Tre paesaggi silenziosi, vuoti, si mostrano su altrettanti schermi, in rotazioni a 360°, che ne descrivono l’irrisolutezza. Siamo a Lima, ed è qui che emergono dal conflitto peruviano questi tre Scenari (Scenarios, 2014). Nel primo, “El Frontón” tra le nebbie si intravede un’isola di fronte alla costa di Lima. Un tempo qui sorgeva una prigione, ma l’edificio fu raso al suolo dalla Marina nel 1986. Quando accadde, al suo interno vi erano numerosi detenuti, l’80% dei quali appartenevano a Sendero Luminoso, un’organizzazione guerrigliera peruviana di ispirazione maoista, fondata da Abimael Guzmàn Reinoso contro il governo. La seconda visione abbraccia un paesaggio deserto, da cui emerge imprevista una grande discarica. Tra le macerie, i fumi di un’auto in fiamme si sciolgono nell’infinità di un deserto. Il terzo scenario mostra un cimitero clandestino, senza confini o cancelli, nell’area di una baraccopoli. Sopra l’area vola un avvoltoio. Le vittime di questo conflitto, durato dal 1980 al 2003, sono state oltre 69 mila, fra morti accertati e desaparecidos. Le atrocità e le violazioni dei diritti umani, compiute dai guerriglieri di Sendero, dal Movimiento Revolucionario Tupac Amaru e dalle forze militari di governo con l’obiettivo di controllare politicamente e militarmente il paese, entrano in Scenarios in punta di piedi.
La videocamera di Maya Watanabe, artista nata a Lima nel 1983 e che lavora principalmente con videoinstallazioni, si muove impercettibilmente su zone grigie della memoria. Fuori fuoco essa cattura fantasmi, che emergono con tensione da paesaggi quasi inermi, in cui i segni della violenza si intravedono, per poi essere nuovamente sommersi nel campo di un’estetica tanto gradevole quanto muta. La storia del Perù emerge sottilmente attraverso uno sguardo, la cui astrazione risponde a un sentire etico, che rifiuta l’esibizione e lo spettacolo. Uno sguardo in attesa.
Con controllo e distanza questa visione lavora nel vuoto di un teatro giapponese. La quiete del set su cui la videocamera ruota lentamente è stravolto dalla messa in scena di un disastro, diretto da una mano invisibile. La radicalità di Terremoto (Earthquake, 2017) è costruita attraverso la liricità della distruzione, ove l’incontrollato pare avere un effetto purificante. Lo stravolgimento delle illusioni e il dramma dell’effimero sono condensati in un set, astratti e ripuliti da ogni riferimento diretto alla Storia.
A 19 anni dalla fine ufficiale del conflitto interno del Perù, l’opera Liminal (2019) affronta le morti sospese delle 16.000 persone scomparse e di 6.000 corpi ancora non esumati dalle fosse comuni, corpi che attendono di essere riconosciuti e pianti. Il processo di identificazione dei corpi disseppelliti cerca di ristabilire la “personalità” delle vittime, di determinare la morte legale e di dare la possibilità alle famiglie di piangere chi non c’è più. Un archeologo e un antropologo forensi hanno il compito di identificare i cadaveri delle vittime dissotterrate dalle fosse comuni. Tra l’intervento di recupero dei resti umani e quello di analisi di laboratorio e identificazione, le spoglie si trovano in un limbo giuridico incerto, alle soglie di una soggettività, che è sia scomparsa sia deceduta.
Stasis (2018) è invece un’opera video che indaga il momento in cui un organismo, nello specifico una carpa cruciana, pur rimanendo in vita, subisce la sospensione di tutti i suoi processi metabolici, raggiungendo una situazione di criptobiosi. Attraverso l’induzione in laboratorio di questa animazione sospesa, la tecnica della biostasi, che in medicina viene sperimentata al fine di rallentare i processi metabolici in condizioni estreme (come in guerra) e per riuscire a curare i feriti, in Stasis è la finestra attraverso cui guardare il modo in cui viene preso tempo su taluni corpi in teatri di conflitto. Corpi in cui la sospensione delle attività vitali si confonde con la sospensione del diritto, anche del diritto alla vita.
E se una morte ufficiale comporta la cessazione del tempo e la decadenza del corpo, lo spazio tra le demarcazioni di vita e morte può forse essere ricucito dal dispositivo audiovisivo all’interno di un laboratorio.
Maya Watanabe nel mese di ottobre è in Italia: il 1° ha presentato Liminal al MAXXI di Roma, mentre dal 12 ottobre al 3 novembre Stasis sarà esposto al Museo BACO, a Bergamo. L’abbiamo intervistata durante questo suo passaggio.
In un parallelo con la combinazione di strategie di tolleranza al gelo e resistenza all’assenza di ossigeno della carpa cruciana, Stasis problematizza la distinzione tra vita e non vita e, a differenza di altre tue opere, dà un taglio scientifico a questa scelta. Perché hai deciso di avvicinarti al mondo scientifico nel tuo lavoro?
In Stasis ho voluto astrarre un soggetto ricorrente nel mio lavoro, per staccarlo da un contesto geopolitico. Ho voluto mostrare la distinzione tra vivo e non vivo in un contesto diverso e distaccato, che è l’ambito scientifico. Non c’è alcuna storia o storia politica legata a un paese in relazione al video. In Stasis ho voluto focalizzare la mia attenzione sul momento particolare in cui qualcosa è vivo o in cui il suo “essere vivo” è messo in discussione.
A proposito dello stato “non morto” che aleggia tra il vivente e il non vivente, in Stasis fai emergere paradigmi di potere molto precisi, in una sorta di ricostruzione di laboratorio: il modello terapeutico inscritto nella biostasi fa di essa una strategia di controllo e una metafora del modo in cui la forza può essere utilizzata all’interno di un sistema organizzativo a favore o a discapito di certi corpi. Potresti parlarci di questo stato di sospensione, in relazione alla tua produzione in senso lato, in cui è una costante la questione di ciò che è “uccidibile”, “seppellibile” e non morto.
Il non morto a cui mi riferisco è qualcosa che non è nemmeno vivo, qualcosa che rimane in uno spazio spettrale, in uno stato intermedio. Ciò che mi interessa in questo tipo di esistenza – non essere vivo e non essere morto – è che esso non fa riferimento al passato ma al presente: si tratta di fantasmi del passato nel presente. In questo senso anche nel lavoro Stasis ciò su cui volevo porre l’attenzione è uno stato che non è considerato vivo o non vivo, che può essere uno stato di per sé, che può essere riconosciuto come stato, che può essere riconosciuto come soggetto. Naturalmente questa sospensione è legata a preoccupazioni sul diritto e sulla giustizia, e ciò che è considerato vivo, ciò che è considerato un soggetto da riconoscere come tale, può essere parte di un sistema di giustizia. Questa è la base sotterranea del progetto, ma allo stesso tempo Stasis è molto specifico: la carpa cruciana, attraverso un processo di criogenesi, è in grado di rimanere in bilico tra questi due stati.
Perché hai deciso di filmare il video Stasis nell’edificio seicentesco del teatro anatomico di De Waag? Qual è il rapporto tra scienza e legge, che colleghi attraverso le tue immagini?
In primo luogo, stavo cercando un laboratorio “umido” dove poter fare l’esperimento, e così mi sono avvicinata all’edificio Waag. L’edificio ospita un’organizzazione chiamata The Waag Society, che opera tra arte, tecnologia e scienza. Ho presentato loro il progetto e si sono mostrati felici di ospitarlo. Poi ci siamo resi conto che era possibile mettere in scena l’esperimento in un ambiente diverso, e abbiamo così deciso di fare l’esperimento nel teatro anatomico seicentesco, che veniva utilizzato per eventi. Il teatro era libero, e sebbene non fosse pianificato la sua presenza come parte integrante del lavoro, è stata una bella coincidenza. C’era un teatro anatomico dove si studiava la morte, e io rispondevo anche alle condizioni di qualcuno o qualcosa che non è vivo o morto. Quindi, è stata una bella coincidenza e ho pensato che fosse il posto migliore per farlo, anche se l’edificio non appare direttamente nel video.
Nei tuoi video il tuo sguardo utilizza la camera da presa in un modo molto particolare rispetto alle tue indagini. Vi è un importante uso di viste macro ed è costante una prossimità fisica al soggetto che stai registrando. Questa vicinanza fa sì che, per esempio, il teatro anatomico non sia visibile nel campo dell’immagine. In Stasis, il fatto che il video sia stato registrato nell’edificio De Waag è un’informazione che tu dai allo spettatore in un testo di sala, ma che poi lo spettatore non riceve attraverso le immagini. Come emerge questa assenza nella materia che state registrando?
Ci sono molte cose nei miei video in generale che non si vedono e che sono parti molto importanti del progetto. In questo caso, registrare nel teatro anatomico è stata un’esperienza unica, perché sono molto appassionata di teatri anatomici e della scienza di quegli anni. Quindi il fatto che il teatro anatomico sia diventato il set del mio lavoro è stato più come una “grazia per me”, che non è per il progetto in sé. Per esempio, tutto il lavoro con i biologi non è visibile nel video e anche in Liminal, il mio ultimo progetto, c’è uno spettro enorme che non è visibile nel video. A realizzare il video è soprattutto l’approccio al video, l’etica al video. Il modo in cui ci si avvicina a qualcosa è di per sé un modo di relazionarsi con gli altri. In Stasis, sto negoziando il modo di relazionarmi con gli altri, e il controllo umano in un laboratorio. Quindi, ci sono molte cose che non sono visibili, ma che sono presenti nelle opere. Si tratta della mia visione etica più che di qualsiasi altra cosa.
Chi era lo scienziato con cui hai lavorato? Come avete lavorato insieme?
Lo scienziato che mi ha aiutato nella realizzazione di Stasis è un biologo dell’Università di Wageningen, nei Paesi Bassi. È un esperto di strategie adattive dei pesci, quindi sapeva tutto del processo di biostasi nelle carpe cruciane. Mi sono rivolta a lui per vedere se era possibile lavorare con l’università, ma alla fine non è stato possibile. In ambito scientifico c’è una legge per sperimentare con organismi vivi, che è la stessa per i pesci e per gli esseri umani. La legge dice che per sperimentare con organismi vivi è necessario avere scopi scientifici, ma il mio lavoro non era animato da alcuno scopo scientifico, cioè non avevo alcuna ipotesi scientifica da dimostrare. La soluzione che abbiamo trovato è stata di compromesso: lui mi ha dato le istruzioni per farlo correttamente, e poi abbiamo risposto a quelle condizioni alla Waag Society.
A proposito del tuo lavoro nella tua tesi di master hai scritto: «La sospensione metabolica nelle carpe cruciane e la transustanziazione dell’uomo di rame sono proposte come esperienza geontologica postcinematica». Vorremmo chiederti di approfondire questo punto.
Tutta la mia pratica è informata dal periodo di violenza che il Perù, il mio paese natale, ha attraversato. La violenza sugli altri è al centro delle mie opere visive; tutto ruota attorno alla morte. Per esempio, nelle questioni di chi è uccidibile e chi è afflitto, considero la politica intorno alla morte, la necropolitica, la politica del lutto. Tutte le mie opere toccano tali questioni.
Quindi, nella mia tesi di master ho preso due caratteristiche, o attributi dal dispositivo audiovisivo in generale (per non dire solo film o video): uno è il riordino del tempo (la capacità di fermare e giocare il tempo), e l’altro è la trasformazione della materia da corpo a “corpo filmico”. Ho collegato questi due elementi a fenomeni ambientali naturali. Uno è Stasis, che riflette sul modo in cui le carpe cruciane si fermano – o possono manipolare il tempo come l’apparecchio audiovisivo – e l’altro è the Copper Man, che era un minatore del 500 d.C., che è stato trovato in una miniera in Cile. Quando la miniera è improvvisamente crollata e il suo ingresso è stato ostruito, il minatore è rimasto intrappolato. C’è un particolare tipo di pietrificazione chiamato mineralizzazione per cui può accadere che tessuti molli circondati da minerali li assorbano. Questo accade con gli alberi come è successo nelle foreste pietrificate dell’Argentina, dove i tronchi sono diventati pietre. Lo stesso è accaduto a the Copper Man: esso non si è mummificato, ma è diventato rame. Il suo tessuto organico si è trasformato morfologicamente in minerale. Quindi il meccanismo di biostasi nelle carpe cruciane e la mineralizzazione di tessuti organici in The Copper Man sono due fenomeni ambientali che utilizzo per parlare di cinema, perché essi sono film realizzati da capacità ambientali. Essi sono come un film realizzato senza riprese.
So che c’è una grande comunità giapponese nel Perù, che vi è emigrata all’inizio del secolo scorso, e ricordo che hai indagato sulle tue origini mentre eri a Kyoto due anni fa per registrare Earthquakes. Vorremmo chiederti della storia del suo cognome: Watanabe.
Mio nonno era emigrato dal Giappone in Perù dopo la Restaurazione Meiji. La mia famiglia apparteneva alla casta dei samurai, e dopo la riforma tutti i loro privilegi sono caduti. A quel tempo molti giapponesi andarono alle Hawaii, in Brasile e in Perù. Durante la seconda guerra mondiale, il popolo giapponese fu perseguitato e deportato nei campi di concentramento negli Stati Uniti. Furono presi 1500 giapponesi dal Perù e così fu nascosto e cancellato il loro passato. Non sapevamo nulla dell’eredità giapponese della mia famiglia fino a quando non sono andata in Giappone. Quando ero lì, sono andata alla ricerca delle mie radici con il canale televisivo nazionale NHK e così ho scoperto che provengo da una famiglia di samurai.
Liminal racconta la tragedia delle fosse comuni e delle persone scomparse durante il conflitto interno peruviano, che oggi, quasi vent’anni dopo, sono ancora in attesa di essere riconosciute. Potresti parlarci della genesi di questo lavoro? Ci interessa in particolare il modo in cui hai tradotto lo status di transizione tra la “persona scomparsa” e la dichiarazione ufficiale di morte, come se la stessa sospensione legale fosse una forma di non morte.
Liminal è molto legato a Stasis: entrambi i video hanno a che fare con uno stato giuridico intermedio. In Liminal, quell’area è il limbo tra la scomparsa e il ripristino della cittadinanza, è il riconoscimento che vi è uno spazio che non né l’uno né l’altro: qualcosa che non è vivo o morto, ma che si trova in uno stato diverso. L’intero video è fuori fuoco, le immagini sono sfocate nella riflessione dello stato di sfocatura in cui si trovano i resti. È un video di un’ora e di tanto in tanto si vede uno scorcio che potrebbe essere un resto umano o che potrebbe essere una roccia. Quindi, ci vuole molto tempo per riconoscere che ciò che si sta guardando è una fossa comune. Quello spazio di sfocatura, di non riconoscimento, è la chiave del progetto. Ed ecco anche le questioni etiche di cui abbiamo parlato prima: esse riflettono il modo in cui ci si avvicina all’altro, alle famiglie delle vittime, che erano presenti anche nel momento della riesumazione. E anche, naturalmente, come ci si avvicina ai resti umani. Sono tutti altri senza voce, e tutto il lavoro riguarda il modo in cui si negozia tale rapporto. L’uso della macchina fotografica segue molto da vicino la visione etica sulla materia di cui mi sto occupando. Anche in questo caso, ci sono aspetti cruciali del lavoro che non sono necessariamente visibili, ma che lo modellano in assenza.
Guardando il tuo lavoro e leggendoti emerge con chiarezza l’importanza della scrittura come fase preparatoria della tua produzione visiva. Scrivere pare una dilatazione della osservazione stessa, un momento indispensabile per la definizione della struttura, un momento processuale necessario per controllare la densità della struttura della tua opera. A che velocità scorrono le parole e a che velocità le immagini? E qual è il limite di questo approccio visivo?
Scrivere mi aiuta ad organizzare le idee. C’è sempre una grande ricerca intorno ai miei progetti, ma sono sempre molto consapevole che una cosa è scrivere e l’altra è mostrare. Mostrare è informato dalla scrittura e dalla lettura, ma il modo in cui tali elementi entrano in forma non può essere letterale. Almeno è così che funziona per me. Più leggo, più idee provengono da un luogo visivo. In questi due progetti in particolare, Stasis e Liminal, poiché le immagini sono completamente astratte, è molto importante che ci sia una mediazione prima di incontrare il lavoro. Voglio che le persone sappiano in anticipo cosa stanno per guardare, così che l’informazione sia già con loro al momento di sperimentare il lavoro.
Le foto di questo articolo sono tratte, per gentile concessione dell’autrice, dalle opere:
Stasis (still), 2018 (in copertina)
Liminal (still), 2019
Sceneries (still), 2014