L’arma più potente che ha il popolo per sconfiggere le dittature è la voglia di vivere; ce lo ha ricordato nel 2012 il regista Pablo Larraín con il film No – I giorni dell’arcobaleno, ispirato alla campagna pubblicitaria che Eugenio Garcìa intraprese nel 1988, per il referendum sulla presidenza di Augusto Pinochet. Contrapponendosi alla volontà degli oppositori politici che lo avevano incaricato del compito e che erano convinti che lo spot avrebbe dovuto mostrare le atrocità commesse dal regime, Garcìa girò un messaggio di speranza, Chile la alegría ya viene, teso a mostrare la bellezza di un futuro libero dalle oppressioni. Lo spot di Garcìa diede coraggio a un popolo spaventato e contribuì notevolmente alla vittoria del NO, con cui si pose fine alla dittatura iniziata con il golpe militare del 1973.

L’antifrasi fra una felicità in potenza e il presente di dolore, un contrasto che è la critica più funzionale a una società ingiusta, è il tratto centrale anche dell’antologia Future – il domani narrato dalle voci di oggi, composta dei racconti di undici autrici afro-italiane, che esprimono la difficoltà di essere portatrici di un’identità multiculturale in un paese, l’Italia, che non ha mai superato l’ideologia razzista ereditata dal fascismo.

L’illustrazione di copertina a opera di Chiara De Marco, con i suoi colori leggeri e la raffigurazione di una donna ripresa di spalle che cammina in cerca di se stessa e delle proprie origini, traspone perfettamente l’intento della raccolta e del suo titolo, Future, carico dell’aspettativa che le scrittrici che hanno partecipato, appartenenti a diverse generazioni anagrafiche e unite dall’essere tutte donne di origine afro, possano avere spazio nel mondo editoriale e dare voce all’identità plurale che l’Italia, nonostante non sia in grado di accettarlo a livello di opinione pubblica, ha assunto da tempo nella sua realtà demografica.

future

La curatela della raccolta è stata proposta da effequ, una giovane «casa editrice molto gagliarda e molto decentrata ma che vuole riprendersi il centro»[1], a Igiaba Scego, giornalista, narratrice e attivista politica, una delle prime scrittrici afro-italiane ad avere fatto emergere una realtà rimossa: l’imperialismo coloniale, la propaganda di violenza e razzismo di un passato vicino che è stato cancellato dalle coscienze e non ha potuto quindi passare al setaccio della memoria, farsi Storia, diventare un passato che non possa tornare a minacciare il presente.

Il motivo per cui si è scelto di concepire un’antologia di scrittrici afro-italiane è espresso in modo esplicito, e con la forza di un pugno nello stomaco, nel racconto in prima persona di Laeticia Ouedraogo, Nassan Tenga:

 

«Papà non mi ha mai detto nulla quando mi lamentavo ad alta voce per quei vecchi viscidi che mi davano della puttana negra e mi volevano portare a letto. E gli dicevo che quando sei una ragazza nera e scendi dal pullman, che tu abbia uno zaino, una borsa o un bambino, quei vecchi uomini in macchina si avvicinano come dei coccodrilli che spiano una preda per ore, ti fissano con uno sguardo losco e vorace, ti osservano con insistenza, e quando ti giri e i vostri sguardi si incrociano, gesticolano. Abbassano i finestrini. Muovono la testa, invitandoti.

Papà non diceva nulla, non mi chiedeva come reagissi a tutto ciò, ma non potevo più stare zitta. E gli confessavo che quei tizi li ignori se hai gettato la spugna. Al limite rifiuti gentilmente per essere educata. Ma se sei stanca, satura di quello schifo, ti avvicini ed esplodi, per difendere la tua dignità e quella di chi non ha osato parlare prima di te, per paura che il rifiuto generasse rabbia e portasse alla violenza. Contrai i muscoli e dici, sfidando i loro occhi con un disgusto profondo, che no, non sei una puttana» (109-110).

 

La “barriera” del colore della pelle si unisce a quella di genere e provoca eruzioni di spregiudicatezze raziali che in nulla contraddicono il cuore di tenebra d’Europa. Per questo è così importante per la Scego che a introdurre e chiudere Future siano due studiose universitarie: Camilla Hawthorne, ricercatrice in sociologia all’Università di California, e Prisca Augustoni, docente di letteratura comparata presso l’Università Federale di Juiz de Fora, in Brasile. Per questo ha chiesto di partecipare al progetto all’unica docente universitaria afro-discendente a insegnare in Italia, in un’università però straniera, la New York University Florence, Angelica Pesarini.  Per riconoscere l’autorità culturale e sociale negate dalla discriminazione e, come la Scego sottolinea nell’intervista a Radio Radicale del 27 ottobre 2019, per rilevare l’assenza, in Italia, di personale straniero nelle posizioni di comunicazione e formazione. Ed è proprio Angelica Pesarini a creare, con il suo racconto Non s’intravede speranza alcuna, un ponte tra il passato colonialista italiano e il razzismo di oggi. La storia si fonda su documenti d’archivio risalenti agli anni ’30 del Novecento, relativi a una ragazza, Maddalena, nata ad Addis Abeba da madre eritrea e padre italiano, ricoverata presso il brefotrofio di una missione cattolica ad Asmara su interessamento di un padre che non ha però mai voluto riconoscerla come propria figlia. I bambini nati dalla violenza del colonialismo italiano sono l’emblema di un rimosso storico da cui dipende in larga parte il razzismo della società odierna, autorizzato e, anzi, sostenuto da parte della classe politica attuale. La decolonizzazione fisica dei territori occupati dall’Italia non è stata seguita da una decolonizzazione culturale: «tutti gli stereotipi, le discriminazioni fatte e le violenze non sono state mai discusse. Molto spesso gli stereotipi che oggi vengono usati contro i migranti, ma anche gli stessi insulti, sono gli stessi degli anni ’30 e addirittura dell’800. Quindi noi abbiamo un grosso problema di memoria storica; abbiamo tante vie con i nomi di criminali di guerra» ed è ancora poco studiato, a livello scolastico, il colonialismo italiano nella sua complessità, con la sua violenza e le sue ambiguità.

Il perpetuarsi degli effetti dell’odio razziale è ben visibile nella nostra storia recente: nel 1979 il caso di Ahmed Ali Giama, homeless somalo, rifugiato politico dalla dittatura di Mohamed Siad Barre, bruciato vivo da quattro giovani italiani, mentre dormiva sotto il portico di via della Pace, a Roma; nel 1985 a Udine Giacomo Valent, di sedici anni, ucciso con sessantatré coltellate da due suoi compagni di liceo, di quattordici e sedici anni; nel 1989 Jerry Masslo, profugo politico sudafricano costretto a lavorare alla raccolta di pomodori a Villa Literno, ucciso da una banda di rapinatori. La sua morte, unita all’insostenibilità delle condizioni di vita a Villa Literno, sono state le cause del primo sciopero di braccianti contro il caporalato. Gli anni ’90, che dopo una prima apertura con la proposta di una legge sulla cittadinanza fondata sullo ius soli e un’attenzione delle case editrici verso la “letteratura migrante”, che ha permesso l’emergere di voci nuove come quella della stessa Igiaba Scego e di Amarai Lakhous, Tahar Lamri, Karim Metref, Kaha Aden e Helena Janeczek, si sono richiusi nel mutismo e nell’indifferenza: «tutto quello pe cui abbiamo lottato non si è realizzato. La Bossi-Fini (a cui sono seguiti orrendi decreti sicurezza) è ancora in piedi con il suo carico di dolore, il Mediterraneo è ancora una tomba e sulla riforma della cittadinanza siamo stati traditi. Io ormai parlo apertamente di tradimento. Molti continuano a dirmi che non c’erano i numeri per votare la riforma. Ma quella che io ho visto è stata soprattutto la mancanza di volontà: se c’era chi si opponeva platealmente, in Parlamento chi doveva tutelarla non l’ha fatto» (13). Nel 2019 la situazione politica non risulta cambiata e le tensioni sociali si sono fatte più forti; è ciò che ha condotto Esperance Hakuzwimana Ripanti, classe 1991 e autrice dell’ultimo capitolo di Future, Lamiere, a scrivere un racconto distopico ambientato non in un futuro lontano, ma nell’Italia di oggi. In questo caso il narratore ha la voce di un maschio italiano, elemento che provoca un effetto straniante vista la natura della raccolta. La vita di Michele è però fortemente intrecciata con il mondo migrante: il compagno di sua madre, Gustav, porta nel colore della propria pelle i segni di una diversità che fa paura, e lo stesso è per la figlia che nasce dalla loro unione, la piccola Larissa, e per Awa, la ragazza che Michele conosce in biblioteca e di cui si innamora. Il centro cronologico del racconto è l’estate del 2018, meglio conosciuta come «“L’estate delle lamiere” per via di un bracciante del Sud morto assassinato proprio mentre cercava di recuperarne alcune, di lamiere, e costruirsi qualcosa che assomigliasse a una casa. Soumaila Sacko, si chiamava» (200). A questo primo episodio seguono altri atti di violenza: «Idi Diene, Assane Diallo, Konate Bouyagui ferito da colpi di pistola, un rifugiato sudanese insultato alla fermata dell’autobus, Ibrahim

foto nuova

Manneh morto per un mal di pancia dopo essersi visto rifiutato il soccorso da numerose

ambulanze. Li ricordo ancora i nomi, anche se erano tanti e continuavano ad aumentare. Awa li sapeva a memoria, e presto ho incominciato a ripetermeli anche io; prima sottovoce e poi con orgoglio. Il nostro rosario personale e terribile». Il racconto si sposta poi nel 2020, il nostro nuovo anno, un futuro prossimo che si fa presente portando la discriminazione nella biografia del narratore: Gustav viene picchiato e perde il lavoro, l’amico Pietro viene arrestato per aver gridato dalle finestre «frasi che pensavano gli ultimi liberi rimasti» (204). Sembra un racconto di fantascienza, inquietante per quanto è verisimile. È invece la testimonianza di una realtà che da troppo tempo facciamo finta che non ci riguardi.

L’antologia curata dalla Scego unisce autrici molto diverse tra loro, per lo stile, le età, le origini (parlare di Africa significa prendere in considerazione un continente composto da 53 paesi), il carico di esperienze. Ne risulta però un’opera organica, che si spera possa smuovere l’Italia, almeno quella editoriale, dal suo sepolcro imbiancato. «Quindi questo libro è un J’accuse», scrive la Scego a conclusione della sua nota introduttiva: «Ma anche un inno d’amore per un futuro che desideriamo diverso» (17). In Future i racconti sono spesso scritti in prima persona ed esprimono il bisogno di farsi carico di una testimonianza storica fino ad ora occultata. In un futuro in cui il diverso non abbia più la necessità di difendersi per il solo fatto di esistere, queste voci potranno finalmente essere libere dalle catene della rabbia e della paura e portare alla letteratura italiana il rinnovamento che si merita. Lasciateglielo fare. Effequ lo ha fatto e noi non possiamo che ringraziare.

 

[1] Dall’intervista di Andrea Billau a Igiaba Scego, andata in onda su Radio Radicale il 27 ottobre 2019.


 

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Igiaba Scego (a cura di), Future: il domani narrato dalle voci di oggi, effequ, Firenze 2019, p. 224 15 €