Sviluppare un’analisi, o anche più modestamente formulare un’opinione, sull’opera di Elena Ferrante è sempre un po’ complicato: dirne bene significa salire sul carro della letteratura midcult, dove le rozze ragioni dell’intrattenimento cancellano quelle dell’Arte; parlarne con riserva, o in termini negativi, implica uno schieramento verso una presunta élite di lettori – per lo più accademici – che vive nella propria bolla d’indifferenza, insensibile a una più genuina godibilità della lettura. Provando a mettere da parte le divisioni da fan club, tenterei una lettura più articolata e meno definitiva dell’ultimo romanzo, La vita bugiarda degli adulti (Edizioni e/o, 2019). Al romanzo è affidato il ruolo di successore dell’Amica geniale – opera più riuscita e più discussa di Ferrante – ed è quindi quasi naturale un confronto con il romanzo precedente sotto la prospettiva del dialogo o degli elementi di innovazione. Nella Vita bugiarda va in scena la storia di un’adolescente napoletana che comprende la natura degli adulti a lei vicini e cerca un proprio posto nel mondo, ricalcando in diverse sequenze uno schema già proposto nella saga di Lenù e Lila. A nostro avviso, quindi, i motivi di continuità pesano di più, forse troppo, rispetto a quelli di novità.
Chiunque abbia una qualche dimestichezza con la scrittura di Elena Ferrante sente istintivamente che la nuova storia che sta leggendo si compone di ingranaggi noti, così come di una continuità genealogica tra i personaggi e le vicende, cui fanno eco altri personaggi e altre vicende già familiari. Che cosa avvicina quindi le storie tanto da farle sembrare diramazioni che partono dal tronco robusto di un unico albero? Potremmo individuare almeno tre livelli di lettura che assicurano omogeneità alle narrazioni: tematico, stilistico, e uno che chiameremo provvisoriamente “identitario”. Nel primo gioca sicuramente una parte rilevante la comunanza esperienziale dei personaggi, i quali sembrano “travasati” di storia in storia, cambiando i lineamenti ma rimanendo, di fondo, intatti nella loro connotazione emozionale e psicologica – o, detto, in termini narratologici, nella loro funzione di personaggio. Si vedano, ad esempio, le somiglianze tra le figure protagoniste, ma anche l’ambiguità dell’amica-antagonista, come Lila, che contiene tanto il principio vitale della trasformazione quanto il suo lato-ombra di caos e disintegrazione; una simile riflessione potrebbe estendersi anche alla figura del seduttore, capeggiato da Nino, modello-guida e oggetto del desiderio, profondamente ambivalente e centrale nelle storie della Ferrante. Contribuisce inoltre alla riconoscibilità dei romanzi l’aspetto stilistico, forse il tratto più novecentesco della scrittura di Elena Ferrante, inteso soprattutto come ricorso a un certo tipo di costruzione di situazioni narrative e “intaglio” dei personaggi. Benché il linguaggio utilizzato dall’autrice sia privo di impennate, così come il livello sintattico non ricorra a costrutti complessi, la voce del narratore è dotata di una peculiarità propria che la distingue dall’anonimo coro degli scriventi.
Il terzo punto è quello che ruota intorno alle modalità di definizione del soggetto protagonista, perché la storia che anima le pagine dei romanzi è sempre quella di un Io in costruzione: è il motivo per cui le protagoniste più riuscite sono bambine e adolescenti – come nel caso dell’Amica geniale – in cui il percorso di Bildung è congeniale allo sviluppo della storia, ma vale anche per le protagoniste adulte – Lenù, Olga, Delia, Amalia, Leda – che devono ripensare il loro ruolo di figlie, madri e mogli. La differenza, rispetto alla Bildung classica del romanzo di formazione, è che lo sviluppo dell’Io non segue un percorso progressivo, né tantomeno giunge a termine con l’ingresso nel mondo adulto. Esemplare da questo punto di vista è la storia di Lenù e Lila, il continuo rincorrersi e mettersi a fuoco che coprirà l’arco della loro intera esistenza, il finale aperto che lascia in sospeso la partita tra le due amiche. Questo significa che i personaggi non hanno un’evoluzione graduata sulla presa di coscienza del mondo, ma quest’ultima avviene violentemente e in maniera frammentata; l’antagonismo è la modalità attraverso cui si rende possibile la crescita e la maturazione.
Se secondo Hume l’io è «un fascio di percezioni» – poiché non esiste come dato e sempre uguale, la sua interezza è un miraggio, così come la sua esistenza è subordinata alla transitorietà dell’esperienza – per Ferrante, invece, potrebbe dirsi che l’io narrativo è un fascio di rappresentazioni: esso sembra arrivare dopo, dal momento in cui il Soggetto prende coscienza dei propri contorni, e nasce per una seconda volta. La consapevolezza di sé esiste grazie alle immagini che modellano l’Io, dandogli una forma, e in ultimo, il diritto di essere. Le protagoniste si definiscono, quindi, a partire da questo rimando di rappresentazione/auto-rappresentazione che può avvenire soltanto in una modalità relazionale. Gli altri con cui si confrontano le protagoniste sono spesso degli specchi deformanti che restituiscono un’immagine straniata, coerentemente alla percezione che ha di sé la protagonista. È questo il motivo per cui le pagine di Ferrante sono sempre affollate di personaggi secondari per ruolo ma non minori per funzionalità all’interno della storia, proprio per i meccanismi che attivano nella coscienza e nella crescita delle protagoniste. E inizierei proprio dalla costituzione dell’immagine riflessa per parlare della Vita bugiarda degli adulti.
La storia si apre con una prolessi che introduce da subito la crisi – il momento traumatico che segna per la protagonista Giovanna il brusco ingresso nel mondo degli adulti. Il padre, infatti, accosta la sua figura alla sorella odiata, per mezzo di un paragone estetico; la ragazzina diventa brutta, ai suoi occhi, perché somigliante alla zia («L’adolescenza non c’entra, sta facendo la faccia di Vittoria»). Bruttezza e cattivo carattere sono inseparabili, e se questo rispecchia la semplificazione con cui agiscono le categorie di pensiero popolari, dall’altro lato evidenza la “porosità” che esiste nel mondo di Ferrante tra materia e pensiero, forma e realtà. L’acquisizione da parte di Giovanna di questa immagine che era rimasta estranea alla sua coscienza fino a quel momento mette in moto un meccanismo di ricerca verso l’esterno, sulle tracce della zia misteriosa e, contortamente, in direzione di se stessa. La somiglianza, per la protagonista, oltrepassa l’aspetto fisiognomico ed estetico, diventando rivelatrice di una memoria genetica che ha il potere di determinare la verità su di sé e mostrare il vero volto degli adulti che la circondano.
A tutti gli effetti l’incontro con l’immagine di Vittoria mette in atto per la ragazzina e per la sua famiglia una valanga distruttiva e irreversibile di eventi. Ma l’aspetto più interessante è che la zia diventa una figura dell’ambivalenza, nella quale la protagonista specchiandosi, si riconosce: Vittoria sembra dotata di un’energia che avviluppa e respinge, ammalia e ripugna ma proprio questa duplicità ne disegna inizialmente la statura, che la differenzia rispetto alla pacata esistenza borghese dei genitori di Giovanna. L’adolescenza della ragazza inizia quindi con l’introduzione, nella sua vita, di una terza immagine alla quale la protagonista è legata da ammirazione e antagonismo e dove, parallelamente, cerca tracce di sé. È abbastanza facile vedere una filiazione di questo personaggio da quello di Lila, sia per il rapporto di soggezione-rivalsa che lega la protagonista a questa figura, sia per alcuni tratti della descrizione fisica che la tratteggiano come “strega”, da quanto lascia intendere anche la prima impressione visiva della nipote («La porta si aprì, comparve una donna tutta vestita di celeste, alta, una gran massa di capelli nerissimi fissati sulla nuca, sottile come un’alice salata e tuttavia con spalle larghe e gran petto»). L’ambivalenza è da subito confermata dalle impressioni conclusive di Giovanna, che poco più avanti aggiunge: «Vittoria mi sembrò di una bellezza così insopportabile che considerarla brutta diventava una necessità». La forza iniziale della donna verrà poi ridimensionata, così come il suo ruolo nello spazio narrativo, grazie alla riflessione critica di Giovanna che intuisce i limiti della zia e il suo egoismo dispotico e distruttivo. La storia che inizialmente sembra debba convergere sul rapporto zia-nipote, vira verso un mondo relazionale più variegato attraverso cui la protagonista compirà la propria educazione sentimentale: la funzione di Vittoria è allora quella di rompere simbolicamente, oltre che materialmente, il nucleo fusionale genitore-figlia per permettere a quest’ultima di costruirsi come “individuo”. La bugia, in ultimo, è proprio nel credere o nel far credere che possa esistere una coerenza assoluta che separa il bene dal male, la persona dalla maschera sociale, il dentro dal fuori.
Ancora una volta i livelli saltano: la crescita è innanzitutto smascheramento della finzione, spodestamento degli dei e, in ultimo, salto nel vuoto (non a caso la storia si conclude con una partenza, il finale aperto è il punto interrogativo su un nuovo inizio). Contorna la vicenda una serie di personaggi che sembrano traghettati dal rione dell’Amica geniale; si veda, ad esempio, la fascinazione che esercita Roberto, il fidanzato dell’amica di Giovanna del quale la ragazza si innamorerà: il suo modo di essere intellettuale, il suo percorso professionale e soprattutto l’impossibilità del desiderio che rappresenta per la ragazza. È facile leggere dietro questa figura la sagoma di Nino Sarratore, o almeno del Nino dei primi due romanzi della tetralogia. A questo potremmo aggiungere anche certe ricorrenze di tempi e luoghi che non si discostano molto da alcune costanti emblematiche dell’Amica geniale: la città del nord Italia come meta di fuga e salvezza dal rione, le tappe dell’educazione sentimentale, l’imbarazzo per il proprio corpo, il prendere le distanze rispetto ai genitori e alla vita di prima.
Il romanzo persegue con coerenza un nodo strutturale della scrittura di Elena Ferrante, che potrebbe sintetizzarsi nei termini di indagine sull’identità attraverso gli altri: quanto è realmente poroso l’Io, e quanto lo sia la realtà, come arriviamo ad essere quello che siamo e quanto tutto questo ha un valore definitivo. Quello che sembra soffrire in quest’ultimo romanzo è l’invenzione narrativa, che è poi il tratto che più ha affascinato i lettori dell’Amica geniale: sarebbe bello se nel prossimo romanzo l’autrice ci conducesse in luoghi che non conosciamo, preferendo la sorpresa alla convalida di ben riusciti, ma noti e circolari, meccanismi narrativi.