Casa di foglie di Mark Danielewski (2000) ha rappresentato per anni uno dei crucci principali del bibliofilo italiano, o semplicemente del curioso di letteratura contemporanea: l’edizione Mondadori del romanzo, uscita nel 2005, è andata da tempo esaurita, costringendo chi volesse leggerlo a ricorrere a Epub piratati o all’edizione in lingua originale – entrambe soluzioni non delle più agevoli, considerate la mole e la lunghezza del testo. L’operazione di 66thand2nd allora merita veramente un applauso per il coraggio che dimostra, soprattutto nel contesto di un ambiente editoriale come quello italiano, che sembra avere dimenticato il valore della complessità letteraria; e lo merita ancora di più per la qualità della traduzione di Sara Reggiani e Leonardo Taiuti, che riescono a rendere con naturalezza la varietà dei registri e delle voci narranti, il loro contraddirsi e il loro amalgamarsi.
D’altra parte, se Casa di foglie ha scoraggiato così a lungo gli editori è perché chi sano di mente (oltre ai presenti, si capisce) potrebbe imbarcarsi nella lettura di un romanzo di settecento pagine, scritto in quattro o cinque font diversi, con note in dialogo e in contraddizione tra loro, note alle note, parti di testo cancellate, parti omesse, e disposizioni della pagina semplicemente deliranti? Ogni descrizione della veste fisica del romanzo non può rendergli giustizia; e se è proprio questa a rendere Casa di foglie così ostico e indecifrabile, è anche quanto ne fa un prodotto così ambito – e così frustrante da possedere solo in digitale. Capita, a volte, leggendo, di prendere le misure a un libro: di verificare quante pagine ha, in quante sezioni è diviso e con che criterio, per mappare mentalmente quanto ci si accinge a leggere. Con Casa di foglie è impossibile, l’unica possibilità è entrare nel testo e perdersi.
Anche un semplice riassunto della materia narrativa del testo ci trasmette un’idea della sua profonda eccentricità. Ho scritto e riscritto questo paragrafo diverse volte, perché ciascuna delle esposizioni che ne facevo mi sembrava parziale, mutila – e perché non sapevo da dove cominciare. Al centro di Casa di foglie c’è il cosiddetto Navidson Record, il documentario che Will Navidson, fotografo premio Pulitzer, comincia a girare quando si accorge che la casa dove si è appena trasferito con la famiglia è più grande all’interno di quanto sia all’esterno. Questo primo dettaglio (una sfasatura di appena pochi millimetri) si rivela presto come sintomo destabilizzante di una stranezza ben più radicale, perché nella casa cominciano ad apparire spazi che prima non c’erano, tra cui un corridoio che si spalanca su una cavità misteriosa, buia, apparentemente infinita. E come comincia l’esplorazione di quegli spazi, la situazione precipita rapidamente.
Ma le cose non sono così semplici – il che è tutto dire. Aprendo il libro, il lettore vedrà il nome di Mark Z. Danielewski da solo, nella pagina bianca; in quella successivo, “Casa di foglie di Zampanò, introduzione e note di Johnny Truant”[1]. Casa di foglie è infatti il commento a un commento a un film. Come ci informa Truant nella sua introduzione, l’enorme mole di materiale che rinviene nella casa del defunto Zampanò (morto in circostanze misteriose, con strani graffi accanto al suo cadavere) altro non è che il lungo commento accademico ed erudito al Navidson Record (peraltro, Casa di foglie sarebbe poi una seconda edizione, come ci informa la premessa: e infatti compaiono, accanto a quelle di Truant, anche le note di alcuni misteriosi redattori). Una massa inconcludente e composita, impossibile da districare:
Grovigli infiniti di parole che contorcendosi andavano a formare un significato, ma più spesso no, e si diramavano in frammenti sempre nuovi in cui mi sarei imbattuto più avanti – su vecchi fazzoletti, sui bordi sgualciti di una busta da lettere, una volta perfino sul retro di un francobollo; non c’era nulla, ma proprio nulla, su cui non fosse stato scritto qualcosa; tutto era ricoperto di anni e anni di dichiarazioni affidato all’inchiostro, sovrapposte, cancellate, corrette, scritte a mano, a macchina, leggibili, illeggibili, imperscrutabili, chiarissime, lacerate, macchiate, tenute insieme con lo scotch; alcune integre e linde, altre scolorite, bruciate o piegate e ripiegate così tante volte su loro stesse che le pieghe avevano ormai cancellato interi brani di dio solo sa cosa – senso? verità? inganno? Un’eredità profetica o folle, o forse niente del genere? Un espediente, in definitiva, per designare, descrivere, ricreare – scegliete un po’ voi la parola, io le ho finite; oppure ne ho ancora molte, ma perché? e per dire… cosa? (pp. XXII-XVIII).
Ma mentre le note di Zampanò sono ossessivamente puntigliose, infarcite di riferimenti dotti e di digressioni verbose e ponderose, quelle di Truant, un giovane tossico che vive ai margini di Los Angeles, non riguardano che la sua vita, e la spirale di paranoia e terrore in cui precipita dopo essere entrato in contatto con le pagine di Zampanò. Infine, come ci fa sapere Truant, non è mai esistito un film chiamato Navidson Record; e Zampanò, del resto, era cieco come una talpa.
Casa di foglie si sviluppa intorno a due direttrici principali: l’interpretazione e il trauma. Che il romanzo di Danielewski ruoti intorno ai problemi posti dall’interpretazione, e dunque dalla mancanza di autenticità dell’esperienza mediale contemporanea, è quasi lapalissiano. Siamo di fronte al commento di un commento di un film che non esiste, e il primo commento lo ha scritto un cieco, che nemmeno avrebbe potuto vederlo. Ancora, tutti i narratori sono inattendibili – dai redattori di cui non sappiamo nulla, a Zampanò che inventa i libri che cita, a Truant che scivola nel delirio paranoico, e sua madre (nelle lettere in appendice) confinata in manicomio. D’altra parte, «l’ironia sta nel fatto che non fa alcuna differenza se il documentario alla base di questo libro sia una mera fantasia. Zampanò ha sempre saputo che non ha importanza cosa sia vero e cosa no. Il risultato è lo stesso» (p. 3).
Danielewski gioca col suo tema con un inseguirsi lussureggiante di citazioni letterarie che è quasi impossibile elencare nella sua interezza; ed è talmente deliberato in questa sovrabbondanza di rimandi da far citare ad Harold Bloom un passo del suo stesso libro L’angoscia dell’influenza. Zampanò, ovviamente, viene da La strada di Fellini. L’onnivoro forsennarsi delle note rimanda a Infinite Jest. Il commento a del materiale inventato, commento nel quale si sviluppa un racconto biografico, è il medesimo espediente di Fuoco pallido di Nabokov – benché in Fuoco pallido il testo ci sia, mentre in Casa di foglie tutto quello che il lettore ha a disposizione sono gli appunti di Zampanò. La discesa nel ventre nella casa è insieme una catabasi dantesca e l’ingresso nella pancia della balena di Giona – ma del resto la casa stessa, inafferrabile, incomprensibile, è anche la balena bianca di Melville (Danielewski fa dire a Stephen King, circa il Navidson Record: «Si svincoli dai simboli. Certo, sono importanti, ma… guardi la balena di Achab. Quello sì che è un grande simbolo. Alcuni sostengono che rappresenti Dio, il mistero e il senso della vita. Altri l’assenza di scopo e il vuoto. Ma ciò che tendiamo a dimenticare è che la balena di Achab era in primo luogo questo, una balena», p. 378). Ma la casa è anche un labirinto, nel quale vive (lo si sente ringhiare) il Minotauro di Borges, e anzi, Borges stesso, sotto forma di Zampanò, cieco come lui.
E infine, a ricordarci che la copia della cosa non è la cosa stessa, c’è Pierre Menard. Danielewski fa compendiare brevemente il racconto di Borges a Zampanò in una nota del capitolo V (che Truant chiosa giustamente: «Come cazzo si fa a parlare di «squisita variazione» quando i due passi sono in tutto e per tutto identici?», p. 45); genialmente, Zampanò parla di Menard parlando dell’eco e dei sistemi di geolocalizzazione basati sul suono, evidentemente essenziali per spostarsi nel labirintico ventre oscuro della casa – discorsi quanto mai sentiti per un non vedente. Ma questo parallelismo non fa che sottolineare l’ovvio, e cioè che, come un pipistrello, anche il lettore si muove per questo labirinto testuale solo sfruttando echi e indizi di rimando, e che la superficie originale della realtà gli resta inaccessibile.
Le stesse tecnologie visuali (la fotografia e il cinema) hanno un ruolo ambiguo nel romanzo, e sono fonte di autorità (perché portano testimonianza della spaventosa aberrazione della casa) e di inganno (perché il Navidson Record, in fondo, non esiste). Quando amici in visita gli chiedono se nella nuova casa ha una camera oscura, Navidson, con atroce ironia, spalanca la porta sul corridoio che prima non c’era. Danielewski prende la questione di petto proprio nelle zone iniziali del volume: «Sebbene entusiasti e detrattori abbiano da sempre depredato i dizionari nel tentativo di descriverla o schernirla, la parola “autenticità” resta a tutt’oggi una fonte inesauribile di dibattito. Questa dilagante ossessione – di certificare l’autenticità o meno di nastri e bobine – solleva immancabilmente una questione secondaria e più generale: se con l’avvento della tecnologia digitale l’immagine abbia perso la sua un tempo indiscussa aderenza al reale» (p. 3). Al lettore del testo (o nel testo) non restano che simulacri ai quali è impossibile aggrapparsi, e che infatti portano, per compensazione nevrotica, all’abuso di interpretazione. Ma la rappresentazione, allo stesso tempo, è un veicolo del trauma, nella misura in cui le immagini riportano alla mente le sofferenze del passato, senza però (come l’eco) restituirle intere, ma mediate, parziali, inattingibili.
Il titolo stesso, Casa di foglie, evoca tanto il proliferare di testualità (fogli) quanto un senso di abbandono e caducità. Truant ritorna continuamente sul proprio passato traumatico, segnato dall’internamento della madre in un manicomio, mentre Zampanò rimugina sul figlio che non ha mai incontrato. Navidson è ossessionato dal ricordo di una fotografia che ha scattato a una bambina morente (la stessa fotografia che gli è valsa il Pulitzer), mentre sua moglie Karen dalle molestie del patrigno. Le profondità della casa, che cambiano costantemente dimensione, assumono proprietà coerenti con la personalità di chi si avventura; e il momento in cui i personaggi cominciano a perdersi al suo interno corrisponde letteralmente all’implosione dell’oggetto testuale. L’incontro col simulacro (con la reminiscenza del trauma) ha comunque effetti più che tangibili: Navidson perde il fratello nella casa, Truant la propria salute mentale, e Zampanò, forse, la vita.
Senza dubbio, nelle recensioni in uscita per questa nuova edizione, qualcuno parlerà di romanzo weird – è la moda ed è inevitabile, per cui non perdiamo nemmeno tempo a lamentarci; ma la verità è che un romanzo così coscienziosamente ossessionato dal doppio, dai problemi della rappresentazione e dalla riemersione del rimosso non può essere definito che come una testualità gotica. Il peso del modello documentario nell’horror contemporaneo, e della sua profonda ambiguità, può verificarlo chiunque abbia visto un horror uscito negli ultimi vent’anni – da The Blair Witch Project in poi, arrivato in sala solo un anno prima di Casa di foglie; mentre il perdurare dell’eco romanzesca del tema si può misurare in A Head Full of Ghosts, interessante e meno ambizioso esperimento di Paul Tremblay premiato con lo Stoker Award (2015). Quegli elementi che più paiono (e sono) postmoderni in Casa di foglie, dal doppio all’autenticità, hanno le loro radici e sono amplificati nella scelta del modo narrativo del romanzo gotico e horror.
Per quanto strano possa sembrare, l’angoscia di influenza e di riproduzione che attraversa il romanzo di Danielewski (quella che è una riduzione essenzialmente postmoderna del mondo a testualità) non soffoca l’architettura narrativa del testo o la costruzione dei personaggi, così come l’implosione dell’impaginazione non rende completamente impossibile seguire le loro storie (anche se non tutto il testo è leggibile e senz’altro non tutto verrà letto, di norma). In questo senso, Casa di foglie si situa, anche cronologicamente, a uno spartiacque tra la stagione del romanzo postmodernista, di cui raccoglie ancora massicciamente temi e stilemi, e quella del romanzo post-postmoderno, che non ha timore né di raccogliere i modelli narrativi del romanzo classico, né l’esempio della letteratura cosiddetta di genere (ma senza traccia dell’ironia e del pastiche che ne caratterizzavano la saltuaria ripresa postmoderna). Casa di foglie non è un romanzo sperimentale, ma un romanzo che raccoglie le sperimentazioni dei decenni precedenti per metterle al servizio di una narrazione che è anche, convintamente e spudoratamente, leggibile e coinvolgente; è un romanzo unico, in cui la riflessione metanarrativa e il procedere della trama e della crescita di personaggi credibili e umani procede di pari passo, senza appesantirsi a vicenda e anzi arricchendosi. Diceva Italo Calvino che per scrivere storie di fantasmi occorre per prima cosa non crederci: al contrario Danielewski, che invece ne sa scrivere davvero, sa che bisogna crederci con tutte le proprie forze.
[1] Si apprezza, peraltro, che gli artefici di questo splendido lavoro di traduzione siano stati menzionati nella stessa pagina di Zampanò e Johnny, e non in quella di Danielewski – hanno scelto di entrare, se vogliamo, nel corridoio di cinque minuti e mezzo.