Nel proemio delle Baccanti di Euripide il dio Dioniso fa il suo ingresso in scena, giungendo alla città di Tebe travestito da straniero. Poco più avanti è Penteo, il sovrano della polis, a descrivere l’aspetto del dio, un giovane dai riccioli biondi e profumati, vermiglio in viso. Dioniso viene a Tebe per diffondere il proprio culto, fatto di irrefrenabili pulsioni vitali, canti e danze, una religione orgiastica e misterica carica di pericolosa energia.
Proprio come accade in questa tragedia, nel nuovo romanzo breve di Carola Susani, Terrapiena, ai margini di una baraccopoli edificata a seguito di un terremoto nella Sicilia orientale – anni ’70 circa – fa la sua comparsa un giovane dai riccioli biondi e da uno strano colorito della pelle che la gente del luogo chiama Italo Orlando, sulla scia di una «specie di leggenda» la quale «narrava del figlio di un avvocato Orlando […], che era impazzito e aveva cominciato a girare per la Sicilia a piedi scalzi portando fortuna a chi se lo prendeva in casa».
A narrare l’arrivo di Italo è Ciccio, un giovane preadolescente diviso fra una madre che ha occhi solo per la sorella («mia sorella era il suo piccolo dio e io soffrivo di una gelosia disperata e inconfessabile») e un padre mai conosciuto, sostituito dallo Zio, esponente minore della mafia locale. Ciccio è un ragazzino solitario, selvatico, irrequieto e ribelle, un “ragazzo di vita” in fuga da una realtà fatta di povertà e violenze, turbato dal proprio corpo in evoluzione («il corpo non si bastava più, sentiva il bisogno di qualche cosa che non era cibo») e privo di ogni coordinata («se avessi avuto una pecora o un cane sarei corso dietro alla pecora e al cane; per come ero fatto, tutta la vita dovevo correre dietro a qualcuno, ma poiché non avevo né pecora né cane, la pecora e il cane ero io»).
La sua confusione prende forma proprio nel racconto che dà dei fatti. Ciccio è costantemente incapace di interpretare quanto gli accade intorno: le sue osservazioni, sebbene sempre accurate, sono spesso antitetiche tra loro (prima «il tepore delle ciabatte di Marco mi fece un po’ schifo e un po’ piacere» e poi «Odiavo le ciabatte di Marco, la stoffa leggera dei pantaloni che non mi proteggeva, e i piedi»). Eppure, questo modo bifronte della narrazione apre squarci inattesi nei quadri della storia, scomponendo e riassemblando oggetti e persone, dando modo di penetrare nelle contraddizioni che ne regolano le esistenze. Esempio per eccellenza è la madre, da un lato colma di quel misticismo sacrale che solo i genitori possono suscitare nei figli («Mia madre parlò, lo faceva così raramente che quando capitava risultava ieratica»), dall’altro descritta come una persona arida ed egoista:
«Mia madre era una donna senza chiaroscuri, senza spirito, senza ombre, su di lei la superstizione, ma anche la religione, non attecchivano. Le interessava solo soddisfare i suoi bisogni e per quelli avrebbe trasgredito ogni legge».
Nella sua esistenza sbandata Ciccio trova una seconda casa in una comune di anarchici, comunisti e hippie che risiede all’interno della baraccopoli; sarà proprio questo gruppo a incontrare Italo Orlando – non giunto di sua spontanea volontà, ma ritrovato semi-annegato alla foce di un fiume come un novello Odisseo – e ad accoglierlo tra le proprie schiere.
La relazione omosessuale che Italo intraprende con Saverio – il figlio ribelle dello Zio – e i vagabondaggi di Ciccio si affiancano quindi al coro di personaggi secondari che animano la comune: una galleria di ragazzini scorrazzanti tra cui Dora, primo oggetto del perturbato desiderio di Ciccio, e poi Mommo, un “gigante buono” («era un trasgressore buono, il conforto dei bambini, il sostegno delle madri, a quel ruolo sarebbe stato poi, nel corso della vita, sempre fedele») e gli altri adulti. Con loro compare il mondo politico degli anni ’70 fatto di cortei, assemblee, picchetti, manifesti e rivendicazioni di diritti che facciano giustizia e ricostruzione. Così, mentre Ciccio tenta di sopravvivere a se stesso, Italo diventa invece il motore silenzioso degli eventi pur rimanendone apparentemente ai margini; appare a intermittenze, ora irrompe sulla scena per poi svanire rapidamente, ora viene scorto sotto un lampione a toccarsi con Saverio, ora lo si incontra alla comune intento a disegnare. Proprio come un dio, Italo non è mai presente, ma appare. Inoltre non parla quasi mai, ma ride sguaiatamente, spesso fuori luogo, dimostra un’elasticità fisica fuori dal normale e un senso di scarsa cura nei confronti degli altri; egli è la manifestazione di una forza ctonia e insondabile, ma allo stesso tempo indifferente al mondo che la circonda. Un’energia che accade e che pare influenzare la realtà circostante al punto di far volgere al meglio gli eventi per la comunità di oppressi che lo ha accolto:
«“Metti” mi diceva [Mommo ndr] “i braccianti discutono un contratto? C’è Italo? Il proprietario cancella il cottimo; i muratori e i carpentieri riescono a strappare accordi d’oro? Stai certo che Italo li aspetta fuori. E vedrai adesso: c’è da ottenere acqua, case, strade, boschi. Se Italo sale con la delegazione, vedrai come firma il sindaco.»
Tuttavia, come insegna la mitologia antica, non c’è forza simile a quella di Italo che possa essere solo benefica e così, una volta misteriosamente sparito, egli porterà con sé la buona sorte di cui era latore innescando ancora una volta una serie di eventi che precipiteranno verso la catastrofe. I tempi infatti non saranno più maturi per le lotte politiche e la consapevolezza di una causa persa si diffonderà disgregando la comunità politica e sociale. Sarà proprio il tramonto di questa stagione a rafforzare poi la mafia che, da sempre in attesa e in contrasto con la comunità anarco-comunista, stenderà le sue ombre sanguinolente sul futuro della baraccopoli, rappresentata dalle oscure figure dello Zio, irriducibile violento, e di un misterioso parente tanto potente da cambiare le sorti di chi gli cade in grazia.
In un quadro a cavallo tra il Pasolini delle Borgate e il Pratolini de Il quartiere, e attraverso una scrittura tesa all’evocazione sensoriale del tatto e della fisicità continuamente evidenziata dalle osservazioni di Ciccio («Mi prende una nostalgia così forte della pelle che mi vorrei guardare in qualche posto, petto, caviglie, ma è di nuovo buio»; oppure «si infilò fra i piedi e le ciabatte una polvere sottile, piacevole» o ancora «L’urina calda mi ricadde sulle cosce e mi confortò» ecc) Terrapiena racconta in una narrazione a mosaico, frammentata e temporalmente scomposta, una favola nera sulla breve stagione della giovinezza e sulle sue speranze, infrante dal potere viperino e gramo che cova sempre nei cuori degli uomini e che nulla, se non l’intervento di un dio, può tentare di arginare per restituire un’esistenza dignitosa agli oppressi.
«Allora non pensai a come sarebbe potuto crescere in bellezza il mondo se quella fortuna fosse stata duratura. Pensai forse: riuscirò ad acchiapparne qualche briciola, qualcosa da spendere per me? Anche adesso, non penso a come sarebbe potuta crescere una società più giusta, penso a quello che saremmo potuti diventare, Saverio e io, se la fortuna avesse continuato a viaggiare senza scosse».
Carola Susani, Terrapiena
Minimum fax 2020, 123 pp, 15€