Romanzi, saggi, graphic novel, poesie, divagazioni, racconti, novità, ripubblicazioni: i nostri undici consigli di Natale, com’è tradizione a bordo del Pequod, toccano qualsiasi lido editoriale dell’anno che si sta concludendo. Insomma, a ciascuno il suo libro. E se volete passare un Natale baleniere al cento per cento, perché non regalarvi un 2020 in nostra compagnia?
Antonio G. Bortoluzzi, Come si fanno le cose, Marsilio (Carolina Crespi)
In diverse occasioni, negli ultimi mesi, ho assistito a discussioni che chiamavano in causa il lavoro. Non erano incontri specifici sul lavoro, uno era legato all’omicidio di Pinelli a Milano, l’altro era una discussione tra tre impiegati di Amazon in un piccolo comune del vercellese, l’altro ancora uno scambio tra un ascoltatore e un conduttore radio. Nessuna di queste discussioni aveva il lavoro al centro ma, inevitabilmente, a un certo punto cominciavano a parlarne. Non confrontavano il lavoro di ieri con quello di oggi, ma parlavano del movimento, di quello operaio, inteso come pratica quotidiana di esercizio di diritti e di doveri democratici. Si chiedevano se fosse ancora possibile, oggi, sul posto di lavoro – ammesso che tale spazio fisico esista – interrogarsi e praticare la democrazia. Si chiedevano se fosse ancora quello il luogo in cui venire a contatto con la novità, con la cultura del lavoro, e in caso non fosse più così, si chiedevano che cosa ci stessimo perdendo. Anche io me lo chiedo, me lo chiedo di continuo e cerco storie che provino a darmi delle risposte. Il romanzo di Antonio G. Bortoluzzi, Come si fanno le cose, edito Marsilio, mette in scena un’amicizia tra colleghi. È la storia di un colpo grosso: Massimo e Valentino, lavoratori della Filati Dolomiti, stanno infatti preparando quella che sarà la rapina che cambierà la loro vita: svaligiare un magazzino della Ora Oro per rilevare un agriturismo a Monteparadiso e farla finita con i turni in fabbrica. Alternando la prima persona nostalgica e poi innamorata di Valentino alla terza persona di un movimento che lungo il Piave sembra non esserci più, Bortoluzzi ci racconta perché ogni cosa che facciamo riempie un buco che abbiamo, e come farla bene, in un mondo che ha perso di vista il senso del “noi”, spesso conti più della cosa che si fa.
Simone Giusti, Federico Batini, Giusi Marchetta, Vanessa Roghi, La scuola è politica. Abbecedario laico, popolare e democratico, Effequ (Giacomo Raccis)
Essendo l’Italia un Paese in cui tutti almeno per qualche anno frequentano la scuola, tutti gli italiani se ne sentono automaticamente esperti (un problema che, lo dico per esperienza, si estende anche agli insegnanti alle primissime armi, sicuri di aver già compreso tutto). Nascono così tanti pregiudizi, luoghi comuni, vulgatae tossiche, ma soprattutto tantissime tirate pretenziose che tocca leggere o ascoltare da parte di personaggi più o meno illustri che si sentono titolati a parlare di scuola, a prescindere dalle loro competenze. Da questo problema atavico e che può efficacemente essere bollato come «vanverismo pedagogico» (la «tendenza a esprimere opinioni forti, fornire soluzioni e ricette per la scuola […] senza avere alcuna competenza per farlo o al massimo sulla base della propria esperienza personale») muovono i quattro autori di un agile ma puntuale prontuario sul mondo degli studenti e degli insegnanti (e di tutto quello che sta loro intorno): La scuola è politica. Un’insegnante (Giusi Marchetta), un docente di pedagogia (Federico Batini), un formatore di insegnanti (Simone Giusti) e una storica (Vanessa Roghi) scelgono questo titolo per incorniciare ventuno lemmi necessari, sebbene non sufficienti, per descrivere quel campo di confronto e di scontro che è oggi la scuola italiana. Un abbecedario utile a far ricredere quanti pensano che l’insegnante non sia altro che uno studente bravo che passa dall’altra parte della barricata e ripete quanto ha studiato, ma decisivo anche per gli stessi insegnanti, per orientarsi e prendere coscienza delle scelte che più o meno consapevolmente fanno in classe ogni giorno, adottando un tono, prediligendo un argomento, utilizzando un criterio di giudizio. Una voce-campione, la più significativa per chi scrive, è Zero, simbolicamente alla fine dell’alfabeto e dedicata agli ultimi della classe: quelli di cui più facilmente ci si dimentica, quelli che, per il solo fatto che non stanno imparando, crediamo che non meritino di stare in classe. Quelli, però, a cui la scuola tutti i giorni apre le porte, offrendo una comunità che accoglie e dà cittadinanza.
Tuono Pettinato, Chatwin. Gatto per forza, randagio per scelta, Rizzoli Lizard (Giulia Sarli)
Nell’era del digitale, Tuono Pettinato sceglie di imperniare l’intreccio del suo ultimo graphic novel attorno a un luogo fisico: un muro ricoperto di annunci di padroni umani angosciati per i propri gatti scomparsi, un «muro del pianto per animaletti smarriti» che esibisce, tra gli altri, l’avviso di Chatwin, un gatto che ha deciso di scappare di casa in cerca della propria autentica identità felina. Preso dal fascino della mela proibita dei sognatori – i libri d’avventura e le mappe che il suo padrone cartografo custodisce nel proprio studio –, Chatwin decide di farsi esploratore e si mette in cammino per il mondo, attraversando il mito letterario (e molto americano) del viaggio quale scoperta di sé, discutendo con mici-scrittori dai nomi rivelatori, come Kerouac e Walt (Whitman), scoprendo la crudeltà dell’uomo e dei felini suoi simili. Romanzo di formazione, racconto di viaggio, conte philosophique di un novello Candide a quattro zampe, Chatwin riesce a descrivere una generazione – la nostra – che non è stata in grado (o cui non è stato concesso) di prendere il largo e diventare adulta; e così vaga per le strade della realtà come fosse «un esercito segreto di disertori». Ma «in fondo» chiede Chatwin ai lettori con i suoi occhi tristi a mezzaluna, «a chi può interessare la sorte di un gattino smarrito?» Forse è giunto il momento di porsi sul serio questa domanda.
Oreste del Buono, Racconto d’inverno, minimum fax (Michele Turazzi)
Giornalista, romanziere, editor, traduttore, direttore di collane e di riviste, Oreste del Buono ha attraversato l’intero arco editoriale del secondo Novecento. Dai Gialli Mondadori a «Linus», dal «Corriere della Sera» a Gianni Rivera, il suo eclettismo si è fatto leggenda, così come il continuo vortice di dimissioni, ritorni, nuovi allontanamenti con cui ha concepito la propria vita professionale. Un incessante movimento, il suo. A questo vitalismo si contrappone l’assoluta staticità di Racconto d’inverno, il suo romanzo (breve) d’esordio. Nulla si muove a Gerlospass, in Tirolo. Soltanto la neve ricopre le montagne, le vallate, le latrine del campo di lavoro dove sono imprigionati i protagonisti di questo romanzo corale. Ogni mattina escono dalle loro brande e, vestiti con quello che resta delle loro uniformi sbrindellate, si mettono in marcia affondando gli scarponi nella neve. Uno dopo l’altro, tirano su piloni dell’elettricità, in un eterno ritorno sempre uguale. Uscito nel 1945 e riportato quest’anno in libreria da minimum fax, Racconto d’inverno potrebbe essere una delle prime prove letterarie del Neorealismo. Se non fosse che, qui, di Neorealismo non c’è niente, se non il tema, lo scenario. La lingua di OdB, sempre in bilico tra il passato e il presente, tra il “lui” e il “noi”, più che raccontarci una vicenda (il campo di prigionia, la guerra), sembra mettere in scena una condizione condivisa e immutabile dell’animo umano: niente di meno che l’assurdità delle nostre vite.
Lorenzo Infantino, Cercatori di libertà, Rubbettino (Paolo Caloni)
Fra le mie poche letture di libri pubblicati nel 2019 (due li trovate qui), fra i saggi spicca Cercatori di libertà di Lorenzo Infantino, una raccolta di saggi dedicati alla figure più emblematiche del variegato mondo del liberalismo europeo (Hume, von Hayek, von Mises, Bruno Leoni, Luigi Einaudi e altri, ma c’è anche Nozick). In questi tempi di nervosismo nazionalista, massificazione della conoscenza e statalismo dirigista imperanti, un libro brillante, chiaro ed equilibrato come quello di Infantino è aria fresca, almeno per il pensiero: è utile infatti ricordare che l’essere umano è ignorante e fallibile, e che non esiste un punto di vista privilegiato sulle cose del mondo e della società. Un libro che, insieme a pochi altri, nel contesto politologico e sociologico italiano parla una lingua quasi sconosciuta.
Nicanor Parra, L’ultimo spegne la luce, Bompiani (Giulia Marchina)
Collauda la collana Capoversi questa grande antologia di Nicanor Parra e fa luce su un mondo latinoamericano i cui territori in versi sono rimasti a lungo quasi inesplorati. Adorata da Roberto Bolaño, la poesia del cileno che ha attraversato il secolo (1914-2018) a suon di burle e striglie è definita un’ “antipoesia”, un bene attuale, democratico, necessario; è fatta di una speciale liturgia dei gesti e degli oggetti comuni: spazzolini da denti da cui dipende la sorte di ogni uomo, calzini spaiati e altre ordinarie delizie; è accesa da un’attitudine impertinente e profanatrice di ogni magniloquenza – o ritualismo a perdere – come i discorsi improbabili per premi letterari immeritati. Sonetti, “montagne russe” in cui il lettore ride e si scandalizza per le improvvisazioni, le immagini surreali e incongrue, le sagaci battute che fanno di lui un modernissimo Cecco Angiolieri, con insieme il gusto plurilingue di Ezra Pound e la leggerezza di Wislawa Szymborska. Questo l’ordigno, tutti invitati, senza eccezione. L’ultimo spegne la luce.
Respiro è la nuova raccolta, uscita con il titolo originale di Exhalation, dell’estremamente poco prolifico Ted Chiang. Un autore che si è fatto largo nella letteratura americana e internazionale contemporanea per i suoi pochi e perfetti racconti brevi di fantascienza. Il suo stile e le sue storie hanno attirato l’ammirazione di gente come Barack Obama, Alan Moore, Colson Whitehead, fino a Joyce Carol Oates che ha scomodato nomi importanti parlando di questa raccolta: «Illuminating, thrilling […] like such eclectic predecessors as Philip K. Dick, James Tiptree, Jr., Jorge Luis Borges, Ursula K. Le Guin, Margaret Atwood, Haruki Murakami, China Miéville, and Kazuo Ishiguro, Chiang has explored conventional tropes of science fiction in highly unconventional ways». Lasciando da parte questi paragoni, che suonano un po’ esagerati per questo riservato informatico di Seattle, dobbiamo però riconoscere che in tutti i racconti di Respiro, partendo da scenari fantascientifici, Chiang fa quello che la grande letteratura fa: ragiona con i suoi lettori sul senso dell’umanità, sul futuro, sul passato, sul perché agiamo, su come cambieremo. A tutto ciò Chiang aggiunge una qualità molto rara: uno sguardo realista che, senza essere ingiustificatamente ottimista, non è mai disfattista né tantomeno catastrofista (non aspettatevi scenari postapocalittici). Qualsiasi cosa succederà nel futuro, qualsiasi cosa succederà in ognuno dei futuri possibili, le domande sollevate in questo libro non spariranno: cambieranno, si porranno in maniere inaspettate, avranno risposte diverse da quel che possiamo immaginare, ma non spariranno. Insomma, Ted Chiang ci porta a ragionare su cose veramente umane, grosse e importanti, e lo fa attraverso storie avvincenti che si leggono tuffandocisi dentro. Cosa volete di più?
Paolo Pasi, Pinelli, una storia, Eleuthera (Matilde Quarti)
Questo dicembre ha visto le celebrazioni (belle e partecipate) per il cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana. Quando si parla di Piazza Fontana, si parla sempre anche della “diciottesima vittima” dell’attentato: l’anarchico Giuseppe Pinelli. Di Pinelli conosciamo le ultime ore, le vicende giudiziarie che seguono la sua morte, come la sua storia si intrecci indissolubilmente a quella della strage e delle difficoltose inchieste che ne seguono. I riflettori, ogni dicembre, si riaccendono sulla sua morte, ignorando spesso il “prima”, ignorando spesso l’uomo. A occuparsene è il giornalista Paolo Pasi, con l’ultimo capitolo della sua “trilogia libertaria” del Novecento: Pinelli, una storia (Eleuthera). Una biografia romanzata – o un romanzo biografico – sugli ultimi mesi di Pinelli, in cui viene indagata, prima della vittima, la persona. Pasi racconta i suoi rapporti famigliari, amicali, lavorativi e, ovviamente, politici, regalando al lettore, attraverso il resoconto della quotidianità di Pinelli, uno spaccato dell’Italia della fine degli anni Sessanta e dell’attività dei movimenti anarchici. Il Pinelli di Paolo Pasi è prima di tutto una persona, con una storia intima e un impegno politico che riveste un’importanza capitale nell’economia delle sue giornate. È questo impegno che Pasi mostra in tutti i suoi risvolti, sia utopici sia pratici, muovendosi in una Milano che è quella dei viali di periferia, degli scali ferroviari, delle preoccupazioni che attanagliano chi si muove nel caldo afoso dell’estate milanese. Ma, soprattutto, Pinelli, una storia è un libro politico, “partigiano” in senso gramsciano, che avvicina i lettori a un clima e a una storia di cui, forse, conoscono soltanto i risvolti più celebri.
Giorgio de Chirico, Memorie della mia vita, La Nave di Teseo (Marcello Sessa)
La recente ristampa di Memorie della mia vita (1945) stupisce il lettore, perché gli permette di constatare che uno dei più grandi pittori del Novecento è stato anche uno dei più grandi scrittori del secolo. Come Alberto Savinio, Giorgio de Chirico scriveva e dipingeva; la sua attività letteraria, però, è meno conosciuta e studiata rispetto a quella del fratello. Lo sconcerto raddoppia, se si pensa che de Chirico – che non è mai stato insicuro circa la propria statura di artista – si considerava un “classico” vivente, tanto della pittura quanto della scrittura. Nonostante abbia pubblicato poesie, prose poetiche, scritti d’artista (celebre è il Piccolo trattato di tecnica pittorica, anacronisticamente redatto in precetti nel contesto radicale delle Avanguardie storiche) e romanzi (come Ebdòmero, in cui appare una grecità trasfigurata da confrontare con quella saviniana di La nostra anima, e Il signor Dudron, licenziato postumo) è forse proprio la memorialistica a far brillare le qualità di scrittura del pittore. Egli racconta infatti tutta la sua vita con una sicurezza granitica; ha piena fiducia nella lingua e ritiene, quasi sfacciatamente, di averne il controllo assoluto, tanto da poterla piegare a qualsiasi esigenza autobiografica. In tal modo l’impresa dechirichiana va oltre il mero biografismo e ci costringe ad accostare il libro, per lo sforzo che lo anima, alle più alte sfide anamnestiche del romanzo novecentesco. Come Yukio Mishima in Confessioni di una maschera (1948), per esempio, anche de Chirico ha la superba presunzione di poter ricordare in prima persona il momento preciso della sua nascita. Sulla pagina e con belle parole, naturalmente.
Matteo Terzaghi, La Terra e il suo satellite, Quodlibet (Michele Farina)
La Terra e il suo satellite è un’opera a vocazione divagatoria, composta da una serie di temi in (e fuori) classe che orbitano intorno ai fenomeni e li osservano in modo obliquo, offrendoli al riconoscimento di chi legge. Nel suo continuo scarrocciare, il libro è coeso per postura e tonalità, oltre che per il ricorrere di alcune immagini, che l’autore chiama a sé per svolgere le sue tracce sia da luoghi prossimi quanto da spazi cosmici, divertendosi anche nel mescolare i piani temporali. Nel libro nulla è mai così banale da non poter essere fonte di riflessione o meraviglia: l’aula scolastica, la pioggia, gli animali, l’arte e, va da sé, la Luna coi suoi ammiratori. Di solito per benedire uno scrittore si tende a esaltarne o a elevarne la personalità poetica: lo stile di questo libro invece va incontro alle cose in modo gioioso e dimesso, predicando sottovoce quell’etica della lateralità propria del compilatore di questi pensierini, una sorta di puer senex candido e sagace, sensibilissimo studente di minutaglie e moti siderali. La Terra e il suo satellite è un libro a suo modo lenitivo, che raccomando a coloro che pur di sfuggire al Capodanno, festività tipicamente terrestre, cercherebbero rifugio ovunque, anche sulla Luna.
Si possono rompere gli schemi anche senza rabbia. Così come si possono scrivere noir rinunciando ai suoi stilemi più tipici e abusati. La violenza, per esempio, sia formale sia tematica. Luca Vaglio e il suo alter ego Mattia Ventura perseguono la stessa forma di pacifismo: il primo nelle scelte compositive, il secondo nelle scelte di vita. Mattia Ventura, infatti, conduce un’esistenza «comoda, sonnacchiosa, priva di urti e di tensioni» dopo aver rinunciato al rinnovo del contratto presso il giornale online Fatti e opinioni; le motivazioni di questa scelta, che rievoca il celebre “preferirei di no” di Bartleby, sono esposte in un capitolo che andrebbe incorniciato e appeso in tutti gli uffici d’Italia. Comincia così per Mattia una vita nuova, libera e solitaria, trascorsa nei sotterranei di Milano, che è la vera protagonista di questo romanzo di rara delicatezza e profondità.