Marco Carrera, il protagonista dell’ultimo romanzo di Sandro Veronesi (Il colibrì, La nave di Teseo, 2019), è uno stimato oftalmologo, fiorentino di nascita e romano di adozione. Quando riceve la visita (inattesa e non del tutto ortodossa) dello psicoanalista della moglie, venuto ad avvertirlo di un pericolo imminente, si apre l’ennesima crepa in un’esistenza segnata da colpi di scena e da peripezie di ogni genere.
Dopo questo inizio misterioso, che ricorda i migliori incipit (efficaci senza essere ruffiani) di Javier Marías, il tempo della storia fa sistematicamente la spola tra epoche diverse nella vita di Marco: dall’infanzia in una famiglia borghese e infelice, al primo – e unico – grande amore, fino alla maturità e alla vecchiaia.
Nelle sue diverse epoche, Marco Carrera frequenterà gli ambienti più diversi: i circoli di tennis e le piste da sci della Firenze bene, il quartiere Trieste di Roma, le pinete e le dune di Bolgheri; senza tralasciare l’altrove (Parigi, l’America), dove vivono gli ultimi affetti di Marco.
In una lettera che riceve da Luisa, la donna della sua vita, per questo tenuta da sempre alla giusta distanza, Marco si fa svelare il significato del soprannome che porta fin da bambino: «È stata un’illuminazione: tu sei davvero un colibrì. Ma non per le ragioni per cui ti è stato dato questo soprannome: tu sei un colibrì perché metti la tua energia nel restare fermo».
Le ragioni a cui allude Luisa – ragioni familiari, prima di tutto – erano legate a una condizione fisica: un disturbo della crescita ha condannato Marco a essere prima un bambino, poi un adolescente in miniatura. Che è, in fondo, il sogno perverso di ogni madre. Fu proprio mamma Letizia, infatti, a coniare quel soprannome per il figlio, non senza favoleggiare sulle sue proporzioni ridotte e perfette, e sulla sua levità, sulla grazia di quel bambino che non può diventare grande.
In un capitolo del romanzo che si sofferma sulla malattia di Marco, Letizia rifiuta, in particolare, l’insistenza con cui il marito, Probo, vorrebbe aiutare il figlio a crescere, iscrivendolo a un programma medico sperimentale. Per una volta, nei feroci conflitti familiari che agitano i Carrera, avrà la meglio il padre e, grazie alle cure, Marco sarà un ragazzo come tutti gli altri.
Che l’iniziativa della cura venga da Probo (e non da Letizia, influenzata nella sua professione di architetto dalle teorie morfogenetiche di D’Arcy Thompson) è una soluzione brillante, esemplare dei molti piani su cui Veronesi ingaggia il confronto con il suo arci-lettore: Probo, infatti, non è soltanto un ingegnere, ma un grande e celebrato realizzatore di plastici, che poi sono versioni in miniatura della realtà.
Ma la riproduzione in miniatura della realtà – gesto intellettualistico e astratto – deve essere confinata alla dimensione del lavoro oppure del passatempo. Dei suoi plastici Probo non parla mai con nessuno: sarà il figlio a riscoprirne il valore, al momento di vendere la casa di famiglia.
Quando Marco termina la cura e rientra nella media fisica dei suoi coetanei, smette di essere il colibrì. Non secondo Luisa, che appunto gli svela (o gli rimprovera) l’indaffarata immobilità che da sempre lo caratterizza.
I legami con il campo metaforico evocato dal soprannome del protagonista percorrono molte altre direttrici, che restano implicite nel romanzo: non è vero, come crede Luisa, che il colibrì sta sempre fermo. In realtà si affanna continuamente tra un fiore e l’altro. Nello stesso modo opera, febbrilmente, anche il principio organizzatore del racconto, che fa alternare in un disordine perfettamente calibrato (così funziona anche la nostra memoria) scene cronologicamente sparse, che vanno dal 1960 al 2018, per finire con una vertiginosa proiezione nel futuro.
Questo moto oscillatorio non tocca solo l’intreccio del romanzo, ma anche il gioco dell’enunciazione: alla voce del narratore esterno, minoritario nei romanzi di Veronesi, si alternano le lettere di Marco e Luisa, le email di Marco al fratello lontano e misteriosamente silente, gli sms e le telefonate allo psicoanalista della ex-moglie.
Solo assemblando e ricomponendo tutti i frammenti, ricostruiamo la vicenda di Marco Carrera, un Giobbe dei nostri giorni che, una tragedia dopo l’altra, troverà nella nipotina – che la madre ha deciso di chiamare Miraijin “Uomo del futuro”, nomen omen, e meglio ancora se la bambina è femmina – lo scopo della propria esistenza e la fede in un’umanità migliore.
Colpisce anche un altro meccanismo della “funzione colibrì”, un aspetto che sembra intimamente legato non solo all’orchestrazione di questo specifico romanzo ma anche, più in generale, alla scrittura di Veronesi.
Ricordo molto bene la delusione con cui, leggendo Caos calmo, mi resi conto che Veronesi aveva ripreso un racconto (questo) che circolava in rete nei primi anni Duemila. È la lunga scena del romanzo in cui Piquet, un collega del protagonista, contatta un servizio clienti taiwanese per lamentarsi che il “porta-tazza” del suo computer è difettoso. Seguono vari lost in translation, vale a dire tentativi goffi, comici e grotteschi per far capire ai tecnici taiwanesi dove esattamente si trova questo benedetto porta-tazza del computer. Che si rivela essere, infine, lo sportellino a scomparsa in cui inserire i cd/dvd.
Dicevo della mia delusione e del disappunto nel riconoscere, in questa scena, tutti gli elementi (certo, rivisitati e adattati al contesto del romanzo) di una storiella che circolava in rete grazie ai forum o per il tramite di quelle catene di sant’Antonio che intasavano le caselle email una ventina di anni fa. Da lettore ingenuo, mi era sembrata una clamorosa caduta di stile, un espediente per farcire un romanzo altrimenti bellissimo, al cui protagonista non succede niente: programmaticamente niente.
Non avevo ancora messo a fuoco come agisce, in Veronesi, la funzione colibrì. L’ultimo romanzo si conclude con un vero e proprio “apparato delle fonti”, in cui l’autore dichiara, cioè esibisce, i propri debiti. Come ci si rende conto leggendo quelle pagine, il nettare succhiato dal colibrì proviene dai fiori più vari: dalla grande letteratura, dai manga, dalla musica (classica, jazz, pop, ecc.), dal cinema, dalla saggistica, dai testi sacri.
«Nell’invenzione» scriveva Petrarca rifacendosi a un topos classico, «bisogna imitare le api, che non riportano i fiori come li hanno trovati, ma sanno comporre cera e miele con stupenda miscelazione. La vera eleganza sta nel fare proprio come le api, cioè riproporre con le nostre parole i pensieri altrui.»
Un racconto intarsiato nel romanzo – uno dei più belli, forse, insieme a Urania (capitolo-email in cui Marco si interroga sulle rare lacune che guastano la serie, altrimenti completa, dei romanzi Urania collezionati dal padre) – si intitola Ai mulinelli e si ispira a Il gorgo di Beppe Fenoglio, che inizia così: «Nostro padre si decise per il gorgo, e in tutta la nostra grossa famiglia soltanto io lo capii, che avevo nove anni ed ero l’ultimo».
Ed ecco l’attacco di Veronesi: «Irene Carrera si decise per i Mulinelli una sera d’agosto, e in tutta la famiglia se ne accorse soltanto Marco, che aveva quasi quindici anni ma ne dimostrava dodici per via di quella carenza ormonale che aveva».
Fatta eccezione per la ripresa quasi letterale dell’inizio e della fine, il racconto di Fenoglio è intensamente rielaborato (nell’appendice Veronesi dice di averne voluto fare «una cover»): non sarà il padre ma la sorella del protagonista ad allontanarsi in modo sospetto, con apparenti intenzioni suicide; non sarà il figlio ma il fratello a seguirla, unico di tutta la sua «grossa» e distratta famiglia borghese.
Come in Caos calmo, anche nel Colibrì tessere di varia provenienza sono, insomma, cesellate con grande maestria nella struttura del racconto. Sulla scia degli autori che praticano con profitto l’arte del furto letterario, Veronesi riscopre la natura più primitiva del romanzo, che nella Francia del secolo XII, dove il roman prese il nome che gli diamo ancora oggi, non si presentava come racconto originale ma come mise en roman, cioè trasposizione in lingua romanza, di una materia preesistente.
La funzione colibrì agisce, in definitiva, su tutti i livelli, dai meccanismi dell’inventio, alla costruzione, alla forma. Per quest’ultimo aspetto, aggiungo che pochi autori sono maestri, come Veronesi, nell’arte dello “stile parlato”, alternato a pagine letterariamente preziose o a veri e propri pezzi di bravura.
Una minoranza di scrittori è in grado di sfruttare questa mescolanza e pluralità di stili, fonti e punti prospettici, risultando convincenti presso strati di pubblico tra loro molto diversi – ognuno con le proprie esigenze e attese –, che vanno dal lettore da spiaggia in cerca del page-turner fino al critico più raffinato.
Insomma, non solo Veronesi riesce nell’acrobazia di ottenere unità, coerenza e originalità a partire da fonti e suggestioni diversissime tra loro, oltretutto rifuse in un intreccio decostruito, ma sostanzia la narrazione con epifanie e sorprese che, in definitiva, fanno la sua grandezza.
«Meglio sarebbe» continuava Petrarca «non fare come le api che vanno raccogliendo qua e là, ma come quei bachi un po’ più grandi che cavano la seta dalle proprie viscere e trarre da sé sostanza e forma.» Veronesi è più laborioso dell’ape e più produttivo del baco: è come il colibrì.
Sandro Veronesi, Il colibrì, La nave di Teseo 2019, pp. 368, € 17.