Spettatori davanti a Murale primo nero di Toti Scialoja, 1961
Toti Scialoja è stato sia pittore sia poeta, e per di più tra i più grandi del secondo Novecento italiano. La compresenza di queste due attività, però, non ha mai smesso di turbare i lettori/spettatori scialojani, sempre indecisi, fin da quando era in vita, se trattare Scialoja ora come un pittore ora come un poeta. L’onnicomprensivo sive/sive che nel suo caso unisce pittura e poesia non cessa di colpire, come si può immaginare, anche gli studiosi, a cui la sfaccettatura prismatica della figura di Scialoja fornisce sempre nuove angolazioni di ricerca.
L’ultimo decennio appena trascorso, in questo senso, è stato particolarmente proficuo, portando con sé risultati significativi, tanto da poter parlare di una vera e propria “rinascita” di studi scialojani aggiornati, che tuttora sta rendendo pienamente giustizia all’autore da tutti i punti di vista. Nel 2014, per esempio, Eloisa Morra ha dedicato a Scialoja una monografia esaustiva (Un allegro fischiettare delle tenebre, licenziato da Quodlibet) che si presenta davvero come un ritratto; un ritratto quasi “plastico”, perché circoscrive il proprio oggetto a trecentosessanta gradi, permettendo al lettore di inquadrarlo a tutto tondo in una visione d’insieme e rifuggendo l’esclusività parziale degli sguardi che mettono a fuoco separatamente iconico e linguistico.
La stessa studiosa – ora assitant professor di Italianistica all’Università di Toronto – ha curato un nuovo volume dedicato a Scialoja, recentemente apparso presso Carocci, che prosegue sulla stessa linea. Paesaggi di parole. Toti Scialoja e i linguaggi dell’arte, infatti, sviluppa le premesse precedenti amplificandone il raggio d’azione, dato che riunisce contributi di autori di diversa provenienza e dagli approcci diversificati, con lo scopo manifesto di costruire una costellazione storico-critica nell’universo che gravita attorno a Scialoja.
L’obiettivo, dopo una lettura d’insieme, appare centrato, proprio perché il libro (e i criteri che lo presiedono) non si cura del risparmio, circa gli strumenti messi in campo: storia della letteratura, critica letteraria, storia dell’arte, teoria dell’immagine e cultura visuale – tutte servono a inseguire il polimorfismo scialojano, che mai si fa raggiungere da classificazioni perentorie.
Ogni saggio si concentra su singoli e specifici aspetti o momenti dell’opera di Scialoja, ma chiudendo il libro si ha l’impressione che riferimenti condivisi ritornino da un capitolo all’altro costituendo un discorso organico e unitario, e soprattutto restituendo al lettore anche non specialista i mezzi per orientarsi quanto meno nei complessi incroci di visivo e verbale a cui si è accennato.
Tutti gli autori ci ammoniscono che non è possibile farsi un’immagine di Scialoja trascurando ciò che ha scritto, perché nell’iconico si ritrovano proprietà inerenti al linguistico, e viceversa; egli stesso sosteneva che «le parole hanno densità, colori, nervature: sono figure in loro stesse» (T. Scialoja, cit. a p. 8). Il grafo quindi sintetizza pragma e gramma: il gesto e il senso; una scrittura è una forma che si vede, che si legge, che significa e che nasce da un fare. Perciò, nel caso di Scialoja, non ha senso tanto parlare di pittura e di poesia come media diversi, quanto piuttosto di Zeichensprache, di discorsi di segni che riaccendono sempre, nel medium espressivo, «la relazione che di volta in volta viene a crearsi tra il verbale e il visivo» (E. Morra, p. 13): una reciproca interazione tra specifiche pittoriche e poetiche.
Uno dei meriti del libro è infatti quello di scandire passo per passo la carriera di Scialoja nel suo complesso, sottolineandone i principali snodi e i problemi teorici collegati.
La prima tappa importante riguarda la pittura; a partire dagli anni Cinquanta del Novecento la tecnica pittorica scialojana si rinnova, sia rispetto alla figurazione sia all’astrazione, poiché egli «scopre» (E. Carletti, p. 19), quasi incidentalmente, lo stampaggio. Comincia, con la serie delle Impronte, a dipingere marcando sulla tela segni ottenuti da oggetti imbevuti di colore, come gli stracci. Questi si configurano in tal modo come matrici: al contempo protesi del pittore che agisce e indici del lavoro pittorico nel quadro. Agendo – sebbene non immediatamente – la materia pittorica, Scialoja imbastisce una personalissima variante della pittura concepita in senso gestuale.
Nel prezioso Giornale di pittura, pubblicato nel 1991 ma redatto nell’arco di una vita, egli stesso commenta le ragioni di questo passaggio: «Dipingendo con lo straccio al posto del pennello (dal gennaio del ’55), dipingendo con lo straccio intriso di colore molto liquido, ora a modo di spugna, ora assottigliando il panno e riducendolo un solo filo, ora sfiorando appena la tela ora logorandola, ho imparato a stampare, a trasmettere direttamente i sussulti, la renitenza di una materia […] che agisce tra le mie dita come se fosse viva» (T. Scialoja, cit. in ibid.).
Sorge spontanea – anche se arbitraria – l’analogia, aneddotica e quasi mitica, con la storia del pittore greco Protogene, vissuto tra IV e III secolo a.C.; si narra che, non riuscendo rappresentare la schiuma alle narici di un cane, arrabbiato e impotente verso i mezzi della pittura, egli gettò in uno scoppio d’ira una spugna intrisa di colore contro il quadro macchiandolo, finendo così per ottenere proprio l’effetto che voleva grazie al puro colore e a un’azione spontanea.
I testi che nel volume affrontano più da vicino le questioni strettamente iconiche risaltano molto bene le origini e le implicazioni di questa soggettiva deflessione della performatività in pittura. La riconducono giustamente ai modelli americani di certo espressionismo astratto (e Scialoja, caso isolato tra gli artisti italiani dell’epoca, ben li conosceva), che a partire dagli anni Quaranta rivoluzionarono da oltreoceano la concezione del quadro modernista proprio dal versante del gesto e dell’atto.
È utile ricordare in merito, affiancandolo alle analisi del libro, il retroterra teorico delle seminali sperimentazioni pittoriche all over degli statunitensi, ovvero il saggio in cui fin dal titolo (The American Action Painters, 1952) il critico Harold Rosenberg parlò di “pittura d’azione”. L’originalità della sua nuova concezione iconica è stata tale da risultare ineludibile, e da esercitare una fortissima influenza su tutta la ricerca artistica successiva (non solo americana), sconvolgendo dunque letteralmente il corso della storia dell’arte: «A un certo momento la tela apparve, a un pittore americano dopo l’altro, come un’arena dove agire, invece di uno spazio dove riprodurre, ridisegnare, analizzare o “esprimere” un oggetto, reale o immaginario. Quello che si materializzava sulla tela non era più un dipinto ma un evento. Il pittore non si avvicinava più al cavalletto con un’immagine in mente; gli andava incontro con della materia per trasformare quell’altra materia che gli stava di fronte. L’immagine sarebbe stata il risultato di questo incontro»[1].
Secondo Rosenberg, il quadro “d’azione” è il riscontro effettivo di un evento più complesso che lo trascende, e che non è unicamente pittorico; l’immagine come “precipitato evenemenziale” permette di cogliere il processo della creazione che costituisce l’esistenza in toto di ogni artista. La postura di Scialoja presenta, rispetto a quella di Rosenberg, molte affinità e una divergenza fondamentale, che Morra ben evidenzia nel suo contributo, isolando un passo decisivo dalle note dell’artista: «Un quadro è un sasso lanciato, messo in moto dal gesto e identico al desiderio di direzione, di mira, di effetto. Il quadro, come uno specchio, rimane avvolto all’uomo che lo dipinge: lo rappresenta nel suo momento creativo» (T. Scialoja, cit. a p. 33, c. n.). Il dipinto, effetto iconico di un gesto, come uno specchio si gira e riflette verso l’artista che lo ha prodotto, spostandone gli esiti su un piano non solo evenemenziale, ma propriamente esistenziale.
Molti saggi di Paesaggi di parole, infatti, non si fermano ai presupposti del gesto scialojano, anzi ne misurano le conseguenze, insistendo su quanto esso, instaurando un legame tra creatore e opera, si inscriva in un orizzonte fenomenologico che sintetizza la temporalità dell’esperienza (della vita e della creazione) e la spazialità dell’immagine (segnatamente, qui, del quadro e della pittura).
Morra si chiede, per Scialoja, «in che modo il gesto si rapporta allo spazio, temporalizzandosi in una superficie che si apre lentamente al ritmo» (E. Morra, p. 35), allacciandosi alla differenza tra cosa e oggetto per Maurice Merleau-Ponty (di cui il pittore ha seguito le lezioni alla Sorbona); Valeria Eufemia parla, altrettanto, di una pittura che «mira a temporalizzare lo spazio della superficie» (V. Eufemia e E. Morra, p. 68) e si riferisce ancora a Merleau-Ponty, al concetto di kierkegaardiano di ripetizione via Gilles Deleuze, a quelli di relazione e continuum nella fenomenologia “morfologica” di Enzo Paci.
La matrice gestuale dei quadri di Scialoja è situata, infine, nel conflitto aperto tra esistenza (creativa) e morte (distruttiva), tra forma e materia, tra temporalità e spazialità: non lo risolve, bensì lo insegue perennemente e tenta di registrarlo, di lasciarne tracce. Dipingere è compiere gesti, nello spazio della creazione, per far fronte al tempo della vita che si accumula come polvere o cenere. Federico Francucci, nel saggio che chiude il libro, espande la metafora (quasi jüngeriana; ricordiamo che, in accordo a Il libro dell’orologio a polvere, controllare i granelli di sabbia di una clessidra è l’unico modo a disposizione dell’uomo per percepire il tempo come vissuto e non astratto[2]), avanzando l’ipotesi che le opere di Scialoja (sia i quadri sia le poesie) si prospettino come una doppia reazione al passare del tempo: «Si possono mulinare le braccia nell’aria, imprimendo così ai corpuscoli di cenere alla nostra portata movimenti disordinati, che finiscono magari per gettarcene addosso ancora di più; oppure si possono usare le mani per cercare di scuotercelo di dosso, quel deposito che intristisce. Insomma, la cenere del tempo va in ogni caso toccata» (F. Francucci, p. 116).
In ogni caso, i quadri di Scialoja vanno in una direzione opposta rispetto al duchampiano “élevage de poussière”: non sono “allevamenti di polvere” accumulata, ma cristallizzazioni setacciate.
Lo stampo pittorico – ed è significativo che quasi tutti i saggi del volume lo rimarchino – ha quindi per Scialoja valenza cruciale di laboratorio: di tavolo di lavoro dove sviluppare una nuova performatività pittorica (che assume valori spaziali e temporali) e allo stesso tempo renderla visibile, concreta. Le Impronte sono sia processo sia forma.
Se ne accorsero, in tempi non sospetti, anche i critici più avveduti. Come Gillo Dorfles, pioniere nel riconoscere i tratti rivoluzionari dell’opera di molti artisti che nacquero incompresi (uno su tutti: Lucio Fontana, altro profondo indagatore, tramite lo spazialismo, della temporalità della materia plastica). Nel 1959, in un testo scritto in occasione di una mostra del pittore alla galleria romana La Tartaruga, così descriveva le Impronte scialojane: «Non il mero compiacimento edonistico di una “materia” golosa; e non l’esibizione di un mero “gesto” di energia. E neppure il rigido modulo compositivo, il geometrico intarsio d’una pseudoarchitettura costruttivista, sovraimposta alla libertà del colore. Ma invece: l’impronta. Una impronta dapprima stesa sopra una fragile matrice […] e, indi, rovesciata e resa visibile attraverso l’atto costruttivo dello stampaggio sulla superficie, ancora vergine, della tela. Attraverso quest’atto scarso ed essenziale […] nasce finalmente sulla tela l’immagine elementare, che potrà essere unica o multipla» (G. Dorfles, cit. a p. 37).
Il fatto che un’immagine, dunque una rappresentazione, e per giunta “elementare”, stratifichi come un precipitato tutto ciò che l’ha prodotta chiama in causa, per le sue implicazioni teoriche, considerazioni morfologiche (ovvero sulle condizioni di possibilità delle forme). Gli stampi e le impressioni di Scialoja, nella fattispecie, richiamano con forte risonanza le riflessioni jüngeriane su tipo e forma.
Per Ernst Jünger, tipi e forme sono «conformazioni […] semplici e impresse ovunque», tuttavia «più difficilmente accessibili»[3] rispetto ai meri oggetti, perché richiedono, per essere apprese, una percezione in qualche modo spirituale e metafisica, diversa da quella sensibile. Pensare, nominare, raffigurare, e addirittura produrre e riprodurre un oggetto, sono operazioni che implicano uno scarto del senso; riconoscere forme e tipi è una via per un’«intuizione superiore»: «La concezione di forme conferisce una potenza metafisica, la comprensione di tipi assicura una potenza spirituale»[4]. Individuare tipi è identificare modelli invarianti nel reale, mentre concepire forme è strutturare i tipi rielaborandoli continuamente; una forma così intesa non è dunque un rigido schema fisso, ma una conformazione che assorbe la sua origine tipologica.
Il filosofo parla, a questo proposito, esplicitamente di matrice, e fa l’esempio del conio della moneta: «“Forma” è tanto l’oggetto formato, quanto la matrice nella quale esso viene versato. “Moneta” è tanto il denaro che passa di mano in mano, quanto l’istituto in cui viene coniata in migliaia di esemplari: il luogo della sua individuazione. […] Vediamo la coniatura, non però il conio; vediamo le monete, non la moneta. Se una simile moneta esista assolutamente e dove si possa supporre di trovarla: questa è da sempre la più ardua pietra di paragone della capacità di giudizio»[5].
Di fronte a un’immagine, di qualsiasi natura, possiamo quindi intuire, sebbene per gradi differenziati, tanto la forma quanto il processo creativo che le è inerente.
L’analogia con i quadri del primo Scialoja (per come vengono opportunamente interpretati in Paesaggi di parole) è lampante: le sue “impressioni” di pittura sono forme (anche per la loro cifra plastica, materica – spaziale) e tipi (perché sono anche indici del loro atto formativo, della jüngeriana “matrice” in cui sono state versate – temporale); Eufemia e Morra sintetizzano, rinviando ancora a Paci: «Ogni impronta ha in sé il valore di un evento irreversibile che, tuttavia, si ripete; ma nel ripetersi non è mai uguale a se stesso, in quanto – è sempre Enzo Paci ad affermarlo, sulla falsariga di quanto aveva già teorizzato Kierkegaard – “si intesse in noi un complesso rapporto tra la esigenza della ripetizione e l’impossibilità di tornare indietro”» (V. Eufemia e E. Morra, pp. 69-70[6]). Quelle di Scialoja sono forme pienamente situate nello spazio e nel tempo.
La malleabilità della forma è manifesta, in Scialoja, non solo nelle immagini in senso stretto. Il discorso si infittisce perché è inscindibile da quello sulla parola e sul verso; l’artista scelse, lo si è detto, anche la poesia come rilascio formale.
I saggi del volume orientati all’analisi testuale (lodevole è lo sforzo di equilibrare la querelle tra senso e nonsenso sollevata dalla presenza di due “tipi poetici” scialojani – quello dei Versi del senso perso, antologizzati dall’autore nel 1989 e quello successivo delle Poesie. 1961-1998, curate da Giovanni Raboni – troppo spesso postulati come incompatibili dalla critica) non trascurano mai, fortunatamente, il risvolto iconico del dettato poetico di Scialoja; osservano e analizzano costantemente i rapporti tra pratica poetica e pratica pittorica, le collaborazioni tra pittori e artisti che lo vedono coinvolto e soprattutto i variegatissimi fenomeni di iconismo testuale di tutta la sua produzione letteraria.
Molti versi scialojani schiudono, infatti, immagini a tutti gli effetti, e un suo celebre componimento di Amato topino caro (1971, fatto proprio di quei versi che hanno “perduto il senso”, portando il lettore «a pensare di per se stesso alle altre possibili combinazioni e varianti», L.L. Rossi, p. 88) vale da solo come programma teorico verbovisivo: «L’istrice, attrice illustre,/ recita parti tristi/ con occhi lustri lustri/ inchiostrati di bistri»[7]. Un’immagine poetica, quella degli occhi che per essere truccati di ombretto vengono metaforicamente impressi dall’inchiostro usato anche per scrivere, quasi “timbrati”, esprime appieno lo spirito che anima Paesaggi di parole: dimostrare che “inchiostri” e “bistri” (parole e immagini) sono le matrici – se non una matrice comune – di Toti Scialoja, poeta e pittore.
[1] H. Rosenberg, “I pittori d’azione americani” (1952), in Id., Action Painting. Scritti sulla pittura d’azione, tr. it. di M. Cianchi, Maschietto, Firenze 2006, pp. 51-65, qui pp. 52-53 [c.n.].
[2] Cfr. E. Jünger, Il libro dell’orologio a polvere (1954), tr. it. di A. La Rocca e G. Russo, Adelphi, Milano 1994.
[3] E. Jünger, Tipo nome forma (1963), tr. it. e a cura di A. Iadicicco, Herrenhaus, Seregno (MB) 2001, p. 12.
[4] Ivi, p. 11.
[5] Ivi, p. 13.
[6] La citazione di Enzo Paci è tratta da E. Paci, Tempo e relazione, Taylor, Torino 1954, p. 92.
[7] T. Scialoja, Amato topino caro (1971), cit. in E. Morra, Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja, Quodlibet, Macerata 2013, p. 197; si rimanda all’intero cap. IV (“Motivi e figure. Viaggio nei libri nonsense”, pp. 139-204) per una ricognizione approfondita del primo “tipo poetico” scialojano.
Eloisa Morra (a cura di), Paesaggi di parole. Toti Scialoja e i linguaggi dell’arte, Carocci, Roma 2019, pp. 144, 16 €