In una scena editoriale italiana dove si registra un incremento del 27% nelle vendite dei libri di poesia dallo scorso anno, nonché un rinnovato interesse per la poesia negli spazi culturali dei media, è giusto celebrare non solo le nuove uscite più promettenti o le conferme ad alto livello (che puntualmente abbiamo segnalato su questi schermi), ma anche le benemerite riscoperte che riportano sugli scaffali delle librerie autori divenuti ormai irreperibili. Il plauso va stavolta all’editore Giometti & Antonello di Macerata, che propone un piatto ghiotto ai lettori di poesia contemporanea ripubblicando l’oramai introvabile Allergia di Massimo Ferretti (Chiaravalle, Ancona, 1935 – Roma, 1974). Non si tratta solo, per l’editore marchigiano, di ridar lustro a una gloria locale, perché la vicenda di Ferretti appartiene a pieno titolo al Novecento italiano.
Uscito per Garzanti nel 1963 dopo una versione preparata per Schwarz nel 1955 ma non realizzata, il libro era stato ripubblicato solo da Marcos y Marcos nel 1994. A un quarto di secolo da quest’ultima edizione, Allergia si ripresenta ora in un bellissimo volume che, sia detto per inciso, è un piacere visivo e tattile sfogliare, e arricchita da preziosi materiali supplementari: un’appendice di testi embrionali espunti dall’edizione Garzanti, una selezione di fotografie dell’autore, l’acuta postfazione di Massimo Raffaelli all’edizione del 1994, e soprattutto una selezione di lettere – a Pier Paolo Pasolini, Antonio Porta, e altri – che illuminano i vivaci ma tormentati rapporti di Ferretti con la cultura del suo tempo.
Ripercorrendo pochi anni fa la sofferta vicenda editoriale di Allergia, Alberto Cellotto metteva in guardia contro la retorica delle periodiche ‘riscoperte’ e delle entrate/uscite dal canone o dall’oblio, invitando piuttosto a leggere questo poeta per i suoi meriti intrinseci. In effetti, la vicenda umana e letteraria di Ferretti (cui si aggiungeva, fino a oggi, la difficile reperibilità) fornirebbero tutti gli ingredienti per costruire una romantica figura di oscuro poeta marginale. Non a caso molti lettori della mia generazione hanno incontrato per la prima volta i suoi versi in un’antologia militante curata da Davide Brullo e polemicamente intitolata Maledetti italiani. Dieci autori per una contro-antologia del Novecento (Il Saggiatore, Milano 2007). Nel caso di Ferretti, la ‘maledizione’ sta nella vita segnata dalla malattia (endocardite reumatica) che lo condusse a una morte prematura, e nell’irriducibilità di questo talentuoso provinciale alle correnti culturali dell’epoca, tra Pasolini e la Neoavanguardia, con cui il giovane marchigiano cercò il dialogo senza però arrivare una vera integrazione, fino al rimbaldiano abbandono della letteratura dopo questa sola raccolta di versi e due romanzi.
Ma ciò che colpisce nei suoi versi non è certo alcuna posa maledettistica, ma al contrario la rabbiosa vitalità, l’apertura al mondo che non risulta negata ma tonificata dall’ironia irrequieta che pervade ogni pagina. Dopo gli ermetismi e gli allegorismi del poemetto giovanile Deoso (importante come manifesto esistenziale programmatico, ma ancora un po’ immaturo e formalmente impacciato rispetto a quel che verrà), Ferretti piega il suo endecasillabo nervoso e duttile a uno slancio narrativo e confessionale che, pur nella disillusione, non rinuncia a fare i conti con la realtà, a partire dalla storia personale del poeta ma con un occhio molto vigile aperto sulla società – dalle valli marchigiane ai circoli letterari romani, dagli autoironici e tragicomici resoconti del fallimentare approccio all’università, fino a una galleria di amori (Piccola antologia sperimentale) che non si dimentica.
Non c’è insomma nessun feticismo della malattia da parte di Ferretti, che facendo esemplare chiarezza dopo un fraintendimento con Pasolini gli scriveva che «non sono mai stato il malatino che fa pena […] Se ho registrato il ‘sentimento della morte’ l’ho fatto per celebrare la vita. Io ho sempre desiderato vivere; e più stavo male, più volevo guarire». L’Allergia del titolo, oltre ad anagrammare beffarda il capolavoro di Ungaretti, sta a indicare l’irritazione che l’intransigenza del poeta prova al contatto col mondo esterno e le sue norme. Ma per nostra fortuna, il regesto di questa irritazione non prende la forma della lamentela da anima bella oltraggiata, né della chiusura in una cameretta buia arredata d’altari infernali; bensì di una memorabile serie d’invettive in versi, al tempo stesso spassose, spietate e vivificanti. La scrittura di Ferretti, tutta fieramente in prima persona, non si potrebbe dire narcisistica: l’autore è troppo sveglio per innamorarsi del proprio caso. E quel fiato che nella vita gli veniva meno non manca mai alla sua voce poetica, fresca e sprezzante (si sente sempre che questo è il libro di un giovane, per quanto eccezionalmente maturo) quanto precisa e atletica, perfettamente a suo agio nella misura medio-lunga. È una voce capace ad esempio di reggere il passo poematico de La croce copiativa, picaresca, eroicomica autobiografia sullo sfondo di un’Italia devastata dalla guerra fascista, che per motivi anagrafici l’autore poté vivere senza sovrastrutture politiche, come una catastrofe naturale («Nel Quaranta avevo cinque anni: | e che la guerra fosse una sciagura | lo capii dalle facce dei parenti | che fecero a chi aveva la più bianca | quando il Benito con la voce dura | annunciò alla radio il grande evento»), e i paradossi della ricostruzione.
La poesia di Ferretti non solo fu un’esperienza isolata all’epoca sua, ma risulta tanto diversa dalla maggior parte delle cose che si scrivono e si leggono oggi. Probabilmente, dei molti nuovi lettori che questa edizione meritatamente gli procurerà, pochi vorranno farne vessillo di poetica e proclamarsi ferrettiani. Ragione in più per meditare la sua lezione e gustare la sua poesia allergica a ogni riduzionismo.