Chi leggerà Turbolenza di David Szalay si ricorderà di questo libro la prossima volta che prenderà un aereo. Quante volte abbiamo sfiorato o chiacchierato con sconosciuti, le nostre storie silenziosamente a fianco alle loro, dentro il confort di un velivolo, tra nuvolaglie e paesaggi lontani, nella tranquillità di una rotta uniforme o tra gli scossoni di una turbolenza, quante volte abbiamo immaginato di dare forma narrativa a questo rito che è viaggiare in aereo.
David Szalay – nato a Montréal nel 1974, di origine ungherese ma di lingua inglese, autore già del premiato Tutto quello che è un uomo (Adelphi, 2017) – ha esplorato le potenzialità di questa esperienza e ha costruito un libro di dodici racconti, ognuno collegato al successivo da un personaggio-cerniera. Dodici viaggi, da cui i titoli formati dalle sigle trilittere degli aeroporti di partenza e di arrivo (per esempio LGW-MAD, cioè Londra Gatwick – Madrid Barajas), in una staffetta dove ogni destinazione diventa luogo di partenza per qualcun altro, in un circolo che compie il giro del mondo e si richiude sul capitolo iniziale. E anche se un certo gioco letterario si ravvisa in questa forzatura (inverosimile che una catena di dodici estranei abbracci tutto il pianeta, semplificate alcune ambientazioni esotiche: un albergo, una villa), sono diversi i racconti che oscillano tra il piacevole e il brillante.
Le turbolenze fisiche diventano metaforiche, scrollamenti improvvisi che dissolvono «l’illusione di sicurezza». Il trauma può essere la morte della sorellina di tre anni, la notizia della cecità di un neonato, la crisi di un matrimonio, una lite famigliare. Eventi che si ripercuotono nei giorni successivi, giungendo a riplasmare persino le identità, come coglie con lucidità Marion: «Era uno di quegli avvenimenti, pensò, che fanno di noi ciò che siamo. Cose che sembrano succedere così, senza un motivo, e invece poi restano lì per sempre, e a poco a poco ci accorgiamo che ci hanno segnati, che niente sarà mai più come prima».
Lo schema narrativo però è vario, per cui ogni testo conserva un suo grado di originalità e sorpresa. Per esempio in MAD-DSS (Madrid-Dakar) Cheikh sta tornando in macchina dall’aeroporto a casa e, mentre racconta alcuni particolari del viaggio, nota un cupo nervosismo nell’autista, prova inutilmente a chiedergli più volte se è successo qualcosa, finché arrivato sotto casa vede le finestre spente e nel silenzio ostinato del suo accompagnatore «lentamente, come se stesse salendo al patibolo, salì i gradini ed entrò nella casa buia». Il racconto si interrompe qui, ma nel successivo un nuovo protagonista, diretto verso l’aeroporto di Dakar, è inizialmente bloccato nel traffico a causa di un incidente, nel quale ha perso la vita un ragazzo con una maglia di una squadra di calcio, la stessa regalata da Cheikh al figlio. Ma il dramma di questo padre si è fatto già lontano, appena un punto di contatto con chi ha solo fretta di arrivare in aeroporto.
Il paesaggio, celeste o terrestre, risulta sempre dolce, trasmette beatitudine. Alcuni personaggi provano un certo desiderio di restare in alto, immemori dei loro problemi. Un pilota dopo una breve conversazione telefonica «avrebbe voluto essere ancora in cielo»; una scrittrice invece ricorda la propria infanzia nella biblioteca di una cittadina insignificante, e «la gente che diceva che aveva la testa tra le nuvole, e in effetti era vero che le piaceva guardare il cielo – spesso pensava fosse l’unica cosa che valesse la pena di guardare in quel posto». Ma esiste anche una geografia terrestre riflessa nelle trame dei voli: come la crisi siriana, che costringe le compagnie aeree ad aggirare quella regione, quel luogo «talmente segreto che non era possibile nemmeno sorvolarlo e guardarlo da diecimila metri di altezza».
C’è un certo fascino in questa mescolanza di aereo e terrestre, di paesaggi visti dall’alto e vicende vissute dall’interno, di luoghi da cui si esce e in cui si entra, di tranquillità e turbolenza. Questo impasto dà ai personaggi una certa impalpabilità, come se non fossero completamente di carne, ma anche di aria. O perlomeno, attraversano delle parentesi in cui si sganciano dalle loro storie e identità.
Il libro sembra scritto per dei viaggiatori seriali. Chi rimane a terra può solo aspirare a questa levità, a questa evaporazione, a questa provvisoria rinuncia alla gravità e alla pesantezza. Mentre chi passa molte ore in cielo potrà rispecchiarsi in questo libretto smilzo ed elegante, e interrogarsi sullo sconosciuto che gli siede accanto.
David Szalay, Turbolenza, trad. Anna Rusconi, Adelphi, Milano 2019, pp. 127 € 15