È uscito un nuovo libro di Francesco Maria Tipaldi. E la mia nota potrebbe finire qui, anzi dovrebbe: consumata dall’annuncio stesso. Dei veri libri di poesia, infatti, non si può che fare l’annuncio, indicarne la nascita, come di una stella, di una creatura; ogni altra parola non può che aggiungersi stonata, inadeguata, incongrua: di troppo. La poesia di Tipaldi è di quelle che impongono il silenzio, la contemplazione, lo stupore: è imbarazzante, fa ridere, ci rende isterici, ci sganasciamo dalle risate. La sua opera partecipa di una triplice natura: la rara potenza che hanno i frammenti sapienziali strappati dalle sabbie del tempo, l’oscena e stupida intimità delle confessioni adolescenziali e nondimeno suona come se fosse caduta dal cielo in un meteorite e tradotta da una lingua aliena. La scrittura di Tipaldi sembra ricordarci che la poesia è questo: apparizione dell’incongruo, straniamento, una mondo verbale che ci riporta a sentire il mondo che è, esattamente così come non è: «La madre pettina in giardino | bambine | che non invecchieranno. || Una scimmia con lo stomaco gonfio | mastica un porro» (p. 60).
Tipaldi non è al primo libro: il suo esordio data ormai più di dieci anni fa, con Humus del 2008 per la casa editrice L’Arcolaio. Sebbene si possa dire che la sua scrittura sia rimasta fedele ad alcuni topoi e tecniche di accostamento (da leggere a proposito l’ampio e preciso contributo di Roberto Batisti, Ritratto del poeta come giovane vitello, 2016), certo approfondendosi e perfezionandosi sempre più, dobbiamo riconoscere che l’incontro con i suoi versi è sempre un impatto salutare: vale sempre la pena di rileggerlo. La poesia di Tipaldi ha una funzione terapeutica, andrebbe prescritta a tutti, ma soprattutto ai cultori delle patrie lettere: pulisce le sporche turbine intellettuali di chi pretende che la poesia sia un certo contenuto o una certa forma (magari semplice, magari sperimentale). Spiazza ogni preconcetto e ci ricorda che la poesia è capacità di creazione transitoria di stati di intensità tragica: nulla più. Non si accontenta di essere delicato ornamento, né di essere il rifugio degli eufuisti dal verso cesellato, né dei masturbatori del metro o delle scimmiette da palco. Se ha una morale, è questa; se ha una responsabilità è quella degli effetti, non dei moventi. Come altro descrivere il frammento per esempio di p. 33, Opera del rapimento? Leggiamolo: «Con un grosso panno nella bocca sembra avere | uno sguardo più potente | è vero? | è sano che si veda quella vena verde?». Sembra un dialogo tratto da un film dei fratelli Cohen, ma condensato affinché non perdiate tempo con i dettagli inutili. Eppure potrebbe essere una lucida descrizione di cosa è la poesia. Siamo in una stanza, in compagnia di un serial killer omicida che non ha più la capacità di percepire pietà; di fronte ad una vittima inerme, terrorizzata, che sente su di sé il peso delle più disumane e possibili atrocità, l’unica cosa che la scrittura annota è l’effetto ottenuto: «uno sguardo più potente». A turbare è semmai l’imprevisto estetico, «quella vena verde» che per noi è il segno di una morte prossima, mentre per l’omicida (il poeta) è solamente, così, il dettaglio accidentale che altera il quadro. Il poeta è il killer, noi lettori siamo la vittima, siamo quello sguardo, quell’inerme vuoto spasimo delle pupille di fronte alla crudeltà senza limiti della natura.
Si badi a non psicologizzare. Il poeta è un omicida, un sadico mostruoso non perché questi siano fantasmi che gli si agitano nella testa; descrive semplicemente ciò che vede, incarna ciò che c’è: si mette nella posizione in cui la propria scrittura possa infine imitare il processo del mondo e – come scrisse il poeta John Giorno – Life is a killer: nel mondo non c’è che morte, insensata morte; l’umano è produzione di morte. Questa certezza ci viene dalla ripubblicazione in questo volume di una serie di aforismi (come chiamarli?), che già sono stati editi nel pregevole volumetto Nuova poesia extraterrestre (Carteggi letterari, 2016) dal titolo Missioni (p. 41). Qui Tipaldi compone un elenco dell’assurdo che provoca, snudandoli, alcuni stereotipi della nostra specie (per esempio: «Gli astronauti urinano in sacchette disgustose e pure sono eroi»); ma soprattutto svela a quale “piano” l’umanità sia soggetta, a quale automa, a quale macchina, senza per lo più saperlo: «Pianifichiamo di esportare la vita, ma in realtà è la morte | (e non dite che è lo stesso)».
Tipaldi fa parte – che lo sappia o no – della grande progenie di scrittori di cui fanno parte anche Leopardi, Baudelaire, Rimbaud, Burroughs, Ranchetti. La sua poesia riconduce sempre il lettore al terrore dell’assurdo, alla percezione di quanto l’umano, dietro il paesaggio, sia sempre adagiato sotto lo sguardo impassibile e spietato dello «sterminator Vesevo». L’uomo, tutta la straordinaria storia intellettuale dell’uomo, la sua beltà, di fronte alla morte non è che sottise, ennui: «la diarrea ti coglie impreparato, potresti negarlo?». Di fronte a versi così (o frasi? Qui non importa), siamo ricondotti alla nostra miseria di specie umana, il cui Eden in fondo non è che farselo «leccare da una cagna»: «Se lo faceva leccare dalla cagna || come Adamo non se ne vergognava | non se ne vergognò. | La sera cantava, sniffava vernice dai secchi» (p. 43). In questo quadro, dove l’uomo e l’animale si confondono, diventano l’uno nell’altro, ma mai si identificano («un animale responsabile non è un animale»), l’impegno della riproduzione (il grande tema dell’amore) si rivela per quello che è, solo vanità e nostalgia: «L’alce squartata rammentò | la foga del padre || nel riprodursi» (p. 57). Cosa resta da fare, allora?
Niente di che: bisogna uccidere Dio. La cosa non è mai stata così tanto esplicita come in questo ultimo di Tipaldi. Era certo nell’aria: la poesia di Tipaldi ha da sempre adoperato l’immaginario cristiano-pagano, fin dalla poesia programmatica di apertura in Humus, La vergine delle galline. E anche la prima poesia di questo nuovo libro si apre con una variazione da Eliot sul viaggio dei magi: «… trovammo | il bambino putrefatto | il bambino che salvava nato morto» (p. 17). Ma a partire dalla sezione sei (vero e proprio punto di snodo), il libro prende in carico sempre più immagini che hanno a che fare il rito, in particolare con quel centro della ritualità cattolica, il mistero dei misteri, su cui tanto si è dibattuto nei secoli, ovvero la transustanziazione eucaristica: «Avete mai pensato che gli eventi | potessero arrivare a tanto, || che più di ogni cosa avrei voluto | che voi mi mangiaste?» (p. 59). Dopo aver sparato ad un mostro che «soffriva come Dio sulla terra» (p. 61), in una poesia Tipaldi scrive: «voi dovete mangiarmi | voi dovete | voi» (p. 62). E ancora la poesia Il sangue: «Lingua nera | metallico, amaro tra le labbra. || quale forma di te | quale vita porti a nutrimento?» (p. 63). A questa, segue una nuova sezione dove Tipaldi sperimenta come mai forse aveva fatto la possibilità con la sua poesia di creare sequenze narrative composte da più testi. Il tema è la resurrezione e chi opera il miracolo è un essere che ricorda Cristo, ma affonda nei meandri dell’età sciamaniche ed è qui chiamato «maiale cervo». Dopo aver mangiato il Dio (averlo ucciso), non resta che risorgere: non resta che diventare Dio. Ma un Dio che muore, ovviamente: che sa di dover morire. A che altro servirebbe la poesia? Non è una macchina per eternare alcunché, ma soltanto per «Annusare | il culo della morte» (p. 86). La scrittura poetica allora per Tipaldi diventa uno strumento per percepire reincarnazioni, immergersi «nel tendone segreto dove nascono i morti» (p. 88), un modo per passare «da nulla a nulla», una transustanziazione fine a se stessa, in cui è posto l’accento sul trans, sul passaggio: bisogna stare nel passaggio, diventare altro, non perché l’altro (il resuscitato) rappresenterebbe uno stato migliore rispetto a quello da cui si proviene (e in questo risiede tutta la blasfemia della poesia di Tipaldi: Dio forse non è altro che una «stazione zuppa di mosche», p. 89). Chi resuscita infatti non fa granché. Alla terza reincarnazione, vediamo il suicida «mentre si odora i piedi» e si prepara a morire nuovamente «a causa di un amore sbadato e formidabile» (p. 87). Insomma: «Questa è l’acqua che abbiamo, questa è la luce. || Non c’è altro» (p. 104). L’atto creativo permette semplicemente di tornare a quel «ricordo perduto», quel «fondo di orrore nella memoria | che mi digerisce» (p. 111).
È allora una poesia infinita quella che propone Tipaldi, una poesia del vortice, del movimento su stesso, non intorno a qualcosa, ma dello stare di qualcosa nel movimento stesso, nel vedere il proprio nascere e decomporsi come una spirale. Del resto è questo il significato letterale della parola inglese spin: “girare”, “ruotare”. Ma spin è anche di più. Spin è l’acronimo del nome del filosofo Spinoza che compare fra le pagine fuggevolmente (e per lo più in vestaglia, p. 78), e la cui filosofia dell’immanenza di un Deus sive Natura è sicuramente nelle corde del poeta. Ma spin è anche un termine della fisica quantistica: è un valore associato alle particelle che indica, in analogia al momento angolare, un effetto riscontrabile per via sperimentale, ovvero la produzione di un certo campo magnetico. La poesia di Tipaldi rapisce il lettore in una coazione a ripetere, una scena concettualmente sempre identica, un vortice che trova migliaia di forme per ripetersi e soprattutto per tornare al punto. Lo spin di una particella è così veloce che fisicamente non esiste se non nei suoi effetti. E il punto è non distrarsi, ma restare attenti al vortice mentre ti rapisce: «Amica mia, al mondo distrattamente si muore | ma anche | distrattamente si nasce» (p. 117)
Francesco Maria Tipaldi, Spin 11/10, LietoColle&pordenonelegge.it, Faloppio, 2019, € 13.