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“Il sussurro del mondo”: amare il verde, anche senza comprenderlo

È un tempio la Natura ove viventi
pilastri a volte confuse parole
mandano fuori; la attraversa l’uomo
tra foreste di simboli dagli occhi
familiari.

(Da Corrispondenze di Baudelaire, trad. it. Luigi De Nardis, Milano, Feltrinelli 1964)

Richard Powers ha 62 anni, gli ultimi sei trascorsi a leggere libri sugli alberi, a passeggiare nelle foreste delle Smoky Mountains, tra Tennessee e Carolina del Nord, ma soprattutto a scrivere il suo dodicesimo romanzo, vincitore del Pulitzer 2019, Il sussurro del mondo (il cui titolo originale è The Overstory, molto più significativo). Scorrendo la bibliografia di Powers, salta subito all’occhio la compresenza nelle sue opere di temi umanistici (la musica, gli affetti familiari) e scientifici (genetica, intelligenza artificiale). Powers non è certo uno scrittore che si fa impaurire dalla sfide, da quando, giovane programmatore informatico, decise da un giorno all’altro di abbandonare il suo lavoro per dedicare tutto il suo tempo alla stesura di un romanzo partendo da una fotografia in cui si era imbattuto.

Quest’ultimo libro però potrebbe essere la sua opera più ambiziosa. Protagonisti sono nove personaggi: Neelaj, Patricia, Nick, Olivia, Adam, Mimi, Douglas, Dorothy e Ray, ognuno legato per ragioni diverse agli alberi. Ideale connessione tra loro è Patricia, alias la dottoressa Westerford, ricercatrice di botanica inizialmente esiliata dall’ambiente accademico per la pubblicazione di un articolo in cui suggerisce l’ipotesi di un’intelligenza delle piante e delle connessioni tra gli alberi di una foresta; una sorta di Stefano Mancuso ante-litteram. Avrà la sua rivincita con gli anni, condensando le sue scoperte nel best-seller La foresta segreta, che influenzerà molti degli altri personaggi.

Oltre a lei, ognuno degli altri personaggi principali è segnato da un dramma: che sia una menomazione (Neelaj, informatico prodigio costretto sulla sedia a rotelle; Douglas, soldato congedato dal Vietnam perché reso storpio in un incidente); la perdita di un familiare (Nick, artista la cui famiglia muore per una fuga di gas; Mimi, ingegnera con il padre suicida; Patricia stessa, il cui padre scompare in un incidente d’auto); una crisi familiare (Adam, in lite con i fratelli; Ray e Dorothy, coppia in crisi); addirittura un’esperienza pre-morte (Olivia). Questi colpi della sorte però non fiaccano i personaggi, che anzi dai momenti di crisi traggono un invito a lottare per una causa. Come i partigiani de Il sentiero dei nidi di ragno, anche i personaggi di Powers sembrano affermare: “Tutti abbiamo una ferita segreta per riscattare la quale combattiamo”.

E la causa per cui scelgono di combattere è la stessa, anche se vi si avvicinano in modi e tempi diversi: la salvaguardia della vegetazione mondiale, e di quella statunitense nello specifico, puntando anche a reinventare il rapporto tra uomo e natura, ristabilendo un legame tra le persone e gli alberi. La maggior parte di loro si unisce ad un gruppo di attivisti, una versione hardcore di Extinction Rebellion, che organizza proteste sempre più estreme contro la deforestazione. Raccontare le loro imprese e i rapporti tra i diversi personaggi non è però opportuno. Oltre al rischio spoiler, il torto più grande che si può fare al libro è concentrarsi sulle vicende umane, dimenticando gli alberi, che, alla pari e a volte anche più degli uomini, sono i veri protagonisti del romanzo. Alberi che dominano la scena sia in gruppo che in singolo, con alcune delle più belle pagine del libro che hanno per protagonista una sequoia gigante o un baniano. Alberi che in certi casi si rivolgono direttamente ai protagonisti, cercando di stabilire un ponte tra il mondo vegetale e il mondo umano:

All’inizio non c’era nulla.
Poi c’era tutto. E poi, in un parco sopra una città occidentale dopo il crepuscolo, piovono messaggi nell’aria. Una donna è seduta per terra, appoggiata a un pino. La corteccia preme contro la sua schiena, dura come la vita. Gli aghi profumano l’aria e un’energia freme nel cuore del legno. Le sue orecchie si sintonizzano sulle frequenze più basse. L’albero sta dicendo delle cose, in parole che precedono le parole.
Dice
: Il sole e l’acqua pongono domande cui vale continuamente la pena rispondere.
Dice: Ogni granello di terra ha bisogno di un nuovo modo in cui venire stretto tra le dita. Esistono più modi di mettere rami di quanti qualunque ginepro della Virginia riuscirà mai a trovare. Una cosa può spostarsi ovunque, stando semplicemente ferma.
[…] Un coro di legno vivente intona alla donna: Se la tua mente fosse una cosa un po’ più verde, ti sommergeremmo di significato.
Il pino a cui è appoggiata dice: Ascolta. C’è una cosa che devi sentire.

Per rendere l’espressività e la ricchezza del mondo vegetale la prosa di Powers pesca a piene mani dal linguaggio scientifico, ma volge l’esattezza e la vena tassonomica a fini stilistici, con un tono a metà tra un’elegia e il discorso di un divulgatore. La lettura è favorita da questo genuino entusiasmo e non è un ostacolo neanche l’addentrarsi in descrizioni di specie vegetali di cui il lettore può non aver mai sentito parlare. Non si arriva mai all’aridità, anzi, in certi punti il linguaggio punta a raggiungere una densità aforistica, ad esempio quando si misura con le parole di Walt Whitman (stampate in quarta di copertina nell’edizione italiana), nel resoconto della storia di Jørgen Hoel, agricoltore e antenato di Nick:

A Brooklyn, un infermiere-poeta scrive per l’Unione moribonda: Una foglia d’erba non vale meno della quotidiana fatica delle stelle. Jørgen Hoel non legge mai quelle parole. Le parole gli sembrano una sorta di sotterfugio. Il suo granturco e i fagioli e la zucca — soltanto le cose che crescono rivelano la mente silenziosa di Dio

Allo stesso tempo la scrittura deve fermarsi di fronte al mistero insondabile dell’intelligenza vegetale, che resta ineffabile nel profondo. Per comprenderla i personaggi provano due tattiche. Da una parte c’è l’immedesimazione, il paragone con l’attività umana: “Mentre disegnava, si domandava cosa avrebbe dovuto significare per il suo cervello distinguere ognuna delle centinaia di foglie affusolate su un dato ramo e riconoscerle con la stessa facilità con cui riconosceva i visi dei suoi cugini”. Un atto di conoscenza costruito per analogia, uno slancio da una parte all’altra della biologia. Dall’altra c’è la descrizione precisa, gonfiata ma non viziata dall’entusiasmo, di quanto gli alberi sono capaci di fare. Come nelle relazioni tenute da Patricia Westerford:

L’ambiente è vivo – una rete fluida e mutevole di vite intraprendenti che dipendono le une dalle altre. L’amore e la guerra non possono essere separati. I fiori plasmano le api tanto quanto le api plasmano i fiori. Le bacche possono competere per essere mangiate più di quanto gli animali competano per le bacche. Un’acacia spinosa produce dolci banchetti a base di proteine per nutrire e soggiogare le formiche che la custodiscono. Le piante cariche di frutti ci convincono con l’inganno a distribuire i loro semi, e la frutta matura ha portato alla visione del colore. Nell’insegnarci a trovare la loro esca, gli alberi ci hanno insegnato a vedere che il cielo è blu. I nostri cervelli si sono sviluppati per spiegare la foresta. Abbiamo plasmato e siamo stati plasmati dalle foreste più a lungo di quanto siamo stati Homo sapiens.

Anche in questo caso però rimane impossibile capire davvero gli alberi, le ragioni della loro esistenza sulla terra, il loro intimo funzionamento.

Se riuscissimo a capire il verde, impareremmo a produrre tutto il cibo che ci serve in triplici strati, su un terzo del terreno che abbiamo adesso, con piante che si proteggono a vicenda dagli insetti infestanti e dallo stress. Se sapessimo cosa vuole il verde, non dovremmo scegliere tra gli interessi della Terra e i nostri. Sarebbero gli stessi!

Il libro si muove quindi su un doppio binario ma con un unico obiettivo in mente: superare il punto di vista antropocentrico. Per questo numerosi sono i tentativi di comprendere il grande Altro vegetale, che sia per empatia, per studio scientifico o per un misto delle due cose. L’autore però sembra voler far coesistere questi tentativi con la permanenza di un mistero al fondo del nostro rapporto con la natura, come un timore reverenziale. La natura secondo il Sussurro del mondo deve tornare ad essere sacra, nell’antico senso latino di inviolabile. Questo perché ogni collaborazione, compresa quella tra specie umana e mondo naturale, presuppone il riconoscimento della reciproca alterità e il rispetto dell’ambiente quindi dev’essere un dogma non solo perché ne va anche della salvezza umana, ma proprio perché umanità e natura sono nel profondo inconciliabili (almeno all’oggi). In sintesi: non dobbiamo rispettare la natura anche se non saremo mai un tutt’uno con essa, ma proprio perché siamo una cosa differente.

Tutti i personaggi lo capiscono, chi prima e chi dopo, e i loro gesti, alcune volte davvero esagerati, al limite del verosimile, possono essere classificati come effetti di un “realismo isterico” e risultare fastidiosi, come è stato notato in alcune recensioni. Questo però a mio parere non sminuisce il valore del romanzo, anzi: di fronte alla complessità della natura, alla meraviglia delle interazioni tra gli alberi e, all’opposto, all’arrogante limitatezza dell’intelligenza umana, forse i veri pazzi siamo noi che continuiamo la vita di tutti i giorni senza andare in visibilio per le meraviglie del mondo vegetale.


Richiard Powers, Il sussurro del mondo, La Nave di Teseo, Milano 2019 pp. 658, € 22