Non sempre è possibile rileggere un libro dopo più di dieci anni – o meglio: non tutti i libri reggono l’urto del tempo, perché il “tempo è un bastardo” – ma in molti casi l’esercizio di messa in prospettiva è più che utile. Senz’altro rileggere Gli interessi in comune di Vanni Santoni, dopo che nel 2008 era uscito per Feltrinelli e che, in seguito all’esaurimento delle copie, non fu mai ristampato, è un’operazione che lascia emergere la grana del tempo in maniera ancor più decisiva di quando accadeva allora. Anche nel 2008 il romanzo si mostrava per quello che era: non (soltanto) un impasto di pollini, funghi, miti chimici, sballi supremi, polveri, estratti, infusi stupefacenti, ma (anche e soprattutto) una stupefacente riflessione sul tempo. O meglio: la forza di quel romanzo era che di riflessione, intesa come Logos competente che prende la parola, ce n’era ben poca; tutto era forza, urto, emersione, emergenza che suppura, che s’addolora, che gode: «Per forza non riescono a combatterle: le droghe sono favolose. Se lo ammettessero, potrebbero anche trovare un modo per contrastarle», dice uno dei personaggi. Un flusso dionisiaco narrato con una padronanza del ritmo (sempre indiavolato, percussivo) e della lingua formidabili:

Mimmo è in treno. Delira violentemente, è una maschera di sudore gelato. Gli occhi, insonni e allucinati, sono cerchiati di pelle gonfia e livida. Cerca di dormire ma non può, ha troppo mal di stomaco e la testa gli fischia, ogni suono gli arriva in faccia come uno schiaffo. Vorrebbe TROPPO sdraiarsi nel corridoio del treno.

L’immediatezza apparente è frutto di uno studiato rapporto ritmico-armonico, la modularità prosastica è più modernista che mai, un’improvvisazione tra oralità e scrittura beat, torrenziale e anfetaminica, che mentre dipana gli episodi di questi “psiconauti” di provincia intesse un discorso-altro, una sorta di radiazione di fondo che frigge e disegna un perimetro mobile, slittante, che pare arrestarsi nell’apparente ripetizione delle situazioni e, invece, avanza.

 

Nel 2019, invece, è ancora più chiaro che Gli interessi in comune è una specie di grande catalogo di addii. Stavolta il rumore che all’epoca si sentiva come un’eco, una distorsione nelle casse della drum-machine narrativa, domina la scena. Adesso il testo dialoga con il suo spettro. I protagonisti – molti dei quali sono tornati nel Muro di casse (Laterza, 2015), nel geniale crossover fantasy dell’Impero del sogno (Mondadori, 2017) e nella Stanza profonda (2017: l’ombra della morte è più seria e dolente, più presente e sobria, come quando si accenna alla malattia del Paride: impossibile non leggere ora gli Interessi, sapendo cosa gli capiterà di lì a quindici anni) – i personaggi, insomma, sono ora dei fantasmi. Ne è l’esempio più fulgido il Mella (il futuro eroe dell’Impero del sogno, a testimonianza che questo cosmo, per l’autore, è tutt’altro che un fascicolo chiuso, ma anzi sempre consultabile, sempre aggiornabile, un open source testuale), che a metà del libro scompare.

 

Per certi versi la letteratura è fatta da corpi vivi che generano fantasmi brancolanti nel vuoto: una zona ectoplasmatica, un rito per fuochi fatui. Come nell’Infanzia berlinese Benjamin, mentre espone i suoi quadretti familiari dialoga col se stesso in fuga dalla persecuzione nazista, così, a loro modo, i valdarnesi degli Interessi in comune dialogano con una referenza che li vede ormai quasi quarantenni. Le loro voci si perdono nel caos di un mondo nel quale la Storia si è definitivamente riattivata.

 

Quello che Santoni scrisse fu un romanzo picaresco, che conservava due caratteristiche del genere: l’episodicità (all’epoca Wu Ming parlò di ‘epica’, per identificare quel soggetto-senza-centro che era il grappolo di personaggi tutti a loro modo protagonisti) e la postura giocosa. Sono storie di provincia che ruotano intorno alla droga, l’unico “interesse in comune” che hanno questi ragazzi ritratti negli anni 1995-2006, cioè dai loro 16 ai 27 anni. Iacopo, il Mella, il Paride, il Malpa, il Dimpe e molti altri – il gruppo non è mai un gruppo coeso, si ramifica, si spezza, si riforma, si remixa – vivono nel Valdarno, perlopiù a Figline. Vivono, cioè, in un’interzona post-rurale dove si è perduta la ritualità del mondo agreste, ma non la sua crudezza, quello stato di natura che domina la vita di provincia toscana (il bestiale Pelle), dove la tribalità è protezione e repulsione («è impossibile entrare in un gruppo di propria iniziativa: è sempre il gruppo che ti accoglie, mai tu che ti imponi»), lo sberleffo è disturbante. L’episodio in cui si racconta il suicidio di uno della compagnia è esemplare, in tal senso: il resoconto che svolge il Malpa agli amici del Bar Miro è un regesto di Grand Guignol, trucidamente anti-empatico. Le ipotesi che i ragazzi formulano per spiegarsi le ragioni del suicidio non possono che chiudersi su una indecidibilità: che siano state le compagnie, per le quali il disgraziato non era che una comparsa, o l’assenza di ragazze, tutti quanti devono convenire che, in fondo, nessuno lo conosceva poi così bene (bel altro tono è quello della Stanza profonda, dove l’avvenimento è ripreso da un’altra angolazione). Sono luoghi di campagne e residui ormai post-industriali, interstizi di una provincia espansa e metastorica. Questo gruppo mobile, a suo modo bruciato come la generazione dei déraciné degli anni Venti, ma non certo da una Guerra (semmai proprio da un’assenza di drammi, come scrive il Daniele Giglioli di Senza trauma, 2011), vive il proprio rapporto con gli acidi, i trip, MDMA, ketamina, cocaina, fumo, hashish, canapa, erba, morfina ecc. con grande giocosità. Sono vitali come gli eroi del Trainspotting (citato apertamente) di Irvine Welsh e, allo stesso modo, ritratti senza giudizio morale; sono meno distruttivi (inoltre temono l’eroina, perché «andava bene tutto, ma la roba no») e il loro milieu è assai diverso: al posto dell’Edimburgo proletaria e lercia leggiamo in queste pagine di una Figline paesana e, tutto sommato, borghese, così come piccolo o medio-borghesi sono tutti i giovani protagonisti. In entrambi i casi, però, sono individui disperatamente alla ricerca di una liberazione, tanto costruttiva quanto distruttiva. L’Inghilterra degli anni Ottanta o la provincia toscana della metà Novanta-metà Duemila sono, ad altezze cronologiche differenti, di fronte allo stesso demone: è la T.I.N.A. thatcheriana, il there’s no alternative, l’inevitabilità del discorso-del-capitalista, la devastazione psico-urbana.

 

Come dice Burroughs (citando a sua volta Eliot), per difendere il suo Pasto nudo dalle accuse di frammentarietà sconclusionata, anche qui ci troviamo al cospetto di una letteratura barbarica: si vedono soltanto i pannelli, mancano i raccordi, i gangli. Il fraseggio degli Interessi in comune corre rapsodico e selettivo (ma anche rigoroso e coerentissimo, anticipando una delle maggiori qualità del Santoni scrittore): i quadri sono isolati, legati tra loro da un’appartenenza che esiste soltanto in virtù dello strippo di turno. Rimane fuori tutto quello che si direbbe ‘il contesto’: non solo la Storia, ma anche la microfisica di una logica, i connettivi di un’illustrazione che sarebbe stata puro psicologismo o sociologia.

 

Invece oggi è possibile – e forse anche più che giusto – indagare quello che era rimasto ai margini, in tutta quella zona smangiucchiata – come i residui di cocaina che devono essere raschiati via con una ricaricard per farne una “raglia” o come l’oppio che s’appiccica all’epidermide – e che nel 2019 ha smarginato: Gli interessi in comune sono anche in tutto quello che è andato perduto nel tempo. «La verità vera, raga, è che dopo Genova la festa è finita. Per carità, i movimenti faranno ancora tanto, ma è bastato un morto e un po’ di bastonate», dice il Malpa durante una gita in Pratomagno che si concluderà con una tempesta di visioni e deliri sotto la pioggia. E ancora:

Pensiamo che tutto ci sia dovuto, ma mica possiamo fare altrimenti: non abbiamo mai lottato per qualcosa, mai subito un’ingiustizia vera. La riprova lo sai qual è? Invece di andare alla contromanifestazione ci facciamo la scampagnata allucinogena!

Non è un caso che qui si utilizzi il termine «festa» per designare un groppo di attività politiche: un lemma jesiano, fortemente connotato a livello di antropologia sia culturale che sociale; una parola che viene dalla Comune di Parigi, da quell’esperimento quasi extra-storico, davvero utopistico, che i cannoni avevano riportato al grado zero. “La festa è finita”: è questo il titolo del nostro capitolo di Storia più recente.

 

Il mondo del 2008 era quello appena traumatizzato, ma ancora residuale di anestesia, del post-Genova. Era il mondo dove ogni forma di protesta alla globalizzazione neoliberista era stata frantumata da una precisa ideologia di realpolitik. Era il mondo che si ammansiva su posizioni di docilità mainstream: gli anni del torpore. Ogni tentativo di dare alla mondializzazione una politica a tutela di entità socialmente deboli fu sgretolato da qualcosa di più grande che «un po’ di bastonate»: furono propaganda, negazionismo, individualizzazione, accelerazione narcisistica e ancora mobilitazione social-tecnologica, deregulation, sortilegio algoritmico. Fu l’attuazione dell’intuizione giovanile di Benjamin, la totale devozione alla teologia capitalistica. Vanni Santoni insiste moltissimo sull’incomunicabilità inter-generazionale: questi ragazzi, a parte l’ovvio interesse in comune, non hanno nulla da dirsi; spesso irrompono scene di desolante riconoscimento della condizione; negli intervalli liberi dalla “fattanza” non c’è alcun legame che possa tenere insieme il gruppo. Eppure, nonostante l’erosione della militanza politica, la necessità di reperire sostanze stupefacenti è comunque meglio del nulla e i Nostri lo sanno: «certo, noi non si parla mai di nulla di serio, ma almeno neanche di calcio, marche o vestiti».

La loro de-responsabilizzazione politica (quando il Malpa fa la sua improbabile sparata autoaccusatoria il Paride pensa tra sé che ha votato a destra, anche se non ricorda di averlo fatto) è forse soltanto la necessità di trovare uno spazio oltre a quello, ora insterilito, del tradizionale impegno: la comunanza tossica è pur sempre una forma di aggregazione, una forma di esplorazione intorno a un modello anti-competitivo, dunque anti-liberista. La militanza psichedelica è contro ogni disagio, lo sfruttamento, il nichilismo, l’edonismo batailliano e nucleare, o anche una seppur minima forma di redenzione miserabile. La tribù valdarnese è già una tribe, è già organizzata verso una forma coerente di resistenza (anche se quasi nessuno se ne rende conto). In Muro di casse sarà più compiutamente il rave party a offrire un «altro mondo […] possibile»; nella Stanza profonda saranno i giochi di ruolo laboratori di rivolta.

Qui, all’esordio nella narrazione di ampio respiro, Santoni inizia a curare il suo semenzaio, accosta, aggrega, nutre. Tutto è importante per riformulare l’irriducibilità del rapporto di sangue: lo spirito fondativo di una comunità, per quanto necessario, ha bisogno di una politica, non di un sentimento viscerale: «Il fatto è che nella nostra società consumistica manca qualsiasi tipo di rito d’iniziazione. I più svegli, come noi, in qualche modo lo sentono, e se li costruiscono da soli, i riti, con le sostanze».

 

Il 2019 che ha risvegliato dalla criogenia delle logiche editoriali questa «generazione di allucinati» è, oggi più di ieri, un mondo dominato dal realismo capitalista, dalle infestazioni indissolubili di passati mai realizzati, tornati a tormentarci in forma di poltergeist nostalgici, dall’impossibilità di immaginare un futuro: è questo il mondo di Mark Fisher (che Nero e Minimum Fax hanno e stanno portando in Italia con immensa gratitudine di molti lettori, come il sottoscritto) e che Vanni Santoni aveva impresso già undici anni fa sulla grammatura delle sue scorribande allucinogene. Con tutta evidenza una certa postura hauntologica della sua scrittura si accentuerà dagli Interessi in avanti: i libri successivi saranno sempre più intertestuali, avranno sempre più campionature, prestiti e così via, a testimoniare un’ulteriore virtù del lavoro narrativo di Santoni, ovvero la captazione di tutto quello che è ‘comune’, oltre alcuni ‘interessi’ specifici. È la via della comunanza, che si apre fin da ora, evidente nell’incoraggiamento che i personaggi si fanno a vicenda per scrivere un “manifesto”: i volantini che Iacopo attacca sui muri all’inizio – peraltro stancandosi ben presto – sono già adunanza, già assemblea (via Negri-Hardt?). Quel che è certo è che oggi, più del 2008, è indispensabile recuperare quel filo interrotto: disallestire la T.I.N.A. per ridarci un futuro o anche solo la possibilità di agire per immaginarne uno, per avere la Visione.


 

interessi in comuneVanni Santoni, Gli interessi in comune, Laterza, Roma-Bari 2019, 300 pp. 19,00€