È un po’ di tempo che penso che si debba parlare più di poetica che di libri di poesia, che per farlo non occorra tenere continuamente presente questo o quell’esperto, e che a farlo debbano essere innanzitutto i poeti, chi cioè mette continuamente le mani nella pasta di questa materia così sfuggente e al contempo così incandescente. Questi pensieri si sono maggiormente sostanziati quando ho incrociato per caso l’ultimo libro di Stefano Dal Bianco, Distratti dal silenzio. Diario di poesia contemporanea (Quodlibet, 2019). Si tratta di un insieme eterogeneo di contributi critici sulla poesia caratterizzati da gradi diversi di sistematicità argomentativa. Alcuni già usciti su libri e riviste (addirittura risalenti agli esordi del Dal Bianco teorico di poesia sulla rivista padovana «Scarto minimo», negli anni Ottanta), altri invece inediti (testi per interventi a convegni o incontri letterari più informali). Si tratta di una raccolta di riflessioni che si collocano però, come dice l’autore, più sul versante degli «interventi di poetica» che del saggio critico tradizionale, ritenendo l’autore che il poeta debba essere il principale teorico e responsabile della propria idea e prassi letteraria, il principale detentore di un sapere e che debba quindi prendere posizione, mostrando nondimeno una certa simpatica insofferenza (come l’autore stesso dice nell’introduzione) verso le teorie di letterati di professione e filosofi estetici. Bisogna precisare però che ciò non significa che gli strumenti teorici a disposizione di un critico letterario vengano sottovalutati (Dal Bianco è infatti un critico accademico); tuttavia, essi da soli non bastano per “fare” un poeta o per comprendere una poetica; per realizzare questo serve coniugare quegli strumenti e quelle conoscenze – più oggettivi o convenzionalmente accettati – con la dimensione umana ed esistenziale di chi scrive, cioè con l’esperienza della scrittura vissuta in prima persona e in quanto tale soggettiva e non riducibile a teorie precodificate.
Il libro è interessante appunto perché non si perde in sterili teorizzazioni ma, pur nella difficoltà della materia, scansa la retorica sull’argomento mirando sempre all’obiettivo: dire qualcosa di significativo sulla poesia, su ciò che la rende tale, a partire dalla propria esperienza, innanzitutto corporea, di poeta. Dico “corporea” perché l’autore mette spesso l’accento su questo termine: il corpo come luogo in cui la poesia nasce e si vive (l’esperienza concreta del singolo autore, la sua vita) ma anche come la base del ritmo del proprio respiro e della propria lingua, che è forse la caratteristica centrale del dire in versi per Dal Bianco. È il ritmo (inteso come insieme inestricabile di sintassi e intonazione del verso) che assicura consistenza e autenticità alla poesia ed esso non può che provenire dalla specificità come uomo del singolo autore; per questo esso può sorgere solo quando viene abbandonata ogni propensione verso uno stile già codificato, per quanto “grande” o classico possa essere (Due generi della rappresentazione). Il ritmo quindi come qualcosa che nasce dalle fondamenta biologiche dell’essere (tale è il corpo per ognuno di noi), che trova però la sua maturazione attraverso un rapporto dialettico, contrastato e doloroso con la dimensione del silenzio, in una concezione che potremmo quasi dire “mistico-religiosa” del fare poetico. Il silenzio rifiuta i significanti già pronti e deve essere attraversato dolorosamente e con pazienza perché ne emerga qualcosa da un punto di vista artistico. Si tratta tuttavia di un processo anche razionale, in cui l’attrito insito nella ricerca di un significato non già definito trova protezione negli argini offerti dalla forma, dalla cura linguistica, sintattica e metrica di quanto si scrive. La scrittura poetica può così essere vista come un tipo di resistenza formale, e quindi razionale, nello scontro tra la facile tendenza ad aderire ad una tradizione letteraria o all’uso di significati di facile consumo e l’esperienza della propria corporeità, che richiede invece modalità di espressione soggettive svincolate da ogni volontà di autoidentificazione e di appartenenza: «l’essere individuati può servire ad accrescere una sicurezza personale, può servire a fare scuola, ma diventa una cosa mostruosa se resta il sentimento dominante di chi scrive» (Sul progetto di scrittura dei poeti trentenni).
Non solo il ritmo. Risulta importante per l’autore trovare un equilibrio compositivo col quale il poeta possa tenersi equidistante tra i poli estremi dell’inclinazione naturale alla confessione intimistica ed egocentrica che tiene poco in considerazione le esigenze comunicative, e la spinta ad aderire pedissequamente alla realtà, fondando il proprio discorso su referenti chiari (e non di rado banali) e sulla forza oggettivante della nominazione. Infatti, se lo sforzo di sondare il silenzio deve essere assolutamente soggettivo (e in ciò sta il coraggio del poeta) esso non può non tenere conto dell’altro e della possibilità di individuare qualcosa di universale a partire dalla propria esperienza. Questo sforzo non deve però essere confuso con il desiderio di una dizione che non lasci spazio all’ambiguità e al mistero (insiti nella ricerca di un significato), affidandosi invece a stilemi e concetti precostituiti o scontati per essere accettata dal pubblico dei lettori. La via di mezzo può essere ritrovata in una poesia che si fondi su un corpo, un dolore, un’esperienza, una visione del mondo specifica del poeta e che usi una lingua semplice, non troppo distante da quella di uso quotidiano ma al contempo molto attenta al ritmo e alla forma, intesi come contenitori delle tensioni psichiche di chi scrive e delle tendenze autoreferenziali dell’io, ma anche della banalità in cui si può incorrere usando un linguaggio vicino a quello comune (Fra la vita e la poesia).
Resistere a queste due tendenze ha per Dal Bianco una connotazione etica, che non è secondaria nel processo di scrittura poetica: il fondare lo scrivere in versi sulla perlustrazione del silenzio e sull’elaborazione di quanto esso ha da offrirci su noi stessi e la realtà, ossia un rimando alla temporalità, all’ignoto e alla morte come esperienze inevitabili e universali. È compito della poesia avvicinare il lettore a queste dimensioni centrali dell’esperienza umana attraverso un lavoro sulla lingua, educando al contempo alla prassi di un più attento ascolto di sé e del mondo (La poesia di questi nostri giorni). Lo stile, l’attenzione formale sono un modo per rallentare il discorso su di sé e sulla realtà, facilitando la riflessione e l’emersione di una dimensione tragica dell’esistenza dal corpo stesso della lingua, senza dichiarazioni programmatiche o troppo esplicite (Il suono della lingua e il suono delle cose). In questo processo, la dimensione etica per il poeta sta anche nell’allontanarsi dal proprio io, nello stemperarlo attraverso la forma (pur sapendo di non poterne fare a meno, come pretendeva un certo sperimentalismo), facendo in modo che questa faciliti la comunicazione e non nasconda, recuperando quello che l’autore definisce una «dimensione comunitaria della poesia». Si tratta quindi di trovare uno stile che non sia imitazione e che aiuti a veicolare meglio al lettore quella quantità di vita e di esperienza personale (quella «commozione») che deve esserci in ogni poesia.
I saggi di Dal Bianco qui raccolti sono attraversati da una riflessione ampia sulla questione dello stile in poesia, inteso come insieme di elementi fonici, ritmici, sintattici, interpuntivi, metrici che costituiscono il cuore della poesia come genere letterario e che permettono al linguaggio poetico di comunicare e toccare la realtà con una sua peculiare efficacia. La questione dello stile è artistica, nel senso che ogni poeta deve trovare il suo senza aggrapparsi mimeticamente alla tradizione (qualunque essa sia), ma è anche etica, perché rappresenta quella barriera che impedisce l’immediata autoespressione dell’io (il narcisismo, l’egocentrismo) e facilita l’accesso al “silenzio”, alla dimensione più tragica e nascosta dell’esistenza di ognuno e di tutti (Metrica libera e biografia).
Nel complesso il libro si distingue per uno stile di scrittura riconoscibile (lessicalmente chiaro e preciso, caratterizzato da una certa ritmicità), una coerenza di fondo delle tematiche affrontate che collega i variegati testi inclusi, e soprattutto una profondità di pensiero sulla poesia, segnata da una sicurezza di sé mai nascosta al lettore; sicurezza che, se a volte può anche intimorire o distanziare, ha pochi eguali nel mondo letterario contemporaneo. Queste caratteristiche permettono all’appassionato di poesia di ampliare l’orizzonte del suo sguardo ben al di là di quanto non consentano di fare molti lavori recenti, più simili ad antologie storico-descrittive (e celebrative) dei poeti contemporanei in voga che a saggi di poetica veri e propri.
Un libro, questo di Dal Bianco, certamente capace di imprimere nella mente del lettore quanto sia decisivo, in poesia, il legame tra gli aspetti formali e l’esistenza di chi scrive.
Stefano Dal Bianco, Distratti dal silenzio, Maceata, Quodlibet, 2019, pp. 176. € 16.