Per la Berlinale il 2020 è anno di grandi cambiamenti. Dopo la direzione ventennale di Dieter Kosslick, si tratta infatti della prima edizione che vede un duo al comando: Mariette Rissenbeek e Carlo Chatrian. Il loro compito è quello di riportare lustro a un festival che ha visto perdere notorietà negli ultimi anni, a vantaggio delle manifestazioni più prestigiose nel Vecchio Continente come la Biennale del Cinema di Venezia e il Festival di Cannes. Per compiere questo cambio di rotta i nuovi direttori ripartono dai grandi valori della Berlinale: l’incredibile varietà di proposte, l’attenzione alle tematiche politico-sociali e soprattutto la partecipazione popolare. Con più di 200 film proiettati in tutta Berlino, suddivisi tra film in gara, le sezioni Encounters, Panorama, Forum, Short Films e Retrospettive, la kermesse si conferma un’imponente propaganda per un cinema in grado ancora di smuovere coscienze, fornire prospettive, ma anche nuovi interrogativi. Tra le tematiche affrontate dalle pellicole selezionate quest’anno, spicca quella legata all’identità e ai suoi confini. Il corpo resta terra di conflitti, di trasformazioni ed evoluzioni su cui è ancora necessario soffermarsi per meglio comprendere la strada intrapresa dalla società, ma anche per meglio capire sé stessi.
El Prófugo (Natalia Meta)
Inés è una cantante e doppiatrice che fa dei terribili sogni ricorrenti e il misterioso suicidio del compagno, durante un soggiorno in Messico, non fa che aggravare la sua condizione. El Prófugo si presenta come un thriller con elementi gotici che recupera le atmosfere anni settanta dei primi film di Dario Argento, sia dal punto di vista fotografico che sonoro. Quest’ultimo aspetto in particolare gioca un ruolo fondamentale nella trama: Inés infatti, mentre è intenta a doppiare inquietanti cartoni animati giapponesi, avverte una sorta di interferenza nella sua voce. Da quel momento la protagonista si convince di essere assediata da presenze più o meno ostili, persone e fantasmi che pretendono di far parte della sua vita, alterando la sua stessa identità. Inés dovrà scegliere se combattere questi intrusi – clandestini? – oppure accoglierli, innescando una vera e propria mutazione. Gran parte della pellicola è retta dalla bravura dell’attrice Erica Rivas, presente in praticamente tutte le inquadrature, quasi fossimo anche noi spettatori dei morbosi intrusi intenti a studiarla. La scelta di incentrare la storia attorno a una doppiatrice e a uno studio di registrazione richiamano lo splendido Berberian Sound Studio di Peter Strickland.
Petite Fille (Sébastien Lifshitz)
Sébastien Lifshitz è un regista di grandissima sensibilità e dall’indiscutibile talento che da anni, tra film e documentari, racconta il mondo dell’omosessualità e della transessualità. In quest’ultima Berlinale presenta, nella sezione Panorama, un documentario sulla disforia di genere, ovvero il disagio percepito da un individuo che non si riconosce nel genere assegnatogli dalla nascita. Protagonista del documentario è Sasha, bambino francese di 8 anni che da sempre si sente una bambina. La madre crede che la colpa sia sua: durante la gravidanza ha desiderato fortemente una figlia. Naturalmente è una dottoressa a sfatare questo mito e a confessarle candidamente che non vi è nessuna causa nota alle origini della disforia di genere. Accade e basta. La camera di Lifshitz registra con misura e delicatezza la vita di Sasha all’interno di una famiglia intenta a proteggerla da una società che ancora non ha strumenti adatti per accoglierla nella sua nuova identità, mentre si avvicinano i tempi difficili dell’adolescenza e di uno sviluppo fisico da ritardare. Probabilmente uno dei titoli più importante di questo Festival, capace di raccontare una vicenda estremamente drammatica con grazia e senza scadere in facili patetismi.
La casa dell’amore (Luca Ferri)
Bianca è un transgender di Milano. Tutta la sua vita è racchiusa tra le quattro mura del suo appartamento in Viale Certosa dove accoglie amici e clienti. Il tempo all’interno della casa scorre lento, tra un’iniezione di ormoni, telefonate per i prossimi appuntamenti e lunghe chiacchierate con la compagna Natasha in Brasile. Bianca vuole organizzare una festa per il suo ritorno in Italia, che avverrà a breve. Il regista Luca Ferri chiude con questo film la sua trilogia dell’appartamento, il cui oggetto dell’indagine è stato il rapporto tra soggetto e mezzo filmico in una condizione di limitazione, anche spaziale. Benché in effetti centrale ne la casa dell’amore, l’aspetto legato al sesso e all’identità sessuale non sarebbe al centro della ricerca dell’autore, ma quasi un effetto collaterale. Ferri infatti afferma di aver trovato Bianca cercando una persona che lavorasse principalmente entro le mura domestiche e che non fosse inizialmente interessato a sviluppare la tematica LGBT. Bianca però prende decisamente la scena, raccontando i piccoli rituali di una vita dai ritmi regolari, a tratti malinconici.