Con Sogni e favole di Emanuele Trevi cominciamo a presentare i libri finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2020. L’autore incontrerà il pubblico alla biblioteca Tiraboschi martedì 7 aprile alle 17.30.
La depressione è la morte del racconto. I pensieri del depresso sono circolari, ossessivi, vuoti. Sono negativi in modo assoluto: perché distruggono ogni forma di significato che siamo in grado di dare alle cose e a noi stessi, unico schermo contro il silenzio assurdo del mondo, il suo essere cieca materia.
La depressione è la selva oscura di Emanuele Trevi, la causa prima che muove l’autore nell’elegante fuga narrativa di Sogni e favole, edito da Ponte alle Grazie nel 2018. Metastasio è la sua Beatrice, il nume tutelare che lo conduce alla salvezza.
Per fuggire dalla casa, e dai luoghi chiusi in generale, che si trasformano troppo velocemente in tane accoglienti per la malattia, l’unico rimedio di Trevi sta nel vagabondare disperato per le strade romane, perché soltanto con il movimento fisico riprende a circolare «quel senso narrativo dell’esistenza che è così importante per sopravvivere con un briciolo di senno» (44). Il suo cammino, metafora classica dell’incedere narrativo, riproduce il moto dei pensieri, ed è dunque fatto di frammenti in cui l’attraversamento dello spazio è anche un percorso nella memoria. E non potrebbe essere altrimenti in una città come Roma, «così antica che la si direbbe imbrattata di tempo» (44).
A dettare il ritmo dei passi sono i versi di un sonetto di Metastasio, Sogni e favole io fingo, scritti nel 1733 a Vienna, dopo che il poeta si era scoperto commosso per una scena dell’Olimpiade di cui aveva appena concluso la stesura. La poesia è ripetuta più volte nel romanzo in funzione incantatoria, come una formula magica:
Sogni, e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole, e sogni orno, e disegno,
in lor, folle ch’io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango, e mi sdegno.Ma forse, allor che non m’inganna l’arte,
più saggio io sono? È l’agitato ingegno
forse allor più tranquillo? O forse parte
da più salda cagion l’amor, lo sdegno?Ah che non sol quelle, ch’io canto, o scrivo,
favole son; ma quanto temo, o spero,
tutto è menzogna, e delirando io vivo!Sogno della mia vita è il corso intero.
Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,
fa’ che trovi riposo in sen del vero.
Metastasio è la più alta icona del teatro settecentesco, un’epoca in cui tutto era scena, arte dell’apparenza. Il suo nome stesso è letteratura, traducendo in lingua greca e nobilitando il vero cognome di Pietro Trapassi, nato e cresciuto nel quartieraccio di via dei Cappellari, figlio di un mercante di farina e destinato al mestiere di garzone. Ma accade che per magia il ragazzo del popolo sappia comporre versi perfetti e così belli che tutti sono curiosi di sentirli. Tutti, anche Carlo VI d’Asburgo, che nel 1729 lo assume come poeta cesareo al teatro di Vienna.
Metastasio, che è riuscito a vivere serenamente proprio grazie a una dedizione totale alla poesia e alla costruzione del personaggio di se stesso, è la guida ideale contro l’angoscia della realtà biografica.
Solo l’arte può salvare dalla materia informe e insignificante di cui è fatto il mondo e di cui è partecipe la carne del nostro corpo. Trevi insegue questo insegnamento, ripetendo a mente i versi del sonetto, formula che trasfigura la contemporaneità in quella che è stata per lui l’età d’oro della letteratura italiana: il vicino Novecento.
Sceglie ad accompagnarlo una guida terrestre, il fotografo ritrattista americano Arturo Patten, amico di Trevi morto suicida ad Agrigento nel 1999, dopo aver scoperto di essere malato di AIDS. Nella rilettura allegorica e metartistica che Trevi compie sulla realtà, Patten diventa uno stalker, il cicerone del film omonimo di Tarkovskij che accompagna gli uomini attraverso la Zona nella Stanza in cui si realizzano tutti i desideri. Patten è traghettatore e protagonista allo stesso tempo della trinità con cui Trevi simbolizza il secondo Novecento letterario; gli altri due fantasmi chiamati a infestare le strade di Roma e i ricordi sono il critico Cesare Garboli e la poetessa Amelia Rosselli, entrambi conosciuti dall’autore per intercessione di Patten. Descrivendoli rispettando la complessità delle loro esistenze, Trevi trasmette il fascino che prova nei loro confronti, come fossero maghi in grado di realizzare i sogni con la loro scrittura. E davvero Trevi dà testimonianza di personaggi eccezionali. Di Arturo Patten, con la sua brama pura e felice della bellezza; di Cesare Garboli, il grande critico, «collezionista di tipi bizzarri e intenditore di caratteri inquieti» (118), che nell’ultimo periodo della sua vita, per l’agitazione di non riuscire a portare a termine tutti i suoi progetti, lasciava in eredità agli amici scrittori le tracce delle sue ricerche, come un professore apprensivo e benevolo farebbe con i suoi migliori studenti; di Amelia Rosselli, il personaggio più affascinante dei tre, che porta nella sua biografia e nei suoi versi la violenza del Novecento, ma anche la forza di una poesia in grado di incendiare gli animi dei lettori.
Come già era accaduto in Qualcosa di scritto, a fianco della mitopoiesi dell’olimpo letterario è sempre pressante un presentimento. Riferendosi al grande amore provato da Laura Betti per Pier Paolo Pasolini, amore che l’ha salvata da se stessa e dal tempo che passa, Trevi scriveva:
Non c’è forse, tra tutti i dolori che la vita ci costringe a sopportare, un dolore più grande di questo: amare qualcuno più di se stessi, e godere, fino a un certo limite, della sua presenza – e nello stesso tempo, capire che quell’essere amato, proprio mentre è lì con noi, in realtà appartiene solo al suo destino che già, mentre siamo sicuri di stringerlo a noi, lo porta lontano. Perché la sua storia, per quanti sforzi possiamo fare, non è la nostra e non lo sarà mai (70).
Come Pasolini, anche i fantasmi disturbati per Sogni e favole sono portatori di una sovrabbondanza di destino, «come se l’esistenza che conducono fosse più appropriata, per l’intensità del sentire e il dispendio delle forze, a una moltitudine» (84). E da questa grandezza Trevi si sente inesorabilmente escluso, perché il suo tempo non è il loro e lui è costretto a vivere nella realtà contemporanea di cui dovrebbe essere rappresentante e da cui invece fugge negandole ogni possibilità di meraviglia. Se il secolo scorso «era ancora il tempo degli artisti» (14), il nostro è quello delle celebrità famose solo per i pettegolezzi che i social network costruiscono sulle loro vite. Sono finiti gli anni in cui i libri «passavano di mano in mano lasciando ustioni, come carboni ardenti»: oggi questo non è più possibile, a causa di una società che, costantemente connessa nella comunicazione globale, non lascia spazio al silenzio dei pensieri che permette la memorabilità necessaria a creare l’aura della letteratura. Il sogno, così, diventa incubo e Trevi ci cammina dentro pieno di febbre, perdendosi sempre di più in quel labirinto personale a cui lui ha dato il nome di Novecento.