“Gli ebrei fanno film epici, i palestinesi documentari”. È una frase di Jean-Luc Godard che il filosofo francese Jacques Rancière riprende in diversi saggi e interviste per sottolineare come il discorso critico si sia cristallizzato in categorie sempre più stereotipate. Chi vuole denunciare il mondo degli oppressi realizza opere documentaristiche, che si limitano a mostrare tale realtà in modo enfatico e scioccante per costringere lo spettatore a riconoscerne l’esistenza. Per Ranciere però l’arte non si dovrebbe accontentare di esibire le contraddizioni della realtà (e del capitalismo), ma dovrebbe riformularle e offrirne una nuova percezione. Piuttosto che l’ennesimo film che mostra gli occhi sofferenti e le difficili condizioni di vita degli oppressi, sarebbe ben più rivoluzionario fare una commedia, così da destabilizzare le categorie interpretative preesistetti, creare nuovi significati e connessioni permettendo così un più autentico confronto con la realtà.
In Parasite, palma d’oro a Cannes 2019, Bong Joon-ho segue esattamente questa strada. Già in Snowpiercer il regista coreano aveva raccontato la differenza di classe e l’emergenza climatica in modo innovativo, attraverso un fantasy distopico incentrato su un treno in cui gli ultimi sopravvissuti all’apocalisse viaggiano divisi in vagoni, i ricchi davanti e i poveri confinati in coda. Anche in Parasite Bong Joon-ho rappresenta i disagi economici del tardo capitalismo, stavolta però con un’opera a metà tra la commedia e il thriller.
La famiglia Ki-taek vive in uno scantinato e i genitori sono rimasti senza lavoro. La svolta arriva quando il figlio più piccolo trova un posto come insegnante di ripetizioni presso l’abbiente famiglia Park e con l’inganno riesce a far assumere tutti i suoi parenti: prima la sorella come insegnante d’arte, poi la madre come domestica e il padre come autista. Inizialmente Parasite ha il tono di una commedia degli equivoci, irresistibilmente divertente ma attraversata dalla tensione, poiché è chiaro che le insostenibili differenze di classe sono destinate ad esplodere. Se in Joker Todd Philipps usa la risata del suo protagonista per sottolineare uno scarto generato dall’ingiustizia sociale, Parasite provoca nel pubblico una risata isterica, produce disagio più che autentico divertimento. Lo spettatore è infatti costretto a interrogarsi sui reali motivi della sua risata e a riconoscerla come meccanismo di difesa per allontanare il dramma dell’iniquità sociale in cui anche lui è immerso.
Destabilizzante è anche il ritratto della realtà sociale offerto da Bong Joon-ho, che si allontana da un classico modello secondo cui i ricchi devono essere algidi e spietati. I Park si presentano invece come gentili e accoglienti; ma del resto, come nota la madre della famiglia Ki-taek, chi non sarebbe sorridente e cortese con tutti quei soldi? Pur con tratti psicologici diversi, tutti i personaggi appaiono intrappolati nella struttura sociale di cui fanno parte. Gli stereotipi sociali vengono così interrogati profondamente, fino a venire rovesciati: i parassiti sono infatti i Ki-taek, che si fanno strada con l’inganno perché non hanno altra possibilità, oppure i Park, la cui serenità e ricchezza pesa sull’intera società?
Pur assumendo una nuova prospettiva da cui guardare la realtà, Bong Joon-ho non sembra però trovare varchi di speranza per modificare i rapporti sociali dominanti. Come Joker, anche Parasite termina con un finale amaro: non una nichilistica distruzione come il film di Philipps, bensì una conclusione più cinica e crudele, che mostra come i Ki-taek, anche dopo il fallimento della loro ascesa, continuino ad affidarsi all’ascensore sociale, come se non ci fosse alternativa a questa narrazione palesemente falsa ma che è rimasta l’unica cosa a cui credere. Che due dei film di maggior successo di quest’anno si concentrino sulla lotta di classe fa capire quanto questo tema si stia imponendo al dibattito pubblico, ma è significativo che entrambe le opere, pur con strategie estetiche molto diverse, arrivino ad una conclusione piuttosto simile: il capitalismo è davvero l’ultima ideologia e non ce n’è via d’uscita, né con la violenza né con una risata.