Gerald Murnane vive a Goroke, nella Victoria occidentale (Australia), un luogo che all’ultimo censimento ha registrato una popolazione di 299 abitanti e dà l’idea, racconta sul «New York Times» Mark Binelli, di una cittadina in cui il processo di evacuazione è quasi completato. La capitale dello Stato, Melbourne, dove Murnane è nato nel 1939, dista trecentosettanta chilometri, percorribili in circa cinque lunghe ore di macchina. Come scrive nella prefazione Ben Lerner, Murnane non è mai salito su un aeroplano e nel corso dei suoi quasi ottant’anni di vita (che l’hanno visto insegnante, editore e docente universitario) ha lasciato lo stato della Victoria in rare occasioni. Il «New York Times» lo ha definito il più grande scrittore anglofono vivente di cui nessuno ha mai sentito parlare e ha ventilato l’ipotesi che possa essere insignito del prossimo premio Nobel per la letteratura. In Italia erano ben pochi a conoscerlo prima della pubblicazione del romanzo Le pianure (The Plains), pubblicato per la prima volta in Australia nel 1982 e ora giunto nelle nostre librerie nella traduzione di Roberto Serrai grazie all’editore Safarà.
Al centro della storia figura un cineasta che per girare un film sulle pianure e i suoi abitanti decide di addentrarsi in quegli sterminati territori pressoché disabitati che occupano la stragrande maggioranza del suolo del continente, territori tanto immensi che «nessuno dei loro abitanti era mai sorpreso di sentire che comprendevano una regione che non aveva mai visto». In quel paesaggio cercava «qualcosa che sembrasse accennare a un significato complesso, oltre le apparenze». Giunto in una grande cittadina, «un certo modo di parlare e di vestire» lo persuadono di essersi spinto abbastanza lontano. Subito si accorge di essere di fronte a un immaginario diverso da quello da cui proveniva.
I lettori e il pubblico delle pianure si lasciavano impressionare di rado dalle emozioni forti, dai conflitti violenti o dalle calamità improvvise. Secondo loro, gli artisti che realizzavano opere del genere si erano lasciati sedurre dal frastuono delle folle o dalla profusione di forme e superfici dei panorami e degli scorci del mondo al di là delle pianure. Per gli abitanti di quei luoghi, nella vita come nell’arte, gli eroi somigliavano all’uomo che per trent’anni ogni pomeriggio era tornato in una casa come tante col prato rasato e qualche cespuglio svogliato, e restava seduto fino a tardi a decidere il percorso migliore di un viaggio che magari faceva da trent’anni solo per arrivare nel posto in cui stava.
La prima mossa (da manuale di antropologia culturale) consiste nel farsi accettare dagli abitanti del luogo, evitando di apparire un qualsiasi turista in vacanza. La seconda, invece, è quella di presentare il suo progetto al comitato di latifondisti-mecenati, con la speranza di venire accolto nella tenuta di uno di questi per proseguire la sua indagine. Superati i primi due ostacoli e preso posto nella nuova abitazione, il protagonista può finalmente condurre liberamente la sua ricerca: se l’obiettivo è scrivere la sceneggiatura del film, se la sceneggiatura intende illuminare il mistero che da sempre avvolge le pianure e i suoi abitanti, il protagonista potrà dirsi soddisfatto soltanto quando avrà risolto questo mistero e deciso come rappresentarlo.
Non sono d’accordo con quanto ha scritto recentemente Michele Neri sulla «Repubblica», laddove afferma che la trama è «breve e deludente». Il fatto è che il romanzo prende presto una piega più nettamente filosofica e il problema del rapporto tra paesaggio ed essere umano, l’equilibrio tra tradizione e innovazione, la relazione tra superficie e interno, il legame tra sapere individuale e conoscenza collettiva diventano il tracciato di un viaggio complesso e affascinante, un romanzo d’avventura in cui l’azione non è fisica ma intellettuale, i pericolosi pirati sono le contraddizioni insite nella ricerca di una visione comune e i terribili tifoni i vuoti disarmanti lasciati dalla consapevolezza dei propri limiti.
La convinzione del protagonista è che le pianure, per la loro conformazione e per il loro isolamento, abbiano costretto i loro abitanti a una visione della vita e del mondo estremamente diversa da quella omologata del mondo occidentale, di cui l’Australia Esterna è un’emanazione. Per gli abitanti delle pianure esistono solo le pianure e «il mondo intero, per loro, era un’altra in una serie infinita di pianure». La lentezza della vita, l’uniformità del paesaggio sembrano costringere le persone a una visione più penetrante del reale, ogni cosa (dalle decorazioni degli interni delle grandi case delle pianure agli emblemi dei latifondisti) diventa facilmente oggetto di speculazione teorica.
L’immaginario collettivo prende forma da questi elementi diffusamente condivisi e da una vecchia faida intellettuale, quella tra «Orizzontisti» e «Uomini Lepre», divenuta poi politica, poi sociale, con dirompenti ricadute sul pubblico piano ermeneutico e gnoseologico: per l’uomo delle pianure, comprendere la realtà che lo circonda è più facile aggrappandosi a una delle due visioni del mondo da questa fazioni proposte. I sostenitori dell’arte dell’orizzonte «insistevano che a commuoverli, più della grandi praterie e dei cieli immensi, era il lieve strato di foschia dove la terra e il cielo si univano, nel punto estremo dell’orizzonte»; coloro che si erano ispirati alla lepre delle pianure, invece, intendevano dar vita a forme volutamente imprecise che sembravano ritrarre un quadro di terra o di erba, e che invece, avvicinandosi, «sembravano evocare uno scenario di grandiosa desolazione». Si tratta di due visioni distinte ma legittime, in quanto paiono trarre ispirazione da questi territori brulli e desolati. Un terzo gruppo di artisti sembra invece intenzionato a invadere il campo, ma è stato presto screditato da ambedue le parti quando ha mostrato interesse per la distribuzione della ricchezza materiale, l’opera del governo, la liberazione degli uomini dalla morale. Sono tutte tematiche che all’abitante delle pianure non interessano.
Riprendendo le parole di un non meglio precisato filosofo, Murnane racconta che «ogni uomo, nel suo cuore, è un viaggiatore su un paesaggio sconfinato» e «perfino gli abitanti delle pianure (che dovevano avere imparato a non temere un orizzonte sconfinato) cercavano punti di riferimento e cartelli indicatori nel terreno inquietante dello spirito». È così che si affidano a gruppi di artisti, fazioni politiche o emblemi, a cui nient’altro viene chiesto che comprensione e legittimazione. E non è un caso che i latifondisti, nonché gli unici a potersi permettere artisti a loro disposizione, finiscano inesorabilmente per commissionare loro il racconto di questa vita che vogliono priva di eventi ed epica, nella convinzione che anche il più breve appunto scarabocchiato in fretta sarebbe decisivo per svelare il mistero.
Del resto, il paesaggio monotono delle pianure costringe i suoi abitanti ad acuire la vista, la lentezza dei cambiamenti obbliga a guardare oltre, l’isolamento vincola le persone a un immaginario contrapposto a quello costiero, fondato su valori altri, capaci di giustificare la solitudine e di trasformare una ricerca orizzontale, come quella vana e illusoria del viaggio (in cui necessariamente il punto di partenza differisce dal punto di arrivo), in una ricerca verticale, ontologica, metafisica. Il coro di personaggi che prende la parola nel romanzo tramite la voce narrante è convinto che «tutto ciò che si vede è un punto di riferimento per qualcosa che si trova al di là». L’arte non deve esortare le persone a dar sfogo alle loro passioni o a parlare con franchezza, come fa l’aleatoria arte occidentale, ma deve mostrare che i cuori racchiudono già ogni paese verso cui sia possibile viaggiare. Quella a cui Murnane sembra alludere è una ricerca individuale, impossibile da condividere, impossibile da comunicare.
Il progetto del regista va in crisi quando gli viene obiettato che «nessuna pellicola poteva mostrare più di quelle immagini su cui un uomo posava gli occhi quando aveva rinunciato allo sforzo di osservare». Il romanzo si popola così di pensatori che nel fallimento della comunicazione artistica trovano la conferma dell’efficacia del loro lavoro: il pittore che dice di avere accesso «a un paese unico come le sue percezioni», superiore a tutti i paesi che altri definivano reali, il compositore che quando finalmente trova l’equivalente in musica del suono caratteristico del suo distretto rimane felicemente incompreso.
L’epica delle pianure non è fatta di conoscenza scientifica, di miti o eroi irraggiungibili, di dei viziati o benevoli, la loro geografia non è organizzata per ascisse e ordinate, ma per gesti e per i valori che ad essi ognuno singolarmente attribuisce: i dati empirici restano «per sempre proprietà esclusiva di un osservatore solitario». Il compositore poco sopra citato lo sapeva bene. Le persone sembrano allora
abitanti di regioni limitrofe, che cercano di riprodurre su una mappa tutte le pianure che ritengono necessarie o tutte quelle che si accontentano di conoscere, e che si dicono d’accordo sul fatto che ciascuno possa includere parte dei confini dell’altro nella propria mappa, ma scoprono alla fine che le loro mappe non si possono accostare con precisione – ovvero, che ciascuno di loro sostiene che esista una zona non ben definita tra gli ultimi luoghi che potrebbe desiderare e i primi sui quali non ha alcun diritto.
Quale significato avrebbe, allora, un film sulle pianure? L’unica cosa che pare contare, in fin dei conti, è la ricerca, e non il risultato a cui essa conduce, e ciò a cui tiene alla fine il protagonista è l’essere immortalato con la macchina fotografica in mano, l’occhio premuto contro il mirino e il dito sospeso. La mancata realizzazione del film può essere davvero considerata un fallimento? Si ricordi che gli abitanti di queste terre desolate non hanno grandi ambizioni, le pianure sono solo «una comoda fonte di metafore per chi sa che sono gli uomini a inventare i loro significati».
Ed è così che emerge con chiarezza la denuncia nei confronti dell’immaginario dell’Australia Esterna, e quindi del racconto occidentale mainstream, un modello che impone i suoi significati, i suoi ritmi e i suoi tempi, la sua estetica, le sue mosse, condanna all’emarginazione chi sogna un racconto altro e, in definitiva, demolisce e ricostruisce a suo piacimento quei confini tra le persone, dando vita a una mappa infelice, a cui l’uomo delle pianure non può che guardare con sospetto e malinconia.
Gerald Murnane, Le pianure, trad. it. Roberto Serrai, Safarà, Pordenone 2019, 128 pp. 18,00€