessione. È una vita che non può fare a meno di scorrere, sempre e comunque, e che il lettore è costretto a seguire fino al limite estremo dell’estenuante prova letteraria che gli viene presentata da McCormack.