Nell’era televisiva del dualismo Netflix-Amazon, dove la produzione seriale corre più veloce del tempo che abbiamo a disposizione per consumarla, è facile smarrirsi, perdere ore dietro a opere che si rivelano scadenti. Ogni due settimane esplodono campagne advertising che ci avvisano della nuova opera imperdibile, realizzata per soddisfare esattamente il nostro bisogno di binge-watching. Il più delle volte si tratta di prodotti di intrattenimento perfetti, dotati di tutti gli espedienti narrativi per catturarci, intrappolarci e poi lasciarci vuoti e insoddisfatti alla fine della corsa, in attesa del nuovo fenomeno. Ci sono poi casi fortunati in cui la nuova attrazione scintillante ha molto più da offrire di un’avida visione. È il caso della miniserie Dracula, ultima fatica dei creatori di Sherlock, Steven Moffat e Mark Gattis, da sempre innamorati dei romanzi d’appendice e delle storie gotiche. A colpire l’immaginario dello spettatore è fin da subito la scelta di riportare il personaggio del famoso Conte indietro nel tempo, all’estetica classica che lo ha reso famoso al grande pubblico: capello impomatato nero corvino, pallore lunare e mantello nero ad avvolgerne la figura. La somiglianza con il Dracula interpretato da Bela Lugosi e da Christopher Lee è talmente evidente da far presagire una trappola, un’esca pensata dai creatori specializzati nei plot twist. Così iniziamo la visione del primo dei tre episodi della miniserie aspettandoci da un momento all’altro un inaspettato capovolgimento. E invece ogni elemento non può essere più fedele alla storia classica. Il copione infatti si ripete, con l’ospite che entra ignaro nella dimora del mostro. Si tratta come sempre del giovane avvocato Jonathan Harker, giunto al castello tra i Carpazi per concludere il contratto di acquisto di un immobile a Londra da parte del conte. L’ingresso nella dimora del vampiro, per scelte di camera e fotografia, ricalca fedelmente il Dracula capolavoro di Francis Ford Coppola. A mancare è di certo quella nota romantica con cui il regista italo-americano aveva tratteggiato il principe delle tenebre. Il villain interpretato da un brillante Claes Bang – attore danese già apprezzato nella pellicola vincitrice del Cannes di qualche anno fa, The Square – risulta infatti un sardonico calcolatore, che gioca con il suo ospite/prigioniero con ironico distacco. Ogni teatralità vista nelle versioni vampiresche del passato viene quasi del tutto archiviata, trasformando Dracula in una sorta di Partick Bateman con i canini, sorridente e pronto alla battuta anche in un lago di sangue. È questa di certo una delle prime novità che gli autori Moffat e Gattis introducono nella nuova versione del racconto di Bram Stocker, ridimensionando la carica epica del personaggio e inducendo lo spettatore a simpatizzare con Dracula. La cinematografia e in particolare la serialità degli ultimi tempi ci ha del resto abituati a nuovi modelli narrativi dove il cattivo è il beniamino del pubblico, basti pensare al Dexter dell’omonima serie o al Walter White di Breaking Bad (per non parlare dell’ultimo Joker di Todd Phillips). Ma è verso la fine dell’episodio che ci viene rivelata la vera autentica sorpresa della serie. In un convento dove si è rifugiato il buon Jonathan Harker per sfuggire alle grinfie del conte facciamo la conoscenza di un’insolita suora, che incalza il fuggitivo con una fitta serie di domande sul conto di Dracula. Al contrario delle consorelle non sembra essere spaventata dai racconti dell’avvocato e il suo interesse per il Conte va ben oltre i limiti consentiti dall’abito che porta. Lei stessa affermerà di trovarsi in un rapporto con Dio simile a quelle vecchie relazioni coniugali in cui si sta insieme per forza. Il suo nome è Agatha Van Helsing e forse siamo di fronte a uno dei più riusciti – e forse necessari – gender swap visti sul piccolo schermo e al cinema. È lei la vera chiave di questo show, la detective sulle orme del mostro intenta ad analizzarne i comportamenti, studiarne i bisogni, come farebbe uno zoologo con la bestia di cui cerca di carpire i segreti. Non a caso il primo dei tre atti di cui è composta la serie si intitola Le regole della bestia, quelle leggi a cui persino Dracula è vincolato, che lo ingabbiano e lo rendono schiavo dei suoi stessi istinti. All’ingresso in scena di Agatha Van Helsing si ha subito l’impressione di essere di fronte a uno strano personaggio, al contempo dentro e fuori dalla storia, intento ad analizzare il fenomeno del vampiro a livello narrativo. Si direbbe che le sue armi per fronteggiare Dracula non siano martello e paletto – come nelle sue precedenti versioni maschili – bensì l’analisi strutturalista del fenomeno vampiresco, il suo rivelarne l’elementare quanto dolente sostanza. Emblematico è l’incontro tra i due antagonisti presso i cancelli del convento, dove il vampiro, non invitato, può limitarsi a ringhiare di fronte a una spavalda Agatha che lo fronteggia a pochi centimetri, rivelandone la vera natura: quella di un semplice addicted, incapace di controllare la propria sete, proprio come Abel Ferrara ritraeva i vampiri nel suo capolavoro del 1995, The Addiction. Oltre a essere stata una delle più potenti metafore del capitalismo borghese – il parassita che si ciba della linfa vitale dei sui simili – Dracula è del resto la rappresentazione del maschio predatore, che, non a caso, predilige fanciulle – possibilmente vergini – e il cui morso possiede persino una sorta di carica erotica. A fronteggiarlo, nei romanzi e nel cinema, è sempre stato quasi sempre un altro uomo, un luminare della scienza, Van Helsing appunto, che spesso si contraddistingue per metodi poco ortodossi, ma efficaci e assolutamente virili. Basti pensare al Van Helsing interpretato da Anthony Hopkins nel Dracula di Coppola: uno stralunato dottore dall’accento olandese, temperamento sanguigno, modi sbrigativi e una malcelata foga nell’impalare fanciulle. In quest’ultimo Dracula, gli autori di Sherlock decidono di ribaltare l’usurato modello e per questo il personaggio di Agatha adotta un metodo inedito, quasi investigativo, per andare al fondo della questione vampiresca una volta per tutta, superando miti e leggende, e rivelando (alla luce del sole?) la banalità del Male. La miniserie in tre atti, così ricca di richiami e citazioni più o meno esplicite ai classici del passato, non è quindi una semplice rilettura celebrativa di una dei miti fondatori del cinema (da Murnau a Dreyer, passando per Herzog e Jarmusch, quanti sono i registi che hanno affrontato il vampiro?) ma anche un superamento del mito stesso, quasi a voler dare a Dracula quella morte che forse lui stesso attende da secoli.