Tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019 mi è accaduto di leggere due romanzi – anzi, due autofiction – sul lavoro: entrambi italiani, celebrati e recenti, sono molto diversi poiché raccontano l’esperienza di due diverse generazioni. Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco (classe 1967) è la testimonianza, autobiografica, di un ingresso nel mondo del lavoro non difficile, ma insensato. Non è un caso che il libro si apra con il racconto dell’esperienza del padre di Falco, salito dalla Sicilia a Milano negli anni ‘50 per guidare i pullman dell’Atm. La parabola di Falco senior era tipica di quella generazione del dopoguerra per cui il lavoro – negli anni della ricostruzione, dell’emigrazione interna, del boom – era realizzazione umana e riscatto sociale. Premessa strutturalmente tutt’altro che superflua, perché consente il contrasto con la vicenda del figlio, che rinuncia a proseguire gli studi universitari non per ostacoli materiali ma per un’incapacità a adattarsi, a sentirli suoi e forieri di senso. L’irrequieto protagonista scoprirà però che lo stesso può dirsi di ciascuno dei lavori più o meno improbabili in cui s’imbarca senza convinzione anno dopo anno, fino alla decisione estrema, quasi da Bukowski sobrio, di mollare tutto per mantenersi con la scrittura e le scommesse sportive. Questa difficile integrazione in un meccanismo che già mostra l’imminente sfaldamento non è solo segno di un’idiosincrasia soggettiva, sì di uno svuotamento di senso progressivo, dell’esaurimento di un ciclo economico ma anche psicologico-collettivo.
Il pieno di felicità di Cecilia Ghidotti (classe 1984) racconta un’Italia – e un Occidente – dove tutti hanno fatto l’università, magari con indirizzo umanistico-letterario, ma di lavoro e di realizzazione non c’è per nessuno, soprattutto per chi spera di mettere a frutto i propri studi. E d’altronde, dopo tutti gl’investimenti fatti, non può rinunciare a provarci per declassarsi a coglitore di pomodori, come insegna il RAV. Sarebbe riduttivo sostenere che le dinamiche della classe disagiata (così citata a p. 166, con un corsivo che non lascia dubbi sulla natura di termine tecnico) trovino qui la loro traduzione narrativa; insomma che, sotto la comune insegna minimum fax, Il pieno di felicità sia una sorta di dimostrazione pratica della Teoria della classe disagiata. Anzitutto, perché già quel libro era un poema generazionale lirico-confessionale travestito (malamente: dove sono note e bibliografia, eh?) – per quanto la Teoria nel titolo abbia inevitabilmente attirato critiche di scarsa scientificità (d’altra parte, quanti saggi accademici hanno avuto un adattamento teatrale? Fondato su un nocciolo autobiografico, il romanzo di Ghidotti non pretende di ergersi a sistema, e così si sottrae alla critica rigorosa che giustamente tocca a chiunque allestisca, sia pure con modi pop e fuori dall’accademia, un edificio che ambisce a generalizzazioni filosofiche. Restituisce in compenso, come a un buon romanzo compete, il respiro (affannato, in questo caso) della ‘calda vita’, il senso di una realtà, come nessuna nota a piè pagina può fare.
Nel mio caso individuale, per certi versi, Ghidotti vince facile. Il corso di dottorato in Culture letterarie, filologiche e storiche seguito a Bologna dall’autrice l’ho frequentato anch’io negli stessi anni, e senza essere amici stretti ci si conosceva; evidente che persone, ambienti (dall’«ascensore dei docenti che […] porta direttamente al terzo piano del dipartimento di Italianistica» allo «svincolo di Casalecchio»), atmosfere ed esperienze spesso parallele anche quando non identiche emergano per un lettore come me con particolare vividezza. (Il fatto, poi, che chi studia la fonetica storica del greco antico e chi studia la narrativa italiana del nuovo millennio facciano lo stesso dottorato la dice lunga, a sua volta, sul caos della fusione di corsi e dipartimenti). Anche io ho imparato a conoscere l’«ecosistema delle conferenze», mi sono sfamato coi tramezzini dei Pret a Manger durante soggiorni di studio in UK, per un convegno a Helsinki ho alloggiato in un «monolocale coi pavimenti in legno […] in un quartiere chiamato Kallio», e ho avuto la fortuna di vincere un «bando per un assegno di ricerca di un anno, ma rinnovabile». E prima ancora avevo navigato le porosità di quello che Enrico Brizzi ineffabilmente chiamava «il mondo d’emmenthal dell’università» (in Jack Frusciante) ~ «le situazioni di formaggio dell’università» (in Tre ragazzi immaginari), e da raro bolognese nativo conosco a memoria la mitologia della Bologna ‘alternativa’ – da Guccini ai Wu Ming – che brilla negli occhi degli studenti fuorisede come Cecilia.
Quanto però queste pagine possono dire a chi non c’era? Si tratta del racconto di vite d’élite, chiuse nella torre d’avorio dell’accademia, di cui pure osano lamentarsi? Non credo. Fra le tante ragioni per cui il saggio di RAV è stato criticato c’è la presunta pretesa di spacciare per universale una condizione che riguarderebbe solo una fascia ridotta della nostra generazione, e a fortiori della società tutta (Ghidotti: «siamo troppi […] a fare domande per le posizioni di post-doc, per i posti di insegnamento, per gli assegni di ricerca […] Che poi siamo sempre gli stessi […] Cento, centoventi laureati»). Ed è vero che l’italiano medio, ad esempio le Iene, non ha la minima idea di che cosa sia un dottorato di ricerca. Ma proprio questa relativa oscurità non lo rende degno, comunque, di essere narrato? Se mi sentissi malmostoso, potrei replicare con le parole del poeta Flavio Santi:
“ – perché parlarti del giovane barista
solo per avere la coscienza
a posto, interclassista. Parlarti del suo
esistere a vuoto pensando
a figa, pop corn e rock and roll?
È più rappresentativo lui?
Guàrdati in giro: siamo più ricchi,
più colti, più belli. Il vero trauma
è il giovane laureato senza prospettive”
(da Il ragazzo X, Atelier, 2004)
Nelle pagine di Ghidotti, però, non c’è neanche questo sdegno da anima bella (il ‘ragazzo X’ di Santi d’altronde era letteralmente il clone di Giacomo Leopardi), un po’ passivo-aggressivo per quanto pienamente legittimo; e c’è, invece, parecchio rock’n’roll. Ecco, infatti, il loro massimo pregio: raccontare la nostra storia agli altri. A chi ci ha pazientemente pagato studi sempre più astrusi e specialistici, e magari non riesce a capire come sterminati curricula e prestigiosi soggiorni all’estero non ci abbiano già spalancato le porte non dico del successo ma almeno di una serena adultità. A chi, più giovane di noi, si chiede come abbiamo fatto e come facciamo tuttora a nutrire tanta fiducia nelle promesse di un sistema che palesemente non ha quasi più nulla da offrire. A chi, stando fuori dal sistema della ricerca e dell’educazione, se lo figura fantasiosamente come un giardino di delizie e una spietata consorteria massonica, scambiando i suoi vistosi e tragici difetti per complotto, e i suoi valori ideali(stici) per idillica realtà. E, infine, a chi si chiede come decenni di Erasmus e scambi europei abbiano portato all’Europa delle brexit e dei sovranismi con la schiuma alla bocca.
La trama del romanzo ricalca, in modo non lineare, un CV che nel suo andirivieni – ragazza bresciana studia Lettere a Bologna, fa la Scuola Holden a Torino e un dottorato (senza borsa) a Bologna, si trasferisce a Coventry, inizia post-doc a Warwick, fa un secondo dottorato a Londra – restituisce già la misura delle esistenze dei moderni clerici vagantes un po’ per voglia e un po’ per forza. L’emmenthal brizziano è ormai più buchi che formaggio. Buchi che minacciano d’inghiottire amicizie, relazioni, progetti. L’autrice riesce a raccontare tutto ciò in modo onesto, simpatetico e coinvolgente; senza l’aridità del puro documentario, né le ambiguità di certa docufiction, e senza i ricatti psicologici da grido di denuncia del Grande Genio Incompreso; perlopiù, e qui stava il difficile, riducendo al minimo sindacale anche le ironie e le strizzate d’occhio autoconsolatorie e autoassolutorie così tipiche di un certo racconto della nostra generazione, ad esempio nelle tavole di Zerocalcare.
Il personaggio-Cecilia non si presenta come un’intellettuale più brillante della media, struggente vittima d’ingiustizie epocali; è un’aspirante lavoratrice nel settore della conoscenza, che si trova – con l’intelligenza, la tenerezza e la goffaggine di un normale essere umano – a fare i conti con un precariato mai invocato come entità metafisica ma concretamente descritto nelle sue piccole e grandi disfunzionalità. La protagonista convince perché continua a credere, nonostante gl’inciampi e gli scoramenti, di poter percorrere questa strada non in quanto intelligenza eletta, ma perché alla sua generazione è stato raccontato che anche il dottorato e il post-doc non sono un privilegio per pochi eletti. E non nasconde, però, che a sabotarla sia la sua stessa sensibilità. Certo, risulta apprezzabile il suo «scetticismo verso un certo modo di essere accademici, molto strillato e assertivo, che va per la maggiore tra i colleghi di dottorato», ma è lei la prima ad ammettere che questa scarsa assertività costituisce un handicap, che la porta, per esempio, a mancare la preziosa occasione di pubblicare la prima monografia scientifica («I fondi per la pubblicazione esistevano, bastava solo che mi rimettessi a scrivere; ma il testo della tesi mi era parso così esitante e abborracciato da rendere impossibile la sua trasformazione in uno studio critico vero»).
Anche qui, dove parrebbe di essere di fronte all’onesto autoritratto di una psicologia tutta individuale, credo che la risonanza sia più vasta e non per caso. Anzitutto, se la sindrome dell’impostore è oggi la malattia professionale dei giovani studiosi, significa che qualcosa è storto a livello sistemico e il problema va affrontato in prospettiva politica. Penso inoltre che fra i cosidetti millennials vada fatta una fondamentale distinzione, lungo lo spartiacque del 1989/1990 circa. Le persone nate nella prima metà di questo periodo, come me e l’autrice, mi sembrano offrire un profilo generazionale debole, anonimo e poco coeso. Per restare sul piano delle generalizzazioni storicistiche, siamo stati presi in contropiede dai grandi avvenimenti esattamente nel momento sbagliato: il crollo delle Torri quando eravamo ormai in piena adolescenza, quello delle Borse quando ci affacciavamo ormai al mondo del post-laurea. O forse, come sostiene Luca Rizzatello, abbiamo poca disciplina e poco talento. Non è un caso che fra le poche vere star della cultura italiana (del discorso culturale comune, non di un rispettabile specialismo come ad esempio la fonetica storica del greco antico) emerse dalla mia generazione siano quelle che hanno tematizzato e discusso proprio la loro/nostra sfiga: un fumettista come il già citato Zerocalcare e un saggista come il già citato Ventura, per non parlare dei vari cantautorini indie che speculano sulla figura dello sfigato disilluso, approssimativo ma in fondo dal cuore d’oro.
I nati negli anni ‘90 e oltre hanno fatto in tempo ad avvedersi che il mondo in cui sarebbero cresciuti non avrebbe fatto sconti a nessuno, e in qualche misura si sono preparati, senza entusiasmi ma anche senza ambigue illusioni; e forse per la più precoce dimestichezza con web e social, hanno saputo fare rete, laddove i miei coetanei continuano a sembrarmi una massa d’individui anche capaci nel loro campo (io personalmente ho solo amici bravissimi), ma scollegati e tutti presi dal costruire al meglio possibile una salvezza individuale, incapaci o disinteressati a dar vita a un movimento e a un sentire comune esplicito. La stessa Ghidotti sembra a suo modo consapevole di questa situazione, in cui mancanze personali e impasse storiche si mescolano. «Ho dieci anni più delle persone che rivestono il mio ruolo,» osserva avvilita davanti alle nuove colleghe inglesi «una laurea e un dottorato in più. “Cosa facevi prima?” mi chiedono queste ventenni […]. Io prima dormivo». E, più avanti, «Mi sembra che a essere approdati a posizioni lavorative meno incerte e sconfortanti siano i giovanissimi, sono social media manager o giù di lì. Noi trentenni, invece, ci abbiamo messo troppo tempo a capire che avremmo dovuto provare a reinventarci come professionisti della comunicazione e del web».
E, a proposito di comunicazione, Il pieno di felicità convince abbastanza. Non lo si direbbe un romanzo che punta tutto sulla scrittura, eppure non ultimo fra i suoi pregi, come è stato osservato, è proprio il lavoro sulla lingua. Non nel senso di operazioni alchemiche o di cesello sullo stile – che rimane improntato a un’onesta leggibilità – ma perché sa offrire uno spaccato della lingua parlata e pensata oggi dai nostri pari; una lingua impura e in evoluzione, né forzosamente colloquiale né improbabilmente forbita. Non tanto un italiano ‘celatiano’, come sostiene Christian Raimo (e per fortuna: la stilizzazione dell’anacoluto da parte dei tanti imitatori di Celati ha superato da tempo le soglie della sopportabilità), ma screziato di macroregionalismi nordici (salvietta nel senso di ‘asciugamano’), moderati giovanilismi, tecnicismi accademici. Se la miscela non coagula davvero in uno Stile con la esse maiuscola, fotografa fedelmente il linguaggio della generazione qui ritratta, senza espressionismi caricaturali.
Ma è soprattutto quando l’avventura britannica della protagonista fa entrare nell’equazione anche l’inglese che l’operazione diventa particolarmente interessante. Il libro ha anzi uno dei suoi punti di forza proprio nello studio dell’attrito fra l’inglese un po’ scolastico e un po’ canzonettaro di un trentenne italiano ragionevolmente istruito, ma che non forse non ha sufficientemente perfezionato «la pronuncia di quei quattordici suoni vocalici che nel nostro alfabeto non esistono» (p. 61), e la realtà esistenziale e lavorativa del Regno Unito, dove tornano improvvisamente utili termini come lanyard. La protagonista certo non commette errori marchiani che possano fornire spunti per una banale comicità del malinteso, ma si trova a dover continuamente negoziare il divario fra la propria competenza e quella dei nativi, o degl’immigrati di lunga data ormai padroni perfetti del lessico e della pronuncia: da qui nascono alcune delle più interessanti riflessioni del libro. Quando poi il code switching e mixing trascolora dalla lingua dei dialoghi a quella della narrazione, l’effetto mimetico è pienamente convincente.
Si è detto che l’ironia non manca, ma il buffonesco è tenuto a bada. Per tornare al confronto iniziale con Falco, questi due libri tanto diversi hanno in comune l’uso del comico in funzione di disvelamento dell’assurdo. Se in Falco la disillusione è ormai compiuta e lo sguardo si posa un passato di cui perciò può mettere in luce spietatamente anche gli aspetti più ridicoli, Ghidotti, ancora giovane – anagraficamente, ovvio, ma per via del ritardato accesso all’empowerment anche lavorativamente, come noi tutti – deve pur tenere acceso per sé e per la sua generazione un fuoco di speranza. Attenzione, però: questo non è un romanzo disfattista, ma neppure consolatorio. Resoconto di una cronica inquietudine, riesce a trasmetterla al lettore, e quando si ride è più un sorriso dolceamaro alla Tiphaine Rivière che per una serie di gag sulla procrastinazione alla PhD Comics. L’impressione è anzi che certe punte satiriche avrebbero potuto essere affilate con maggior cattiveria. Ma anche quella sarebbe stata una semplificazione, e dobbiamo esser grati a Cecilia Ghidotti per averci voluto restituire questi anni in tutta la loro maledetta complessità.