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La fabbrica di bandiere – Intervista a Hasan Özgür Top

Hasan Özgür Top è un artista turco nato ad Ankara. L’abbiamo intervistato in occasione della mostra XYZ, che avrà luogo presso BACO-Base Arte Contemporanea Odierna dall’8 al 16 febbraio 2020, e in cui Özgür espone l’opera video The Atelier.

In questo lavoro, l’artista porta lo spettatore in un negozio di produzione di bandiere turche a Istanbul. In The Atelier, un tour del processo tecnico in un modesto laboratorio, si sviluppa in una pratica secolare di trasformazione di un semplice pezzo di tessuto in un simbolo sacro. È questo lo sfondo in cui si presentano alcune contraddizioni della Turchia contemporanea, che coinvolgono i legami economici con il Partito Democratico del Kurdistan e il partito curdo in Iraq. È nel laboratorio di bandiere, e proprio tramite al simbolo principale della Nazione, che emerge l’uso di una crescente forza lavoro di profughi siriani. The Atelier cerca di demistificare e smontare simboli elementari e nazionalisti per portarli alla loro minima espressione, e lo fa seguendo delle linee di ricerca che contraddistinguono il lavoro di Hasan Özgür Top.

Ci siamo interessati al lavoro dell’artista dopo aver conosciuto la sua pratica di archiviazione. Emblematica a tal riguardo è Children in ISIS Videos, una raccolta che include più di duemila video che l’ISIS ha caricato su internet. Hasan Özgür Top li ha guardati, ne ha verificato l’originalità (“alcune copie false delle riviste dello Stato islamico sono state rilasciate in forma anonima in passato, per esempio, e galleggiano in rete anche ‘materiali non ufficiali’, che vengono rilasciati da sostenitori di organizzazioni salafi-jihadiste”), li ha analizzati e ha organizzato tale memoria tramite un foglio di calcolo Excel. In questo elenco sono compresi innumerevoli dati, tra cui formati, titoli, durata, date di uscita, da quale momento compare un bambino e in quale situazione si trova, se compare in una scuola, se sta parlando oppure no, etc. L’interesse dell’artista verso bambini e bambine nei video dell’ISIS deriva dal modo in cui un certo tipo di rappresentazione dei minori possa mostrarci qualcosa dell’ideologia che questa organizzazione vuole proiettare sul futuro di tale organismo.

I bambini presenti nei video dell’ISIS sono solo una piccola parte della ricerca di Hasan Özgür Top, che ruota intorno a questioni come l’estremismo, il radicalismo religioso online, la propaganda di stato e l’ingegneria sociale. L’ambito di studio dell’artista include l’anarchismo o il jihadismo e le modalità in cui il partito politico che governa la Turchia (AKP) stia usando la cultura popolare (soap opera e social network) come strumento di propaganda intelligente.

La pratica archiviatrice di Hasan Özgür Top si è anche concretizzata in una iniziativa, nata nel 2016, dal titolo After the Archive? gestita insieme all’artista Köken Ergun e che ha trovato nella conferenza e nei workshop i suoi format privilegiati.

Tale iniziativa indipendente è iniziata come ricerca sugli archivi dei giornali minacciati di chiusura dal governo turco. La preoccupazione principale di tale ciclo di incontri è stata ed è quella di promuovere la produzione di conoscenza intorno agli archivi e di costruire una rete di istituzioni e professionisti che lavorano in questo campo, tra cui le comunità LGBTI+, gli sfollati, una ONG che documenta i dati sulle sparizioni forzate nella storia recente della Turchia.

Hasan Özgür Top è stato parte del team, tuttora operante, insieme a Sarp Özer, Doğa Yirik, Kültigin Kağan Akbulut, Köken Ergun e Inez Piso.

 

Nel programma di After the Archive? hai presentato una lecture dal titolo “Videogiochi e immagini di guerra”. Di cosa si tratta?

Quella conferenza si basava sull’archivio che faccio di materiali di propaganda online delle organizzazioni radicali-islamiche. Nella conferenza ho introdotto il modo in cui trovo, organizzo e lavoro sui materiali. In quel periodo avevo messo a confronto gli elementi estetici di video pubblicati dallo Stato islamico con videogiochi popolari. Penso che questo tipo di sotto-argomenti siano importanti, perché tali analisi di dati possono dare molte indicazioni sull’identità di chi li crea.

Per esempio, è ironico rilevare che questi “fondamentalisti” usano l’estetica e le narrazioni della cultura popolare: la loro retorica essenzialista sostiene che il loro costruire un unico ethos deriva dalla pura primavera del Kur’an e dalla prima e dorata generazione dell’Islam.

Ma quando guardiamo all’universo da cui attingono i loro materiali di propaganda, ci appare una narrazione moderna invece che fondamentalista, che richiama narrazioni dell’immaginario fascista e fantasie maschili, che si nutrivano dei temi dell’eroismo dell’antico e del medioevo e delle mitologie. Ciò che abbiamo di fronte non è un’estetica unica e pura, poiché non è originale.

Questa vicenda è anche disconosciuta da noti pensatori e il mio obiettivo è quello di contribuire a questa discussione, utilizzando le metodologie della storia dell’arte.

 

In passato hai lavorato come fixer. Potresti parlarmi di questa tua attività?

Alcuni artisti al verde, giornalisti disoccupati, studenti di scienze umanistiche, persone che parlano inglese, che hanno contatti con varie reti sociali e politiche, lavorano come fixer in Turchia. Un fixer accompagna giornalisti stranieri che vogliono andare in posti particolari o incontrare persone specifiche e opera anche come traduttore. Tale operatore può e deve dire “Ehi, c’è una cosa interessante lì, ti piacerebbe registrarla?”: è una sorta di venditore di storie a narratori. Essere un fixer aveva anche a che fare con l’introduzione delle “mie realtà” ai “reality maker”, e questo ha fatto di me un altro creatore di realtà. I giornalisti per mio tramite incontravano persone e “fatti”. Per me era sempre strano sentire il potente di quel ruolo nell’accadere di una storia.

 

Quando un’immagine è un fatto? Quando un’immagine può produrre una realtà? Come tale ambivalenza si rapporta con i film documentari?

Quando pensiamo a immagini e a fatti, per lo più tendiamo a porci le domande “è reale?” o “è accaduto?”. Rispondere a queste domande è una prima fase di ricerca per i miei studi. Le fasi successive riguardano i modi in cui mi relaziono con le immagini.

Ciò che chiamiamo fatti sono creazioni determinate nello spazio tra il pubblico e l’immagine finale.

Quando una camera memorizza un soggetto, essa registra la luce che lo riflette, che è reale. Al di là di tale registrazione, c’è una storia che noi inventiamo, che forse comprendiamo, che forse crediamo. Anche se un’immagine manipola alcuni fatti, ne mantiene altri così come sono. Le immagini non si formano per caso: sono prodotti dell’universo visivo dei loro creatori.

La politica è strettamente associata al modo in cui trattiamo le immagini, al modo in cui inventiamo le realtà per immagini. Attraverso immagini, simboli, monumenti e architettura noi rendiamo reale un universo astratto.

La politica è sempre presente in ciò che vediamo in un’immagine. Per esempio, nell’VIII e IX secolo, a Bisanzio, il tuo modo di guardare alle icone delle chiese, avrebbe potuto identificare immediatamente se la tua posizione era quella di un imperatore o di un patriarca.

Per la maggior parte delle persone, i video degli attentati dell’11 settembre 2001 mostrano un massacro di persone innocenti, uccise brutalmente. Ma un numero considerevole di persone considera questi video come documenti di giustizia divina, una punizione dell’invasore, dell’imperialista, dell’eretico degli Stati Uniti da parte di mujahidin o guerrieri. Il modo in cui tu vedi questi video ti identifica come un cittadino o un terrorista.

Quando creo immagini, specialmente per un progetto che ha caratteristiche documentarie, voglio sempre sottolineare che sono fatte da me. Le immagini che registro sono cose di cui sono testimone, sono la mia storia. Ne ho responsabilità e cerco di riflettere sul mio posizionamento anche nelle componenti estetiche dell’opera. Il cameraman di The Atelier sono stato io e, come si può vedere, lo stile di ripresa è traballante e fragile. Non ho usato uno stabilizzatore o un treppiede. Non ho fatto alcuna gradazione di colore e non ho usato alcun effetto sulle riprese. Eravamo soli io e una telecamera, che ho utilizzato nelle impostazioni di fabbrica standard. Il mio movimento del corpo influisce sull’immagine e la mia voce può essere ascoltata nel video. Non mi sento vicino ai linguaggi narrativi che rendono invisibile il produttore né a quelli che affermano di presentare solo fatti nudi davanti al pubblico.

 

Qual è lo spazio indagato in The Atelier? In tale opera video inquadrare la bandiera turca è contestualizzare il simbolo di un potere geografico e politico, ma anche le minoranze che sono in relazione a quel potere. Quando pensi alla Turchia, al simbolo del Paese in cui sei nato, ti riferisci a un’entità geografica? Come senti lo spazio da essa descritto?

Come la maggior parte dei nazionalismi, anche quello turco ha un legame molto forte con lo spazio, con la geografia. Credo sia importante capire che la Repubblica Turca è stata costruita a partire da un trauma. Tutti i leader fondatori della repubblica, anche Mustafa Kemal in persona, sono stati gli ufficiali a metà carriera dell’Impero ottomano, che avevano diverse tendenze ideologiche. Hanno assistito al crollo di un impero enorme e non sono stati in grado di impedirlo. Il Nord Africa, l’odierna Siria, l’Iraq e l’Arabia Saudita, i Balcani sono usciti dalla loro amministrazione. La geografia della Turchia attuale non era altro che un’ultima roccaforte, un ultimo bunker per quella generazione. Non è un caso che uno dei proprietari della fabbrica di bandiere, ripreso in The Atelier, dica che “i profughi siriani possono entrare in Turchia, ma se la stessa cosa accadesse a noi, non avremmo alcun posto in cui andare”.

La Turchia contemporanea è un’ultima roccaforte, secondo questa sensazione e ideologia. Ma lo era già guardando al Patto Nazionale, che era stato pubblicato quale manifesto della Guerra d’Indipendenza del 1920. Il patto rivendicava alcune regioni al di là dei confini odierni e possiamo ancora vedere la continuità di tale rivendicazione nella politica di espansione di Erdoğan verso la Siria e l’Iraq di oggi.

Penso che la bandiera rappresenti quella regione allargata: essa è l’ultimo bunker ed è elemento di unione di coloro che ancora provano quei sentimenti.

 

La sovraesposizione della bandiera turca è un fenomeno equamente distribuito sul territorio turco?

Non ho informazioni precise a riguardo. Sono stato in molti posti in Turchia e posso dire che la gente non ha la stessa motivazione ad usare la bandiera ovunque nella nazione. Lo Stato la usa ovunque come simbolo e per ricordare la propria sovranità, senza dubbio. Ma posso dire che il suo “uso civile” diminuisce nelle regioni in cui il legame d’affetto con lo Stato non è così solido e potente.

 

In una precedente intervista hai citato la frase di Ibn Khaldun “la geografia è il destino”, dicendo che essa è diventata popolare sui social media. Quando e dove è successo? In quale lingua è stata ripresa nel web?

Ho rilasciato quell’intervista per una rivista che viene pubblicata in Turchia e mi riferivo a coloro che usano le piattaforme dei social media in lingua turca. È ovvio che i disordini sociali si stiano stanno espandendo molto in Turchia, soprattutto nell’ultimo decennio. La Turchia è diventata un attore e un campo di battaglia della guerra in Siria. Abbiamo vissuto massacri perpetrati dallo Stato islamico. Il processo di pace tra lo Stato e il movimento curdo è stato interrotto alcuni anni fa. Nel 2016 si è verificato un tentativo di colpo di Stato militare. Molti politici, accademici e giornalisti sono ancora in prigione. Molti si sono suicidati a causa della povertà. E quella frase di Ibn-Khaldun è diventata una espressione di disperazione, in queste circostanze, per coloro che vogliono lasciare questa geografia.

I destini delle geografie potrebbero cambiare rapidamente, nel bene e nel male. L’insieme di queste guerre, la povertà, le iniquità sono cose inventate dall’uomo, e non vedo altro da fare se non cercare un modo per vivere insieme in questa geografia, anche se oggi sembra romantico e impossibile.

 

Vorrei chiederti di tornare indietro nel tempo, per parlarmi della genesi di From Guantanamo to Ar-Raqqah (2015).

Il colore arancione è quello delle tute indossate dai detenuti del carcere di Guantanamo, che ospita anche molti militanti salafi-jihadisti. L’arancione è anche il colore delle tute usate nella prigione di Abu Graib a Baghdad, dove dopo il 2003 le truppe americane hanno trattenuto i “sospetti terroristi”. Nel 2004, il Jama’at al-Tawhid wal-Jihad, gruppo terroristico jihadista e takfirita predecessore dello Stato islamico, ha rilasciato un video che mostrava l’uccisione di Nicholas Berg, giovane uomo d’affari statunitense di origine ebraica, impegnato nel settore delle radiotelecomunicazioni. Berg nel video indossava abiti arancioni. Dopo la sua uccisione, da quel giorno, l’organizzazione ha continuato a fare indossare alle persone che avrebbe ucciso quegli stessi abiti arancioni. Anche il fotoreporter e giornalista statunitense James Foley, dopo essere stato rapito in Siria, è stato ucciso davanti alle telecamere, con addosso vestiti arancioni.

Ebbene, tutti questi arancioni avevano tonalità diverse: scure, giallastre, sbiadite. Ho preso una tonalità arancione dal video di Foley con il contagocce in Photoshop e un’altra da quella delle famose foto scattate a Guantanamo e ne ho fatto una sfumatura. L’ho stampato su carta da parati e ne ho ricoperto una intera parete. L’arancione è diventato un elemento estetico composto da due ali che si uniscono, identificandosi come esattamente opposte l’una all’altra.