Al pari dei personaggi di László Krasznahorkai, perpetuamente in attesa di un evento escatologico, anche i lettori non-ungheresi hanno aspettato con una certa apprensione le traduzioni dei romanzi di questo scrittore leggendario, che è stato romanziere trentenne di successo e poi co-sceneggiatore di uno dei più apprezzati registi contemporanei: Béla Tarr. Più che un semplice scrittore di cinema, Krasznahorkai è stato per Tarr – almeno finché quest’ultimo non ha deciso di cessare la propria attività di regista (ma nessun fascicolo è mai chiuso) nel 2011 con Il cavallo di Torino – una controparte dialettica, il punto d’osservazione per il regista su una realtà filosofico-letteraria alla quale, per via delle restrizioni del regime comunista, non aveva avuto accesso. Krasznahorkai ha trovato in Tarr una cassa d’espansione, com’è ovvio, ma anche il grimaldello per assumere tecniche cinematografiche da ri-utilizzare nella scrittura narrativa. Certo, più che al ‘montaggio alternato’ o all’uso di anticipazioni e retrovisioni (da manuale genettiano di teoria letteraria, appunto), il cinema aiuta Krasznahorkai a misurarsi con l’opacità dei personaggi, con l’impossibilità – nonostante la loquela fluviale – di scorgere un significato esponibile dentro il personaggio. Un significato che non vada oltre il borborigmo, la balbuzie, l’afasia carnascialesca.
Al grande pubblico italiano Krasznahorkai è arrivato soltanto nel 2016, grazie alla meritoria impresa editoriale della Bompiani, dopo un passaggio nel 2013 per l’altrettanto coraggiosa ma sfortunata editrice Zandonai (che pubblicò Melancolia della resistenza), e soltanto dopo che il nostro ha vinto nel 2015 il Man Booker International Prize per la traduzione anglosassone del suo romanzo d’esordio, del 1985, Satantango (trad. it. Dóra Várnai). Poi, nel 2018, è stata la volta della ri-pubblicazione sempre per Bompiani della Melancolia (scritto nel 1989, trad. it. Dóra Mészáros e Bruno Ventavoli) e, ora, dalle plaghe lacustri dell’Ungheria, smarriti come personaggi leopardiani selvaggi, i disperati idolatri proseliti creati da László Krasznahorkai nel Ritorno del Barone Wenckheim (del 2016) arrivano in Italia (la traduzione italiana è di Dóra Várnai). Fra l’altro, notizia di un paio di settimane fa, lo scrittore ha vinto, proprio con questo romanzo, il National Book Award. Dagli anni Ottanta in poi Krasznahorkai ha approfondito la sua esperienza cinematografica, sceneggiando con Tarr Perdizione (1988), la versione monstre (7 ore di alluvionale e bianco/nero film) di Satantango (1994), Le armonie di Werckmeister (tratto dalla Melancolia della resistenza) nel 2000, L’uomo di Londra (tratto da Simenon) nel 2007, e il terminale, claustrale, Cavallo di Torino.
In una recente intervista l’autore ha parlato dei suoi romanzi – a questo punto in Italia manca soltanto il terzo episodio della singolare tetralogia, War and war – come di un unico libro, il cui titolo complessivo potrebbe essere Sconfitta: «Ciò che lei definisce elegantemente una quadrilogia è in realtà un unico libro, che ho affrontato e cercato di riscrivere per ben quattro volte, senza successo». Di nero in nero: ad ogni ripresa l’autore è ancora più cattivo, oscuro, pessimista. Ogni romanzo successivo è una cappa ancora più opprimente, fumigante e impenetrabile, che sigilla il lettore in una specie di locale caldaia dove ogni attrezzatura è obsoleta e rugginosa e dove le temperature infernali sono sferzate da raffiche gelide di spifferi inopinati. Tutto è ostile e scassato nel mondo in perpetua e depressa glasnost di Krasznahorkai, il quale, come ogni grande modernista, riscrive lo stesso libro all’infinito, sviluppando le varianti, espandendo il significato di ciascuna tessera del mosaico al fine di giungere all’esatto opposto di una parola definitiva, ma, tutt’altro, arrivando ad una apertura logo-semantica impossibile da suturare.
Nel Ritorno del Barone Wenckheim (ricordiamo che nei pressi delle rovine del castello di Wenckheim accadevano cose strane e tragiche in Satantango) pare, infatti, di assistere all’assemblaggio di parti di Satantango e parti della Melancolia: l’attesa messianica di una speranza che arriverà a redimere la triste folla (ma inevitabilmente destinata alla più dimessa delusione) saldata insieme alla cupa palingenesi che devasta cuori e carni dei personaggi. I mondi evocati dallo scrittore sono, fin dall’inizio, regni del post: eppure in essi un vago ordine vorrebbe resistere. Il lettore, perciò, è immerso in un’atmosfera di tensione costante: tutto potrebbe cadere – e cadrà – da un momento all’altro. I legami sociali sono fragili abitudini che non resistono al più piccolo urto.
Sono quasi insostenibili le pagine di questa storia di violenta immobilità: per la furia immedicabile, per la cieca predestinazione che avvelena le possibilità dei personaggi, per il modo beffardo e atroce che ha il caso di ricordarci quanto poco valiamo nell’ecologia del cosmo. La voce dell’autore non dà respiro: più che nelle altre opere qui la prosa non conosce pause; è un proustismo iracondo e labirintico, un’apnea disidratante, che abolisce i dialoghi – risolti con genialità in un indistinguibile indiretto libero dentro il flusso narrante – per ricordarci che alla causa senza ragione di un popolo in perpetua ricerca di un motivo per scatenare la rappresaglia totale non sempre serve un evento qualificante. Tuttavia, la grandezza dello scrittore ungherese va molto al di là di dispositivi sociologici: ad ogni episodio di Sconfitta (facciamo finta che la quadrilogia sia già stata composta da un volenteroso editore) la posta in gioco è sempre più alta. Perfino vezzi formali come la costruzione drammaturgica al pari di un «carnet di ballo», oppure metafore apparentemente fruste, come quella presente nella Melancolia della resistenza, per la quale il postino faceva danzare gli ubriachi della bettola come il moto degli astri, a mimare un universo nel quale non c’è alcun Creatore o forza ordinatrice, ma solo il forsennato moto irregolare degli ebbri, insomma, la distonia come potenza motrice delle galassie, sono riscattate dalla sempre più tesa domanda filosofica che costituisce il disegno generale dell’opera. Le metafore non vanno spiegate: Krasznahorkai le fa emergere dallo spazio come volumi che fuoriescono dall’ombra. Esse sono scolpite nel destino dell’uomo: preferire le parole di falsi profeti alla verità. Paradossalmente, proprio per quanto dileggiata ed elusa, per interesse o per disperazione, è proprio la verità il centro nodale di ogni romanzo del nostro autore.
Il Ritorno del Barone racconta le storie parallele di un Professore, che svolge attività di «esenzione dal pensiero» e del Barone stesso, di ritorno da un lungo periodo di auto-esilio in Argentina. Intorno a loro l’immane sarabanda di un paese annichilito in un limbo senza fine, nel quale, tuttavia, ribollono sentimenti di rivalsa, fiuti di opportunità, deboli speranze: l’odore di un’epifania imminente che spezzerà il sortilegio metastorico.
Il Professore – un tempo esperto mondiale di studi scientifici sui muschi – è un uomo che si è esiliato da tutto: oppone un rifiuto estremo e carico di gravità metafisica all’uomo e al consorzio civile. Un giorno, «vedendo la scritta del Penny Market dall’altro lato della strada e la lunga fila di gente […] sicuramente dovuta gli sconti […] sui pomodorini a grappolo e sulla Coca-Cola da mezzo litro […] gli passò la voglia di qualsiasi studio scientifico e improvvisamente pensò che tutto ciò che […] sapeva solo lui, era del tutto inutile». Da allora ha dovuto convenire che «i muschi esistono e basta, e anch’io esisto e basta, e questo è quanto, ed era iniziata così». Progressivamente, infatti, lo stimato Professore ha iniziato la propria opera di distaccamento dal mondo: via l’iper-connessione a tutte le attività social del presente; via la professione, via i dispositivi d’analisi, via le suppellettili, via la casa stessa. L’azione di auto-degradamento, intesa in senso fisico-chimico quasi, cioè di rilascio d’isotopi di (radio)attività umana, è proseguita finché al Professore non rimasto che rinchiudersi in una baracca nel «Roseto», una «zona completamente selvaggia, quasi impenetrabile e abbandonata a se stessa che si estendeva a nord della città». Ma, ora, qualcosa dal passato lo viene a turbare e la sua pace separata con il mondo, la sua quiete zen, piena di spasmodica e metodica ricerca di vuoto, è costretta e fare i conti con le fosforescenze della furia umana.
Con un moto diametralmente opposto, anzitutto in termini spazio-esistenziali, il Barone, che in Argentina ha accumulato tristi debiti di gioco ed è ripudiato dalla famiglia, torna in Ungheria e subito, in città, si diffonde una febbre d’aspettazione che avvilisce l’afflato messianico.
Il comico krasznahorkiano, più che una presa-alla-lettera della questione, una sorta di catatonia percettiva e d’azione – come, grossomodo, è il Bartleby lo scrivano letto da Deleuze – è da intendersi nell’ottica offerta da Michail Bachtin (in Dostoevskij ed Estetica e romanzo), cioè in quella di «combinazione organica di dialogo filosofico, di sublime simbolismo, di fantasia avventurosa e di naturalismo sordido». Allora, da questa prospettiva, non fatichiamo a leggere l’invocazione di un Dio o le interrogazioni sul significato di una esistenza individuale («Ciò che non riesco a capire non è perché sia necessario morire, ma perché sia necessario vivere», pensa il Barone), come esiti, appunto, ‘comici’. È proprio nel registro carnevalesco (il modello letterario più calzante è, ci dice ancora una volta Bachtin, la satira menippea) che è possibile operare un’azione di ribaltamento dei ruoli, la trattazione di tutti gli argomenti filosofici, il disvelamento della verità. La satira menippea, o semplicemente «menippea» trae «le sue radici […] direttamente [dal] folclore carnevalesco» (ancora Bachtin, nel suo Dostoevskij), nasce nel III secolo a.C. e si perfeziona nel corso dei secoli attraverso Varrone, Petronio fino appunto a Dostoevskij (e naturalmente molti altri). Secondo Bachtin, la «particolarità più importante» di questo genere di prosa, «è che la più audace e sfrenata fantasia è qui internamente motivata, giustificata, illuminata da un fine puramente filosofico-ideale: quello di creare situazioni eccezionali per provocare e sperimentare l’idea-parola filosofica, la verità».
Il topos del ballo – che si svolga in una kocsma (classico quello che dà il titolo al romanzo d’esordio), che imiti un moto astrale (in Melancolia della resistenza), che sia nominato apertamente come danse macabre («Voi volete aprire i festeggiamenti con il satantango», così nel Ritorno del Barone Wenckheim) – è in qualche modo epifenomeno di una postura autoriale che utilizza la de-sacralizzante polifonia (non inganni il flusso apparentemente monologante del récit: la partitura è sinfonica più ancora che polifonica: è un coro di voci sovrapposte, spesso con esiti volutamente cacofonici), insieme a una ‘degradazione’ grottesca degli stilemi altrimenti solenni. Si pensi alla figura del segretario che estorce al Barone un ruolo da segretario e che si fa chiamare «Dante»: quale miglior senhal d’investigazione ctonia vorremmo ricevere? Eppure, anche il nostro Dante Sznolnoki non è che una figura clownesca, necessariamente minore.
Se la ricerca di un Dio, se perfino l’apparizione (in flashback) di Bergoglio, che dice, «se una cosa buona non è sufficiente per fare il bene, una cosa cattiva, invece, è sufficiente a fare il male», sono temi d’altezza escatologica è proprio in virtù del carattere gnoseologico della «menippea».
Dai tempi dei ragni di Satantango, che nell’invisibilità del sonno alcolico, ricoprivano rapidissimi ogni oggetto della taverna, ai topolini furtivi della Melancolia, fino al punto estremo raggiunto nel finale del Barone, quando l’occhio che guarda, la voce che recita, è fuori-dal-mondo, fuori di sé, da sempre l’umano, il problema-dell’umano, inteso soprattutto come problema della presenza-dell’uomo nell’ecologia del cosmo, è ossessione di Krasznahorkai. Fin dagli inizi lo scrittore si è posto il problema di estrarre dallo spazio l’uomo, di descrivere la condizione umana in quanto enclave in un habitat che volentieri sa fare a meno della sua presenza.
Torna utile, adesso, ripensare al lavoro di Krasznahorkai come sceneggiatore. Gli interminabili piani-sequenza di Tarr, sulla scorta di Tarkovskij, isolano il tempo in quanto materiale non-funzionale alla narrazione, ma assoluto: la macchina da presa che pedina o che anticipa i personaggi di Satantango, le lente carrellate all’indietro che ritraggono, spesso, qualcuno che osserva da una finestra non servono ad altro che a rendere tattile l’esperienza del tempo. La narrazione – che pure nel film è molto fedele al romanzo – si sfinisce, fino a dissiparsi. Lo spettatore, dunque, inizia a concentrarsi su qualcosa che non sia lo ‘spettacolo’, ma propriamente sul passaggio del tempo. Il film parla allo spettatore, «quello che guardo mi riguarda», scrive Jean-Luc Nancy (inquadrare qualcuno che guarda attraverso un vetro, nascondendo l’oggetto della visione, inoltre, è un espediente per rendere visibile il dispositivo, il cinema in quanto tale). I personaggi, allora, immersi in questo tempo informale, sono letteralmente sopraffatti dalle cose, sono reificati, divengono parte del paesaggio, sono al pari degli animali, della pioggia, della ruggine, della nebbia.
Il lavoro di Krasznahorkai è sempre stato teso a mostrare questo annullamento dell’uomo: in tal senso il finale del Cavallo di Torino è simile a quello del Ritorno del barone Wenckheim. La vampa sterminatrice del romanzo, alla quale nessun idiota sano può assistere (rimane privilegio dello Scimunito, però) è solo uno dei modi per uscire, tagliando con nettezza i nodi, dall’aporia di non poter cogliere neanche un istante di presente perché quello che possiamo vivere è soltanto un eracliteo scorrere incessante del tutto:
«Questo universo è un ingorgo di eventi che accadono uno dopo l’altro a un ritmo forsennato, e anche uno sopra, o contemporaneamente, all’altro, coincidendo, perché gli eventi capitano, ecco qual è l’espressione giusta, e uno è causa dell’altro […] che razza di causa è quella che provoca l’evento successivo non in forza della propria natura intrinseca, bensì perché così è capitato».
Se una liberazione c’è essa non potrà che ravvisare, almeno provvisoriamente, la «paura» come unica «forza veramente terrificante»: «tutte le culture nascono dalla paura». I suoi scenari da Fine del Tutto somigliano alle geografie lunari di Beckett (si torna sempre a Beckett): se la fine è la fine di tutto allora lo è anche della fine stessa. La fine uccide se stessa, si suicida: in questo modo la fine non smette di finire. Come nel film Perdizione, la fine non finisce: è un ‘finale di partita’ che dura come l’istante infinitesimale che l’Universo impiegò per nascere.
László Krasznahorkai è il romanziere che ci serve, di questi tempi: la sua opera letteraria impossibile da ridurre ad unum, la complessità che non ha una chiave, la distruttiva lacerazione della sua menippea modernista, sono gli strumenti (dis)umani che dovremo portare con noi, avanzando in questa incerta tenebra.