L’appartamento in cui vivo non raggiunge i cinquanta metri quadri, ha una doppia esposizione e affaccia su una piazza in cui, nonostante il lockdown, un gruppo di operai del Comune continua ogni giorno a posare la nuova pavimentazione. Guardando fuori dalla finestra, si alternano palazzi di ringhiera di inizio Novecento e condomini piastrellati degli anni Sessanta. Il balcone, invece, dà sull’interno, è quadrato e un po’ angusto, un metro e mezzo per un metro e mezzo, forse meno. Al secondo piano, entra meno luce di quanta dovrebbe, ma la vista è di quelle che rilassano: facciate color pastello, vecchie ringhiere, cortili che danno su altri cortili, fino all’ultimo in fondo, dove la statua di una madonna osserva dalla sua nicchia nel muro qualche temerario che – a volte con mascherina, più spesso senza – le passa davanti.
L’Italia è in lockdown da una settimana, lo sappiamo tutti. Qui a Milano, però, il “restate a casa” è cominciato prima, ormai venti giorni fa. Ho la fortuna di poter portare il mio lavoro dove preferisco, e ho preso fin dall’inizio piuttosto seriamente questa faccenda del virus. Per quanto le prime indicazioni fossero vaghe e contrastanti (le battaglie a colpi di hashtag, il #milanononsiferma diventato un #chiudetetutto, l’urgenza che tutti avevano di dire qualcosa anche in assenza di voce), sono in pressoché totale isolamento da allora. Forse ha aiutato il fatto che ho quasi sempre vissuto in smart working, da ben prima che iniziassero a chiamarlo così. Conosco i trucchetti che passano in questi giorni sui social: alzarsi presto, infilarsi almeno un paio di jeans e una maglietta, ricordarsi della differenza tra weekend e giorni feriali, abborrire il pigiama, eccetera eccetera. Ad ogni modo, in meno di cinquanta metri quadri bisogna stare, e qui sto.
In camera c’è una libreria bianca, stretta e alta, incuneata in un angolo (in meno di cinquanta metri quadri bisogna inventarsi lo spazio). Sono accatastati senza troppo ordine quei libri acquistati e mai letti. Visti tutti insieme danno un po’ d’inquietudine, come se fossero lì a sottolineare che mai avrò abbastanza tempo per leggere tutto ciò che vorrei. Ma in questi giorni sono una bella sicurezza: dà lì ho tirato fuori Cold Spring Harbor, l’ultimo romanzo scritto da Richard Yates, in una vecchia edizione minimum fax. Come spesso mi accade, però, sono stati due libri usciti da poco a farmi compagnia prima di andare a dormire. Uno sta sul comodino e l’altro sull’iPad. Hanno un vantaggio innegabile, in questo momento: portano via dal qui e ora e fanno immergere nella storia del nostro Paese, che ne ha passate tante e ora sta passando anche questa.
Innanzitutto, Prima di noi (Sellerio) di Giorgio Fontana. Fontana, vincitore del premio Campiello nel 2014 con Morte di un uomo felice e amico di lungo corso della Balena Bianca, si è messo alla prova con il suo libro più ambizioso, frutto di anni di ricerche. Marco Missiroli l’ha definito il “grande romanzo italiano”, io non sono un amante delle formule, ma di sicuro Prima di noi centra il bersaglio: unisce Storia (con rigorosa maiuscola iniziale) e storie, risultando sempre credibile e regalando attimi di totale immersione. L’epopea della famiglia Sartori prende il via con la disfatta di Caporetto e con una diserzione, anno 1917, e termina nel decennio scorso (2012), un pellegrinaggio che dalle campagne friulane arriva nella periferia milanese. Sono quasi novecento pagine, ma si leggono tutte d’un fiato. Fontana possiede un’abilità rara: quella di far parlare i luoghi, i paesaggi, soprattutto le città. Non è affatto male, in questo periodo, ricordarsi da dove siamo arrivati, qual era la vita dei nostri nonni e dei nostri bisnonni: le nostre privazioni quotidiane assumono subito un’altra dimensione, si rimpiccioliscono, quasi scompaiono.
Il secondo libro è Città sommersa (Bompiani) di Marta Barone (che doveva farci compagnia alla festa di inizio anno della Balena Bianca, come qualsiasi altra cosa rimandata a data da destinarsi). L’esordio narrativo di Barone non è davvero narrativo: è un memoir, il racconto in prima persona di un’assenza e di una ricerca. Tutto ruota attorno alla figura del padre e al suo passato. Parlando con chi l’ha conosciuto, spulciando gli archivi, facendo sopralluoghi, Barone insegue il suo fantasma e, così facendo, apre uno squarcio su un’epoca del nostro Paese, gli anni Settanta. Vediamo gli ideali che hanno fatto il Sessantotto stiracchiarsi e ridefinirsi, fino a diventare quasi l’opposto; la parcellizzazione dei gruppuscoli extraparlamentari, in conflitto tra loro; l’estremismo sempre più estremo; la lotta armata, le bombe e gli attentati. È un mondo che, visto dalla nostra epoca, appare quasi irriconoscibile, a tratti folle. E l’autrice lo racconta con invidiabile equilibrio: non cede mai alla nostalgia (così comune quando gli scrittori della nostra generazione si confrontano con anni che hanno esplorato solo attraverso i racconti più o meno mitizzati di chi ci ha preceduto), ma non cede nemmeno alla condanna (espediente facile, per noi, dall’alto del nostro sarcasmo, della nostra ironia, del nostro sentirci post-). Città sommersa è un romanzo sulla memoria, sul ricordo, sui sommersi e sui salvati della storia.
A proposito di storia, è strana questa sensazione di star vivendo un momento epocale, quando dalle nostre finestre non si vede niente di anomalo. Tuttalpiù una strana quiete, persino sonnolenta. Soltanto ogni tanto, nei momenti di maggior affluenza, guardo la serpentina di persone in coda fuori dalla farmacia all’angolo, a un metro di distanza le une dalle altre. Non esattamente quello che ci hanno raccontato tonnellate di narrazioni distopiche. Come probabilmente hanno fatto in molti, ho ripensato a due romanzi che sembrano in qualche modo descrivere la nostra situazione, Cecità di José Saramago (Einaudi) e La peste di Albert Camus (riportato in libreria un paio d’anni fa da Bompiani con la nuova traduzione di Yasmina Mélaouah). I miei due volumi stanno al loro posto nelle librerie della sala. Li ho presi in mano e li ho guardati, ma non mi è venuta voglia di rileggerli. Non parliamo poi di Manzoni.
La mia concessione a questi tempi distopici è stata invece La nube purpurea (Adelphi) di M. P. Shiel, un romanzo scritto con lucida follia che racconta una lucida follia. Pubblicato nel 1901, più volte dimenticato e riscoperto, sembra all’inizio un tradizionale racconto d’avventura ottocentesco (una spedizione ai confini del mondo, un medico borghese e un paio d’omicidi dovuti all’ambizione) per poi diventare tutt’altro. La storia è semplice: un uomo parte per una spedizione al polo; quando torna l’umanità intera è annientata, “qualcosa” si è propagato per il mondo come un gas asfissiante e ha lasciato dietro di sé soltanto il silenzio delle città abbandonate, ricoperte di cadaveri, i vascelli alla deriva, la natura che lentamente riprende il proprio corso. Impagabile lo stile di Shiel quando, con gusto squisitamente decadente, indugia sull’enumerazione: le armi presenti negli arsenali; gli ori, i tessuti e i velluti con cui il protagonista addobba la sua villa nel Mediterraneo; le terrificanti esplosioni grazie a cui, una notte, Londra viene rasa al suolo.
Di solito utilizzo la musica per creare una barriera, per escludere i suoni dissonanti del mondo e, soprattutto, le voci estranee. In metropolitana, davanti al computer, durante una passeggiata. Con i brani che diventano un sottofondo indistinto e accompagnano i pensieri. In questi giorni però è diverso. La musica mi sembra andare in direzione opposta, costruire un ponte con tanto di arcate, asfalto e parapetti, un collegamento armonico con ciò che sta fuori. Siamo una generazione fortunata, abbiamo a disposizione tutta la musica del mondo senza dover uscire di casa. E di cose belle ne sono state pubblicate tante, nell’ultimo periodo. Anche in questo caso sono due i dischi che sto ascoltando di più, entrambi dimostrano come il jazz stia vivendo una vera rinascita, ha finalmente lasciato da parte gli intellettualismi in cui si era cacciato per tornare a dialogare con la sua parte più vera, quella viscerale e anarchica (la via tracciata da Kamasi Washington che diventa florida).
Il primo è Fly or Die II: Bird Dogs of Paradise della trombettista Jaimie Branch. Ogni pezzo dell’album è un continuo reinventarsi, una contaminazione incessante del jazz con sonorità hip hop, blues, punk, noise, un vitalismo estremo ma addomesticato. E quando la voce spezzata di Branch accompagna gli strumenti – come nella struggente Prayer for Amerikkka – possiamo davvero apprezzare quest’artista in tutte le sue potenzialità. Il secondo è la rivisitazione dell’album-testamento di Gil Scott-Heron a opera del talentuoso batterista e compositore Makaya McCraven: I’m New Here diventa così We’re New Again. La voce graffiante di Scott-Heron – figura quasi mitologica, pioniere dell’hip hop prima della nascita dell’hip-hop, virtuoso dello spoken word, attivista per i diritti degli afroamericani – viene riportata in vita dal giovane McCraven, che la veste di sonorità calde e avvolgenti. Entrambi i dischi sono usciti per International Anthem, l’etichetta che, secondo Pitchfork, “sta reinventando le regole del jazz”.
Alle sei e mezzo, bisogna sporgersi un poco dalla finestra per aggirare i palazzi con lo sguardo e intuire il tramonto. È il momento in cui la piazza sembra accogliere la stessa gente di sempre. C’è chi torna dal lavoro (non è vero che tutto è chiuso), chi porta a passeggio il cane (non molti, forse nessuno ha la fortuna di avere un giardino), chi si sgranchisce le gambe, sfruttando la zona d’ombra del decreto ministeriale (passeggiate sì, passeggiate no, passeggiate un po’). Poi c’è soltanto il suono delle stoviglie che si propaga dalla corte interna. Infine, si accendono le luci e i televisori. Tra le decine di serie tv, sono due (sempre due) quelle a cui ho dato una chance.
La prima è Hunters (Amazon Prime). La serie è prodotta da Jordan Peele, regista e sceneggiatore del pluriapprezzato Scappa – Get Out, e tra gli attori spiccano Al Pacino e Steve Buscemi. Ambientata nella New York degli Anni Settanta, segue alcuni “cacciatori di nazisti” decisi a farsi vendetta. Si basa su un presupposto storico reale: molti ufficiali hitleriani dopo la Seconda guerra mondiale riescono a evitare i processi e a rifugiarsi in America, dove vivono indisturbati la propria vita. Ma la serie abbandona presto la verosimiglianza per lanciarsi lungo un percorso di esplicita ascendenza tarantiniana, che cade nella volontà di strafare: troppi riferimenti, troppa voglia di stupire, troppo humor nero. Peccato.
Decisamente più riuscita è Escape at Dannemora, con Benicio Del Toro e Patricia Arquette. Anche in questo caso il punto di partenza è una storia vera, quella di un’evasione incredibile. Ma la regia sobria e curata di Ben Stiller – alle prese con un mondo distante anni luce da quello della commedia – accentua il realismo in ogni particolare. La miniserie è uscita un annetto fa, ma sulla piattaforma Now Tv è ancora disponibile, e il contrasto tra i paesaggi innevati – i boschi di conifere al confine tra Usa e Canada – e il mondo asfissiante del carcere è di quelli che, visivamente, restano a lungo. Ma Escape at Dannemora fa di più. Sbattendo in faccia allo spettatore la quotidianità di chi è recluso, ci porta a pensare che: no, vivere in meno di cinquanta metri quadri per un mese o poco più non è affatto una prigione, come a volte si sente dire. Nemmeno quando, la notte, abbasso le tapparelle e lo sguardo cade sui locali della piazza con le saracinesche serrate da settimane.