«D’accordo, Piacenza non è Singapore»
Giorgio Manganelli, La favola pitagorica
Ho trovato una biografia di tre righe, scritta qualche anno fa.
Diceva «Sono nata a Piacenza, ma provo sempre a non starci». Era vero.
Ho abitato a Pavia, Genova, Milano, Parigi, Toronto, Losanna, ho fatto quattordici traslochi.
Però ci tornavo sempre.
Piacenza è il tuo maglione preferito per stare in casa, quello coi pallini, di cui ti vergogni a tratti. Magari bucato, evidentemente inadeguato, eppure, in qualche modo, la cosa che più assomiglia a mettersi l’anima in pigiama.
Io, per un po’, ci ho lottato contro. Giocavo di focalizzazioni, larghe o strettissime. Di dove sei? Emiliana. Aveva ancora uno strascico, come aggettivo.
Qualcuno diceva le tagliatelle (so fare le tagliatelle), qualcuno “roccaforte rossa” (sono parecchio di sinistra). Recentemente ho letto un articolo di Zancan su come Ferrara, ormai, sembrasse una slabbratura del veneto. Ho trascritto una riga, tutta di litoti ribattute: «non è più rossa, non è più ricca, non è più in pace».
Poi, dire “emiliana”, lo sapevo, era un po’ barare, perché è evidente che l’emilianità è un gradiente che s’addensa fra i portici-cosce di mamma Bologna e noi, lì, su quel confine, potevamo vantarne ben poca.
Altre volte dicevo “i miei sono di sopra Bobbio”, il che è pure vero. Una genealogia, un ancoraggio, come nei paesini (la Luisa del Savio, dici? Sì, lei). Si evocavano allora il Trebbia, il più pulito dell’Emilia, stanti le mie ricerche delle medie, e una frase di Hemingway («la valle più bella del mondo»), filologicamente inattendibile, ma tant’è.
La mia amica Natasha, ch’è russa, mi ha chiesto un giorno ma gli italiani, a furia di starci in mezzo, hanno coscienza di alcune cose nella loro lingua? (Grandi domande, si beveva bianco fermo). Per esempio, Piacenza, mi dice, se lo dice un italiano la prima cosa che sente è l’etimologia: città “che piace”? Piacenza non piace mai a nessuno, mi veniva da dirle, ma me la cavo con l’usura dei significanti, o va’ a sapere.
Un giorno invece mi scrive un vulcanologo portoghese che studia a Pavia. Ha letto una cosa mia, vorrebbe offrirmi un caffè. Gli dico che sono a Piacenza, ora, e lui risponde “ah, Piacenza, the Amazon Hub”.
Piacenza non piace mai a nessuno, ma sta in mezzo: è diventata polo della logistica, nel punto con più polveri sottili d’Europa (e un sacco di foschie dense, ferme, da maledire novembre).
Un leader di Si Cobas dice che siamo un faro nelle lotte sindacali. C’è molta conflittualità interna fra sindacati, persino qualche accoltellamento. Qualche anno fa, hanno investito un facchino, durante uno sciopero. Ci sono ancora dei graffiti, sparsi, dicono: Gls assassini.
Uno sta di fronte a palazzo Farnese: palazzo Farnese è fatto a metà, abbandonato in gran fretta quando, da perla del ducato, siamo diventati quelli che, per una congiura di palazzo, hanno lasciato penzolare da lì il cadavere del duca, pugnalato a morte. Nutriamo da allora la certezza della colpa e un crescente complesso di inferiorità nei confronti di Parma, dove provò a rifugiarsi la corte e che, negli anni, prosperò. – Per sancire la nostra insignificanza, tuttora, i parmigiani dicono che stiamo in provincia di Fidenza.
Nutriamo, per altro, moltissimi altri complessi. Non si trova mai un piacentino che non dica che a Milano, lui, non ci vivrebbe. (Rispondo “io sì” solo le volte che ho voglia di parlare).
Quella che potrebbe essere la nostra via Padova si chiama via Roma. Nel 2016, Piacenza era capitale antirazzista, con la maggior percentuale di stranieri in regione. Nel 2017, la notte delle comunali – vince una sindaca forzista, con la lega primo partito – ero lì, a bere una birra con un uomo che amavo, e vedemmo passare un suv nero, da cui sventolavano esultanti due bandiere di Forza Nuova, enormi. A me veniva voglia di piangere.
In quella via c’era la sede del Gus e i ragazzi del Gus mi piacevano moltissimo, tutti. Ora non c’è più, non pagano più nessuno, è restato solo Khalid, come i capitani che non riescono a togliersi dalle navi che affondano. C’è un posto con le librerie color azzurro cielo, anche. Ci andavo anni fa a sistemare i libri. È una biblioteca di quartiere, un gigantesco anarchico bookcrossing. Entrava spesso Cassandra, mi ricordo, che chiedeva se le storie nei Topolini fossero belle e io le rispondevo ma prendili, scoprilo tu, finché ho capito un giorno che quell’esitazione non era timidezza, ma imbarazzo. Bernardo ha trovato una maestra elementare in pensione che le insegnasse a leggere, poi, fra mille problemi, l’ha iscritta a scuola, lei, undicenne apolide, e tutto un grappolo di fratellini.
– Ora, a lato, c’è la scuola azzurra, ch’è un doposcuola per tutti, libero, volontario.
Più avanti, la mia libreria preferita, che si chiama come un libro in cui ne bruciavano altri, dove dilapido buoni insegnanti con la complicità di Sonia, libraia preziosissima. Accanto, la bottega del commercio equo. Nel mio liceo avevamo organizzato una rete di banchetti alternativi alle merendine delle macchinette. Gli ultimi due anni li avevo gestiti io, con qualche amico e l’arroganza di quei metabolismi da compañera con le uvette, sempre e impunemente.
Da lì si svolta in piazza Duomo, il Duomo è metà di marmo rosa, metà di arenaria, ché erano finiti i soldi. – Abbiamo anche venduto un Raffaello a metà Settecento, a un polacco, per dire dell’avvedutezza artistica. (Il quadro più bello che ci siamo tenuti, a parer mio, è un Ecce homo di Antonello da Messina, conservato al collegio Alberoni, dove hanno anche un coccodrillo imbalsamato, o un alligatore, chissà). O forse, a ripensarci, i più belli sono quelli della fondazione Mazzolini, che sta un po’ lì, all’Alberoni, e un po’ a Bobbio, sopra Santa Fara. (Era una segretaria di Brugnello e i suoi datori di lavoro le regalarono, negli anni, De Chirico, De Pisis, Manzoni, Carrà, Rosai e lei, poi, li lasciò alla curia). Del Duomo a me piace il retro, che dà su una piazzetta sghemba, molto bella contro il cielo (ma temo c’entri l’azzurro del cielo: a me piacciono un sacco di bordi contro l’azzurro del cielo).
La mia piazza preferita però è in fondo a via Chiapponi, girato l’angolo sulla sinistra. C’è Sant’Antonino, con una torre ottagonale di mattoni (molto bella contro il cielo, sì). Lì accanto, il teatro Municipale, dello stesso architetto della Scala (da piccina non potevo credere che tutto quell’oro fosse davvero oro, ho dato per giorni il tormento a mia madre).
Se si continua dritto per via Verdi si arriva nella mia seconda libreria preferita, dove trovi libri usati e tisane e birre. Mi ricordo una ipa alle quattro di pomeriggio un giorno che non sapevo se andare a convivere o no, con Sara che diceva tanto vale provare e ha un po’ tanti gradi, a stomaco vuoto, Stella, ed era proprio così, in effetti.
(Anche palazzo Gotico a me mette allegria, contro il cielo. Ci sono anche due Farnese che non si guardano, nei bronzi del Mochi).
La mia chiesa preferita è più distante, si chiama Santa Maria di Campagna: da quel piazzale indissero la prima crociata, ma comunque la chiesa è bella.
Il mio teatro preferito ha la facciata liberty e gli interni un po’ vecchiotti, si chiama “la Filo”, in confidenza. Coperta di edera, lì a destra, c’è pure la Ricci Oddi. Dietro a quell’edera hanno ritrovato, qualche giorno fa, un Klimt bellissimo, che per ventidue anni abbiamo pensato ci avessero rubato. Giusto per dire, dell’avvedutezza artistica…
A sinistra, invece, c’è un posto che è un caffè, un laboratorio e ora pure una rivista: ha i cuscini gialli, i pancake, i linus.
Quando dieci-quindici anni fa la secessione si attestava ancora sopra al Po (e io ero felicissima, di non aver nulla da spartire con), riflettevo sui confini di questo triangolo che siamo noi, o dovremmo. Uno è il mare, e vabbe’, anche se delta e palude e costa bassa. Ma, in realtà, quella è Romagna, il che, vi diranno, è un’altra storia e può pure essere, non saprei.
Uno è l’Appennino e a me piacciono molto, le colline che s’addensano, cambiarsi appena s’arriva, mettersi i vestiti da sporcare, sporcarli, raccogliere, infangare, lavare le cose alla fontana al centro del paese, con sopra le case di sasso un po’ diroccate. Sulle linee di frattura, lì, si inizia a parlare un po’ ligure: è la Val Trebbia aria fina di Caproni, il mio amico Samuele ha individuato su quelle creste un’isoglossa dello strutto che mi pare un bel confine, fatto di una religione di affettatrici e grassi saturi. (Vige un matriarcato all’uovo. Il mio amico Francesco, che è vegano, ha visto un giorno una foto di me, mia madre, mia nonna, che si faceva, insieme, gli anolini. E mi diceva, va be’, togli lo stracotto, togli il parmigiano. E io gli dicevo, lascia perdere, Fra’, che solo nella sfoglia ci saranno quindici uova). E ci sono dei posti bellissimi, lassù: Vernasca con il festival degli artisti di strada, Pradovera dove ci si accampa tutti storti sulle discese, Cerignale con le fontanelle, in un’altra valle, Groppallo, bella principalmente per la mia amica Francesca.
Però il confine più confine è il fiume (Silvia, che è di Reggio, sosteneva che si crei un’identità fluviale, in alcuni tratti, citava Celati, ed era una bella cosa, da pensare). Si alza spesso, in piena è enorme, invade tutti quei pioppi geometrici sulla riva, lambisce il ponte ferroviario, limaccioso inquinatissimo. Esonda, oppure filtra sotterraneo in prato davanti alle mura, sulla circonvallazione. Io e la mia amica Margherita avevamo costruito un giorno un’enorme barchetta di carta da metterci sopra, le stavamo dando l’ultima mano di colla, nel suo laboratorio, ma poi ci siamo svegliate la mattina dopo ed era tutto asciutto, e comunque.
Anni fa, mi ricordo, non so più chi aveva fatto, sempre lì, un cimitero di croci bianche per sensibilizzare sulle morti sul lavoro. Io pendolavo, in quel periodo, lavoravo in un archivio, prendevo il treno prestissimo, ci passavo davanti che stava albeggiando e mi veniva sempre un brivido: sembrava di stare nei Balcani, con quelle croci ordinate, semplicissime, che sembravano dieci volte più che a dire il numero esatto.
Ora c’è, sotto a un ponticello, una tenda, piantata lì dallo scorso inverno. E un sacco di volte mi son detta, adesso andiamo a sentire come fa a starci, con la neve, da dove viene, cosa è capitato, ma poi invece non ci sono ancora andata.
Già che è un maglione da casa, ciclicamente Piacenza cerca posti dove stare comoda ma, ciclicamente, qualcosa si intoppa, bisogna sempre rifarseli da capo.
Quand’ero piccola in un vicoletto del centro, all’altezza di un mosaico con un santo, c’era il Pacio, sede del collettivo studentesco areazione, di un calcio balilla e di tutti i miei primi friccicoricci adolescenziali. A tre passi, anni dopo, aveva aperto il Vik, come Vittorio Arrigoni, dove io ho visto parecchi film e perso delle partite a briscola e un giorno pianto a dirotto con il Leo che fumava appoggiato alla vetrina e mi consolava, per un amore giusto un po’ meno adolescenziale.
Poi, ci sono le cooperative partigiane. La più storica, quella dell’Infrangibile, il venticinque aprile aveva più prenotati a pranzo che a capodanno e a me pareva giusto: è molto più festa di capodanno, d’altronde. Nell’altra, a Sant’Antonio, che poi sarebbe il mio quartiere, all’incirca, l’appuntamento immancabile, è il cüncertass del primo maggio. Ultimamente, il mio amico Bob organizza delle serate a Mortizza, in un posto che pure era una coop: si riconosce dai neon brutti e dal prezzo dei bianchi macchiati, e il solco lo fa la domanda aperol o campari.
La strada per Mortizza io, dopo il primo cavalcavia che ti trovi in uno slargo, penso sempre di averla sbagliata, ma invece, come spesso, bisogna aver fede e continuare dritto. Si passa per Gerbido. Da quelle, un giorno d’agosto, favoleggiavamo di fare delle proiezioni contro un pilone dell’autostrada che tagliava per i campi, sentendoci un po’ in una canzone indie. – Sotto il sole d’agosto pareva persino un’idea, posso testimoniare.
Ma questo anche perché una delle mie cose preferite a Piacenza, ma forse un po’ ovunque, è il cinema all’aperto. Che di solito si fa al Daturi, io ci vado in bicicletta, compro le rotelle di liquirizia. Oppure in un parco bellissimo, a Pontenure, c’è il festival di cortometraggi Concorto, con i film di paura in un casottino pieno di ragnatele, che fa molto atmosfera, ma io non li guardo: poi mi viene davvero paura. D’inverno Concorto proietta anche una rassegna di film vecchi e documentari nuovi in una serra in città. La serra è un altro posto che mi piace: era una limonaia di dimora signorile, ha gli intonaci irregolari e grandi vetrate. Nel giardino, due conigli e un conte gentile, che si imbarazza se lo chiami conte, già che si chiama Nicolò.
A tirar dritto dopo Pontenure, dritto dritto, c’è Fiorenzuola, dove a fine estate degli amici fanno la Festa Multietnica, in piazza, ch’è una cosa che ti mette tanti sorrisi e un po’ di speranza. Dritto ancora più dritto c’è un labirinto di bambù: io e Serena ci siamo date appuntamento là, un giorno, nel labirinto e, una volta uscite, abbiamo preso un aperitivo a Parola, posto trascurabile, ma con nome bellissimo.
Il mio cinema preferito, però, è dall’altra parte della via Emilia (comunque dritta). Hanno un cestino di caramelle Dufour (anche quelle all’uva spina), i cuscini per i più bassi, un signore coi baffi che fa i caffè e la signora alla cassa che ti dice sempre buona notte, all’uscita, un po’ mamma.
Io non lo so se si possa vivere con su un maglione da casa, francamente. Le volte che sono in buona mi sento dentro certe foto di Ghirri con le pievette di campagna e la luce gialla («nel tentativo di percepire un sentimento semplice e stupefatto di appartenenza, nella speranza forse di scongiurare altri disastri e mortificazioni», scriveva lui) e tutto il resto del tempo progetto il prossimo rimbalzo (Torino? Sarajevo? Marsiglia?).
Le foto sono di Roberto Gaidolfi.