In una pagina di Des mois, il terzo pseudo-diario pubblicato nel 1967, Tommaso Landolfi si chiede se sia possibile, per uno scrittore, «guadagnarsi la vita inventando elzeviri». Lo scrittore originario di Pico, limitandosi solo alla collaborazione con il «Corriere della sera», scrisse molti raccontini ed elzeviri che furono successivamente raccolti in due volumi: il primo, Un paniere di chiocciole, pubblicato originariamente da Rizzoli nel 1968, comprendeva scritti risalenti agli anni 1963-1965, il secondo volume invece quelli composti tra il 1965 e il 1967. Quest’ultima serie fu pubblicata, sempre da Rizzoli, nel 1978, con il titolo di Del meno, testo che figura, tra l’altro, come l’ultimo libro uscito quando lo scrittore era ancora in vita. La collaborazione con il quotidiano continuò con regolarità fino al 1971, quando il lavoro dello scrittore sarà rallentato da una grave malattia (si consentirà qui una piccola parentesi: che impressione potrebbe fare oggi leggere un autore come Landolfi sulla terza pagina di uno dei quotidiani più venduti in Italia? All’epoca la scelta dei direttori di affidare questo spazio a Landolfi figurava certamente come un inserimento, simbolico, tra gli autori più significativi del panorama di allora, ma non si deve pensare che Landolfi aggiustasse la sua scrittura assecondando la linea moderata del giornale. Come scrive Giovanni Maccari, curatore di alcune opere landolfiane per Adelphi, il gioco è in realtà molto più sottile, perché «il contenuto radicale della sua scrittura si esprime a un livello impercettibile alle sonde del decoro borghese»).
Del meno, da molto tempo indisponibile, viene adesso ripubblicato da Adelphi (pp. 333, euro 15) all’interno del pregevole piano dell’editore di pubblicazione di tutte le opere dello scrittore: il libro offre al lettore una prospettiva diversa attraverso la quale inserirsi tra i meccanismi del curioso mondo tratteggiato da Landolfi oltre che proporre una differente angolatura per studiarne le mosse. Ciò che è importante sin dall’inizio sottolineare è come gli elzeviri costituiscano un luogo di interpretazione considerevole, nonostante per Landolfi questo tipo di scrittura apparisse, almeno attraverso i riscontri tra le sue carte, un lavoro in parte accessorio rispetto ad altri impieghi letterari. Sempre nella pagina di Des mois citata in precedenza, Landolfi scrive riguardo all’elzeviro: «si potrà andare avanti per un certo tempo, ma poi essi dovranno per forza diventare via via più fiacchi, e dovrà addirittura inaridirsi la fonte». Una dissimulazione? Una certa vergogna, non estranea a certi ragionamenti di Landolfi soprattutto quando il tema era la società e il costume? Si è portati a procedere in questa direzione perché in effetti tra le pagine di Del meno non sarà difficile rintracciare molti dei temi frequentati con maggiore assiduità da Landolfi, certe fissazioni o idiosincrasie che lo hanno accompagnato per gran parte della sua carriera. Eppure il titolo, in tono minore, potrebbe ingannare, perché potrebbe suggerire un momento di secondaria importanza: in realtà Del meno ha un valore significativo, perché è testimonianza di uno scavo profondo dell’autore nella sua opera e nella parola, modellata e stiracchiata per essere condensata nella misura breve dell’elzeviro (così si spiega anche il titolo scelto). Eppure questa asciugatura ha il pregio di portare Landolfi a una ricerca essenziale che finisce per riversarsi anche sulla sua stessa persona: «io, io: che scherzo di cattivo gusto il maledetto io». Già su questa linea si situa uno dei primi punti di raccordo tra questa raccolta e il resto dell’opera di Landolfi, sul valore che assume l’indagine sull’io e sul suo rapporto con la realtà: mediatore di questo rapporto è, ovviamente, la scrittura, che qui viene analizzata anche nella sua insufficienza nel riuscire a descrivere il mondo che l’uomo fronteggia quotidianamente, aprendo così al tema dell’inadeguatezza del linguaggio. Si può prendere a esempio l’elzeviro che si intitola Questione di orientamento, dove un evento comune, come quello di scrivere un biglietto di auguri, si trasforma per il protagonista C. in un incubo che rende evidente l’insufficienza della parola, che in questo frangente sembra quasi ribellarsi al suo fine: «avveniva così che il più insulso biglietto di auguri gli mutasse natura sotto la penna e gli divenisse, a suo marcio dispetto, un qualcosa di sofisticato e peregrino». Qui il disorientamento nasce dalla posizione scomoda dell’uomo davanti alla realtà, una posizione verso la quale non può correre in aiuto neanche la parola: privata del suo valore ontologico comunicativo e descrittivo essa diventa spia evidente di un’insufficienza che si palesa nell’esercizio della scrittura. Si tratta di uno degli spazi più importanti dell’opera di Landolfi, specchio della sua continua e tragica indagine sulla parola, magnificamente riassunta in alcuni suoi versi: «È vana la parola e non ci assiste» e «La parola significa. E ben questa / è la sua morte».
Scorrendo poi l’indice, salterà certo all’occhio un titolo particolare e curioso Nepomuceno: «Nel silenzio della notte – scrive Landolfi – è venuto a trovarmi un certo nepomuceno. Dico un certo, ma costui è in realtà una mia vecchia conoscenza. Il suo stato abituale è quello d’ombra: una semplice ombra, un cencio d’ombra simile, in nero, a un ragnatelo, che si posa qua e là sugli alberi del giardino e che il minimo alito di vento spazzia via e quasi dissolve per riaddensare a capriccio altrove» (e il suo muoversi sinuoso e sfuggevole richiama anche l’odradek kafkiano, che Landolfi descrive similmente in una pagina di Breve canzoniere come «una creatura misteriosa che nella rete del pentagramma s’avvolge, s’intriga e batte il capo»). Se ci si interrogherà su cosa sia questo strano essere, se esso abbia o meno un corrispettivo nel mondo fenomenico si resterà senza risposte certe. Anche questi elementi sono caratteristici dell’opera di Landolfi, che spesso ospita questi mostri costruiti interamente di linguaggio, mostri di significante che scatenano la stessa ripulsa e la stessa paura generate da creature reali. Sempre in uno dei diari, Rien va, per fare un possibile esempio, si presenta uno di questi animali, il «porrovio», «bestia folgorosa» che figura anche nel racconto Cancroregina, dove viene così descritto:
Il porrovio! Che bestia è il porrovio? Mi duole dire che io stesso non lo so, la medesima cosa mi capita colla beca. Lui ha un’aria tra il tapiro e il porco o il babirussa, è quasi senza collo… Da molto tempo la mia vita è ossessionata dalla ricerca o dalla sistemazione di parole. Il porrovio si aggira grigio nelle tenebre, il porrovio viene, va, il porrovio è una massa che io non posso inghiottire. Il porrovio non è una bestia: è una parola.
Eppure il fatto che un simile mostro appaia anche nel racconto pseudo-autobiografico Rien va è un aspetto forse ancora più interessante, simbolo di un cortocircuito del genere autobiografico ben testimoniato da questo ambiguo essere che torna a ossessionare lo scrittore:
Dallo studio per raggiungere il piano inferiore si deve attraversare… Stanotte ho incontrato la bestia folgorosa. Era lì nell’ombra. Un tempo la chiamai Porrovio e la definii una parola. Mentivo. È la mia bestia… BESTIA FOLGOROSA.
Questi due esempi sono solo alcune tra le moltissime occasioni che gli elzeviri di Del meno offrono al lettore per collegare punti differenti, e apparentemente lontani, dell’opera di Landolfi. Queste pagine, che dunque non possono in alcun modo essere derubricate a scritti d’occasione ma sono invece uno degli esiti più felici degli ultimi anni di vita di Landolfi, spalancano continuamente porte interpretative seducenti che danno la possibilità di ammirare lo scrittore nella sua interezza.