Quest’anno la selezione di film alla Berlinale parla molto italiano, con ben 8 titoli nelle varie sezioni, di cui due a concorrere per l’Orso d’oro. Tornano i fratelli d’Innocenzo con Favolacce (due anni dopo aver presentato sempre qui La terra dell’abbondanza) ed esordisce in questo festival Giorgio Diritti, con il suo Volevo nascondermi, opera che giunge ben 7 anni dopo il suo ultimo film Un giorno devi andare con Jasmine Trinca.

Volevo Nascondermi

Misurarsi con la storia del pittore Antonio Ligabue significa non solo affrontare lo scomodo paragone con lo sceneggiato per la RAI realizzato nel ’77 e interpretato dal compianto Flavio Bucci, ma anche confrontarsi con il rischio di incappare nell’ennesima rappresentazione di un outsider di genio, con tutti i cliché del caso. Il compito di disinnescare ogni pericolo di retorica è affidato all’interpretazione di Elio Germano, ormai quasi una scelta obbligata per ogni regista che voglia rappresentare l’eccezionalità umana. La carriera dell’attore romano è infatti costellata da ruoli di personaggi ai margini, di alienati o geni tormentati. La prima volta è stata in Sangue – La morte non esiste, film acerbo diretto da Libero De Rienzo, in cui Germano veste i panni del problematico Iuri, in seguito lo abbiamo visto all’opera in Come Dio comanda di Salvatores, nel ruolo del giovane con disturbi mentali chiamato Quattro Formaggi, e infine ha sorpreso tutti nel ruolo di Giacomo Leopardi ne Il giovane favoloso di Mario Martone. Alle prese con il ruolo del pittore Antonio Ligabue, Germano deve affrontare diverse problematiche. La prima è di certo la lingua, un misto di svizzero ed emiliano che l’artista continua ad impastare nel suo parlato e che l’attore romano riproduce con notevoli risultati. C’è poi la questione del corpo: Ligabue è un uomo affetto da rachitismo e gozzo, malattie che hanno compromesso il suo sviluppo mentale. Anche qui Germano si dimostra abile nel dosare la recitazione, tra gestualità grottesca e un lavoro più sottile sulla voce e gli sguardi. Ne esce fuori un ritratto credibilissimo di uno dei pittori più sfuggenti del ventesimo secolo. In un continuo intrecciarsi di cronaca e lirismo, Il regista Giorgio Diritti decide di raccontarne la storia per strappi temporali, affidando al paesaggio del fiume Po il compito di unire i punti di una vicenda umana indissolubilmente legata al mondo naturale. Ligabue, con la sua ossessione per le bestie di ogni genere e la sua maniera feroce di rappresentarle, è egli stesso elemento panico, al confine tra il mondo immutabile della natura e la società civile. Così Diritti ci offre la rappresentazione di un’artista che non appartiene davvero a niente: non alla Svizzera né all’Italia, nemmeno ad alcuna corrente pittorica, ma solo alla sua ostinata voglia di esistere.

Favolacce

Due anni fa i fratelli D’Innocenzo esordivano sempre alla Berlinale con La terra dell’abbastanza, storia di due amici in cerca di riscatto nella profonda periferia laziale, tra crimine organizzato e affetti familiari. Con Favolacce si abbandonano le atmosfere alla Suburra per addentrarsi in luoghi meno usuali per il cinema italiano, vale a dire quelle del grottesco. In un luogo indefinito, contraddistinto da una sequenza di anonime villette con giardino, è ambientata la storia che ha per protagoniste alcune famiglie piccolo-borghesi ostaggio dei loro stessi sogni illusori. Elio Germano è un padre di famiglia disoccupato che gira in SUV, cuoce la carne sul suo barbecue e compra una piscina gonfiabile per il giardino. I suoi due figli sono piccoli geni con tutti 10 in pagella. Ogni fotogramma ci suggerisce però che qualcosa non tiene e il dramma è dietro l’angolo. Attraverso la scelta di una storia sospesa tra crudo realismo ed favola, i D’Innocenzo vogliono raccontare l’infanzia senza speranza dei ragazzini di molte parti d’Italia, alle prese con le ipocrisie di genitori incapaci di comunicare e un futuro già segnato. L’incolmabile distanza tra mondo dei bambini e mondo degli adulti genererà conseguenze spaventose. Fin dalle prime sequenze, è evidente quanto i D’Innocenzo siano desiderosi di dimostrare di non essere solo ottimi sceneggiatori, ma anche registi con la loro cifra stilistica. La fotografia pare in effetti di un livello superiore rispetto a quanto visto nel film d’esordio e di certo le musiche hanno un ruolo determinante nel mantenere una costante tensione. A mancare però è una certa coesione della trama e una scarsa credibilità delle situazioni, pur trattandosi di una storia che – anche a detta della voce narrante di Max Tortora – non è del tutto realistica. La sensazione è che i registi, alla loro seconda prova, abbiano peccato di eccesso di manierismi, a svantaggio di un impianto narrativo che infine risulta debole e non all’altezza della qualità poetica dell’immagine.