Nel dibattito pubblico italiano il tema dell’immigrazione si lega soprattutto al Mediterraneo, ai barconi, ai campi libici, alle ONG. Maurizio Pagliassotti, con il suo libro Ancora dodici chilometri, ha il merito di accendere un faro su una condizione altrettanto urgente e drastica, spesso strumentalizzata per una mera retorica dei confini: la tragedia che si consuma quotidianamente lungo la «rotta alpina», con i suoi snodi a Claviere, Sestriere, Bardonecchia, Ventimiglia, Briançon, dove passano frotte di migranti nel tentativo di sfuggire ai controlli della polizia di frontiera per giungere illegalmente in Francia. Pagliassotti – scrittore e giornalista per «il manifesto» –, ha anche il merito di affrontare l’argomento in un modo tanto opinabile quanto, in fin dei conti, schietto ed efficace.
Ancora dodici chilometri è un’opera che non conforta nessuno e che chiede al lettore un atto di tolleranza. Chi si aspettasse da questo libro un resoconto oggettivo e ben documentato sul fenomeno migratorio potrebbe restarne deluso: Pagliassotti non si preoccupa di fornire dati, bibliografia e fonti; si limita a qualche sporadico rimando in nota, concedendo ampio spazio ad esperienze in prima persona, testimonianze raccolte sul campo o evidenze empiriche che non sembrano meritare una dimostrazione statistica. Il lettore si scontra con giudizi perentori, certo distanti dalla moderazione con cui, solitamente, si tenta di compiacere un pubblico vasto e variegato: sovranismo, per Pagliassotti, è sinonimo di «nazionalismo», oltre che «autoincoronazione di un monarca che sfrutta gli istinti e le pulsioni di un mondo che ha deciso scientemente di non ragionare»; la frontiera è «qualcosa su cui lucrare, mobilitare istinti e rabbia», è solo una «triviale strumentazione politica» cui obbediscono coscientemente le guardie italiane e francesi; l’azione umanitaria degli «anarchici» sembra dettata da un mero interesse di «lotta allo Stato» («dato che lo Stato ama fare il boia, loro tentano di far saltare l’intera impalcatura in nome della purezza valoriale cui si appellano nel loro impianto ideologico»); la «nuova sinistra», «dall’orizzonte del progressismo sociale», separa i ricchi in Ferrari dai migranti; la Chiesa, a tutti i suoi livelli gerarchici, è ritratta come un’istituzione incoerente che ostruisce l’operato di pochi parroci virtuosi (come don Rito Alvarez, della Parrocchia delle Gianchette a Ventimiglia); persino i “penultimi” delle periferie sfruttano l’immigrazione come un pretesto per sfogare un malessere sociale e un bisogno di violenza. La stessa rappresentazione del migrante non appaga nessun desiderio di idealizzazione:
È questa una storia dura, composta da frastornanti vuoti, ma soprattutto da quella freddezza glaciale che spesso caratterizza i rapporti tra chi salva e chi viene salvato. L’epica fratellanza che si costruisce giorno dopo giorno è una favola che trova spazio solo nei desideri e nei sensi di colpa che ci trasciniamo dietro. (p. 155)
Non so giudicare il valore del racconto di Matthew – l’inganno è uno strumento di sopravvivenza, e i migranti questo lo sanno bene – ma in fondo spero che mi abbia raccontato delle bugie […].
Matthew i confini li vuole, e li vuole solidi, separatori, insuperabili. La cultura «no border» non gli appartiene, come del resto – dice – non appartiene al migrante. Parole spiazzanti, pronunciate da parte di chi i confini li ha violati rischiando la vita. (p. 194; p. 199)
Quello che inizialmente può sembrare un libro di parte è quindi, in realtà, un libro del tutto sopra le parti, dove i confini della logica cedono di fronte alla legge – tanto semplice quanto impegnativa – della dignità umana. Il quadro proposto da Pagliassotti si traduce in uno scontro crudo ed essenziale: ci sono esseri umani in fuga da una vera e propria caccia all’uomo tra i sentieri che da Claviere portano a Briançon; ci sono i confini nazionali, considerati ‘liberi’ per merci e turisti, ma non per i migranti in cammino verso la Francia; ci sono cittadini che, scegliendo di salvare uomini e donne da una morte per assideramento, e sostituendosi in questo a uno Stato del tutto assente, abbracciano loro malgrado l’illegalità:
Questo è il cuore del “buonismo” che una parte considerevole degli italiani odia: un rifugio, dei volontari, medici, un camper, una cucina dove un pentolone da caserma gorgheggia su un piccolo fuoco perennemente acceso. Il buonismo della rotta alpina ha una caratteristica: sconfina oltre la rigida legalità. Capisco che un’affermazione così perentoria possa suonare sgradevole alle orecchie dei più, ma questo è. Come già detto, il buonismo della rotta alpina sarebbe impossibile senza la fattiva collaborazione dello Stato […]. (p. 148)
La «collaborazione dello Stato» (come la definisce Pagliassotti) non è altro che assenza di qualsiasi intervento strutturale, e dunque silenziosa connivenza e ipocrisia; è l’azione di un governo che strumentalizza gli ordinari soprusi della gendarmeria francese solo quando, come il 31 marzo 2018, può trarne un pretesto per alimentare una sterile retorica nazionalista a scapito delle reali vittime di tutta la vicenda. Il libro, in definitiva, tratteggia un contesto storico e geografico «che divide il mondo in due, tagliato a metà come una mela» e che costringe l’uomo, in particolare il cittadino della Val di Susa, a decidere «da che parte stare».
Il lessico e lo stile giocano una funzione primaria nella rappresentazione di questa realtà. Nell’introduzione, Pagliassotti prende le distanze dalle «descrizioni più patetiche, penose e strappalacrime» che spesso caratterizzano i racconti delle migrazioni e che a suo dire non potrebbero mai smuovere «un’umanità dal cuore dissecato». Lo scopo dell’autore è un altro: «togliere la speranza», «creare un sentimento che porti alla resa incondizionata rispetto all’auspicio che questa armata [di migranti] possa essere bloccata, o dissuasa», poiché si tratta di un ‘plotone’ disposto a tutto, «inesorabilmente più forte, più giovane, più resistente». Come testimoniano queste poche parole, il pathos strappalacrime più consueto viene rimpiazzato, dichiaratamente, dal pathos eroico della guerra, per il quale Pagliassotti attinge a Badeschi e Rigoni Stern. L’immaginario bellico ha la funzione di marcare i confini tra uno Stato di diritto (mancante) e una condizione d’emergenza che stravolge ogni ordine precostituito. Migranti e volontari sono ugualmente vittime ed eroi in un mondo «dove all’ostilità dell’ambiente si unisce l’ostilità umana, a cui si somma l’ostilità di una burocrazia volta a far impazzire non solo il migrante, ma soprattutto colui che tenta di aiutare»: entrambi si spingono oltre i limiti di una realtà confortante e sicura, entrambi sprigionano una forza e una determinazione del tutto eccezionali. Per gli uni come per gli altri, insomma, sembrano valere le lapidarie parole che Pagliassotti dedica a un giovane migrante africano giunto a Briançon nella notte di Capodanno del 2019:
Come questi giovani non siano oggi i nostri eroi, esempi unici e inarrivabili, è un mistero dietro al quale si nasconde il suicidio dell’Occidente (p. 84).
Ancora dodici chilometri è un libro che può insospettire fino all’ultima pagina: per quanto esaustivo in molte sue parti, resta comunque parziale, personale ed estremo. Si ha l’impressione che il reportage valichi i confini del romanzo, restando simultaneamente al di qua della finzione e al di là della realtà oggettiva. Ma accettando le premesse dell’autore e sospendendo il giudizio per 218 pagine, chiunque riuscirebbe a cogliere la portata di una tragedia che coinvolge non solo i migranti, ma anche quei nostri concittadini che assistono giorno dopo giorno a uno spettacolo ingiusto, di fronte al quale non possono permettersi il lusso della speculazione. Se Pagliassotti riesce a smuovere il «cuore dissecato» dei lettori è proprio grazie a un impianto narrativo e all’esempio di chi «non ha voglia di rifugiarsi dietro comode rivisitazioni ideologiche che scavalcano con un balzo unico la fatica dell’esser e del rimanere umani».
Maurizio Pagliassotti, Ancora dodici chilometri. Migranti in fuga sulla rotta alpina, prefazione di Andrea Bajani, Bollati Boringhieri, Torino 2019, 218pp. 16,00€