Per la rubrica #botta&risposta Davide Castiglione dialoga con Gerardo Iandoli, autore di Arrevuoto (Oedipus, 2019).
Caro Gerardo,
Sono finalmente riuscito a leggere il tuo Arrevuoto. Leggendo ho preso alcuni appunti, che spero di sistemare qui in una forma chiara e strutturata.
Comincio dai titoli delle poesie singole: tutti costituiti da una sola parola, quasi sempre un sostantivo astratto, il che fa anticipare a uno svolgimento concettuale e satirico, finanche didascalico, dei testi. Detto in altri termini, ogni poesia illustrerebbe un problema, o meglio un aspetto culturale del contemporaneo (per es. viralità, consumo, materia, comunicazione…). Come forse immagini non sono mai stato un sostenitore della poesia “a tema”, cioè da quella che nasce e si sviluppa, dichiaratamente, secondo un asse top-down, cioè da un’idea ordinatrice anziché dalle contingenze del mondo. Tuttavia, quando il titolo è antifrastico o l’intento satirico, il senso dell’operazione mi appare maggiormente giustificato. Questo, mi sembra, è il tuo caso.
Prendiamo la poesia in incipit, Viralità: il testo illustra, microscopicamente, la trasmissione del virus, prendendola alla larga: si comincia da un “temperino” (la cui valenza allegorica è già chiara a partire dalla messa in tema, cioè in posizione forte, e dall’articolo determinativo) che «lento truciola il tempo», dopodiché il tempo fatto scheggia di matita «viaggia | lungo le vene». Il resto sembra descrivere l’esito di un processo o esperimento, ma l’alto grado di distacco analitico, cioè l’annullamento di un esperiente sensibile e incarnato, sembra farmi perdere il senso, come se ci fosse qualche intorcinamento, convoluzione o astrazione di troppo: «apnea», «estasi», «la pinza», «la punta», «enigma | della buonanotte», eccetera. Se l’andamento versale, curatissimo, qui sembra magrelliano (del Magrelli di Ora serrata retinae), con endecasillabi sciolti, talvolta ipermetri, discorsivi e ragionanti, il culto dell’obliquità e l’origine concettuale mi tengono a distanza, impedendomi di partecipare ai movimenti del testo.
Questa critica, variamente declinata, posso estenderla alla maggior parte dei testi della raccolta, che suppergiù seguono lo stesso sviluppo dianoetico: una ricerca sì materialista ma anche impersonale (per es. «divampa l’azoto liquido | in un doppelganger ectoplastico | che ha origine dalla bocca spalancata», da Materia, p. 12). I dosaggi tuttavia variano, e non sono pochi i giri di versi per me più incisivi, proprio perché non mossi dalla voglia di dimostrare o di rompere alcunché. Per esempio, in Capricci (p. 11) c’è una terza persona rinchiusa nell’ascensore, che chiama l’allarme per il gusto di farlo («eppure lui non vuole uscire fuori»). Insomma, una situazione inquietante e paradossale, non senza mordente satirico anche per via di incongrui innalzamenti di registro («tesa alla salvazione dello sventurato»). Quando cioè l’allegoria si incarna in una narrazione fisica, sia pur straniante, al lettore rimane un residuo più denso (è per esempio il caso di Urbano, Festività, Videogioco). Dico “residuo” non a caso, perché spesso – forse come debito verso certo materialismo, forse come volontà di sfigurare il poetese – indulgi in dettagli sgradevoli, spesso secrezioni corporee (“pus”, “sangue”, “contagio”, “rutto”, “vomitare”, “acqua rancida”, “olezzo”, “conato”, “melma invischiata” e così via, in questo mio incompletissimo spoglio). Il risultato non è tuttavia quello di un certo maledettismo fuori tempo massimo, perché a prevalere è quasi sempre l’impianto grottesco-allegorico, con parabole e trasformazioni stranianti.
Quest’ultimo è infatti un altro meccanismo testuale piuttosto frequente: la metamorfosi sinistra, morbosa, come se Ovidio fosse passato per certe atmosfere alla Lynch: esemplare in tal senso è Rito (pp. 18-19), dove «una coscia recisa e grondante sangue» si trasforma in una «gamba di cera, simulacro | della prima carne» e poi anche questa diventa, o meglio si svela essere, «un arto in argento». L’argento stesso, infine, «si frantuma in pezzi da un euro», e quindi nell’arco del testo l’offerta passa dalla passione carnale di Cristo a una monetina per le offerte votive. Leggo, in questa parabola satirica e a suo modo tragica nel proprio bathos conclusivo, una progressiva esternalizzazione/uso di protesi che finisce per tradire il senso del sacrificio, la componente carnale, viscerale delle religioni. Qui come altrove, sembra che agiscano letture filosofiche, sociologiche e antropologiche in sottotraccia, ma che queste vengano per così dire nascoste e stravolte dal ricorso al grottesco mischiato a un cerebralismo che, nei molti passaggi per me troppo astratti o scorporati, sacrifica la felicità di alcune riuscite.
Infatti, scorrendo le mie note a matita sul libro, trovo molti giri di versi particolarmente riusciti e pregnanti, mischiati però spesso ad altri giri versali che li appesantiscono come in un magma dissonante, ma di una dissonanza che rifiuta la sintesi senza riuscire a trattenere la propria forza espressionista. Detto più semplicemente, è come se spesso tu complicassi oltremodo la materia, facendola disperdere (un rischio che corrono tutti coloro, me compreso, che investono la poesia di un’attitudine anche ragionante e critica). Tra i passaggi che ho segnato come particolarmente felici ci sono: la chiusa di Materia, forse per la grinta e le suggestioni dell’ambiente tratteggiato: «un jukebox ormai scordato | in una cantina in cui il disco incantato | s’annichilisce in una nenia grunge», p. 12; Era (p. 14), poesia a mio parere interamente bella perché fa a meno di espressionismi e termini scientifici, punta alla limpidezza di un sentimento che pare il proprio ma si fa comune pur nell’apparente impersonalità del dettato:
C’è una generazione che ha messo la sveglia
non per alzarsi, ma per riaccordarsi con il colore
dell’abito che le è stato prestato
per un posto d’immedesimazione:
si è soli con la propria eco a cantare
assoli di canzoni già sentite altrove
tra i rovi che recintano un passo bucolico.
Poesia generazionale, questa, che tratteggia la sconfitta, la solitudine, la mancanza di agentività dei nati tra anni ’80 e ’90, e che contiene una bellissima gnome a metà testo («La poesia è quel che resta | quando si è stanchi di lavorare»). Stile nitido e tema metapoetico potrebbero far tracciare paralleli tra questa poesia e alcune delle poesie metapoetiche dell’ultimo libro di Pasquandrea, su cui ho scritto qui. Altra gnome notevole è a p. 26, da Accelerazione («Allora si è in posa per la propria verità | di fronte a una telecamera opaca»), ed egualmente soddisfacente l’inizio narrativo ed ellittico, preciso nel rifiutarsi alle dicotonomie e abbracciare la sfumatura, di Festività («Non sospirava, ma neanche taceva | alla vista dei lampioni ormai accesi»). Belle anche certe citazioni parodiche («la bolletta si sconta vivendo», Cantierismo, p. 32) o certe scene esterne dal sentore quasi fortiniano («Ecco: c’è una campagna dai colori ocra | in cui il silenzio porta ordine e forza», da Linguistico, p. 34).
Le poesie della seconda sezione, Angustie prospettiche, coi loro versi lunghissimi e l’impaginazione pertanto orizzontale, sembrano aver còlto quel potenziale di cui dicevo, e infatti ci sono testi interamente riusciti su cui, avendone il modo e il tempo, varrebbe la pena indugiare (per esempio Biologico, p. 51: «C’è una campagna e c’è la notte oscura che sfrigola tra gli steli d’erba alti | al ginocchio, come un dispetto insano teso al taglio per via di una caduta»). Procedendo verso la fine del libro si ha insomma sempre più la positiva impressione che la funzione critica affidata alla poesia venga progressivamente interiorizzata, lo stile amalgamato, la concretezza delle situazioni e l’abitabilità del dettato aumentino, e che perfino l’esposizione privata e sentimentale di sé venga finalmente accettata o comunque non censurata a priori, se è vero che l’ultimo testo, Lettera (p. 55), contiene addirittura un vocativo femminile tipograficamente separato dal resto, e messo pertanto in rilievo (“Letizia”), nonché la ricerca «di un calore che scocchi | un cortocircuito sulle labbra di lei». Questi passaggi mi convincono di trovarmi di fronte una ricerca poetica di valore benché ancora in nuce, ancora troppo oscurata o inceppata da meccanismi di dissonanza volontaristica che non fanno giustizia alle intuizioni, e che rischiano di non fare coagulare a sufficienza il libro nella mente e nel cuore del lettore.
Davide Castiglione, Vilnus, 8/12/19
Caro Davide,
Ti ringrazio infinitamente per la tua attenta lettura. Per risponderti, devo fare esattamente l’opposto di ciò che ho tentato di fare nella mia raccolta: parlare di me, cedere all’autobiografismo. Arrevuoto, sin dal titolo, voleva essere una oggettivazione di un sentire che mi attraversava negli anni in cui l’ho scritta, cioè sul finire dei miei studi universitari bolognesi (2014-2015) e l’inizio di quelli dottorali francesi (2016-2017). In breve, ho cercato di descrivere lo spaesamento provato durante il passaggio dalla vita da studente alla vita lavorativa, negli anni della crisi economica. Di fatto, “arrevuoto”, in napoletano, significa “confusione”, “soqquadro”. A me, però, interessava la presenza della parola “vuoto” al suo interno: ho provato a immaginare una confusione che scaturisse da un senso di vuoto e non da un eccesso di massa.
Il sentimento con il quale mi confrontavo quotidianamente era l’angoscia. Uso tale termine nella sua accezione heideggeriana, l’autore che più mi ha influenzato alla fine dei miei anni universitari: la paura nei confronti di qualcosa di indefinito. I titoli delle due parti che compongono Arrevuoto, Angustia del dire e Angustie prospettiche riecheggiano il termine Angst, “angoscia” in tedesco. Avevo bisogno di “incarnare” tale sentimento, una sorta di paura che sfociasse in un fastidio fisico, in una scomodità esistenziale. Avevo sì un posto nell’esistenza, ma questo posto mi indolenziva, come quando si passa troppo tempo su di una sedia in posizione scorretta. Dal punto di vista stilistico, quindi, avevo bisogno di rinchiudere il mio sentire nella scomodità del verso della tradizione italiana. O, almeno, volevo che si percepisse un anacronismo tra i temi trattati, il linguaggio usato e la metrica che si imponeva.
Tuttavia, non potevo parlare del mio sentire. Non era sufficiente. Dovevo sintonizzarmi col sentire altrui, dall’amico con cui condividevo una chiacchiera al bar allo sconosciuto che leggevo su Facebook. Per questo, mi sono imposto di non parlare attraverso l’io, ma di creare personaggi per esplorare questa angoscia che attraversava me, i miei amici, le persone e quegli anni. Dovevo visualizzarla. I miei personaggi o le mie scenette sono degli “esperimenti”: agenti che nascono e finiscono nella temporalità della poesia, in contesti chiusi e ben definiti. Il linguaggio scientifico e tecnico che, spesso, compare nella mia poesia voleva dare la sensazione di un mondo in vitro, e pur tuttavia composto di pezzi del mondo reale, in cui noi tutti siamo immersi. Un vedersi attraverso uno schermo, così come ci accade sempre più spesso.
Ora che ti scrivo, mi accorgo sempre più che nel mio linguaggio non cercavo niente di salvifico: dovevo intensificare quell’angoscia attraverso lo strumento poetico, il quale è capace di catalizzare le energie emotive. La poesia come macchina per aumentare la pressione emotiva, nel bene e nel male. Uno dei primi poeti con cui provai tale sensazione fu Giuseppe Ungaretti, all’epoca del liceo. Ungaretti pungeva. Ungaretti produceva una versione più possente del concetto di punctum, usato da Roland Barthes per analizzare il mezzo fotografico. La parola poetica, suono concetto e immagine al contempo, si conficca nella nostra visione immaginifica. Fa male? No. Al contrario, ci scuote. Ci sveglia.
Ma io non avevo alle spalle la Prima Guerra Mondiale.
Io non potevo raggiungere l’altezza ironica che esplode facendo scontrare quell’esperienza col concetto di Allegria.
Io avevo soltanto gli studi di un ragazzo cresciuto nella Provincia, che aveva avuto la fortuna di frequentare un centro illuminato come Bologna. La mia esperienza era ridicola al confronto di quelle novecentesche e, quindi, capii che era quello l’unico mio punto di forza. Il ridicolo.
Un evento è ridicolo solo se lo si confronta con una norma, una convenzione, a detta di Henri Bergson. Di solito si fa così e l’evento ridicolo fa colà. E noi ridiamo perché colui che fa colà è convinto che si faccia proprio così. Il mondo delle mie poesie doveva essere un mondo riconoscibile, ma di cui niente si saprebbe più potuto conoscere delle norme e delle convenzioni. Allora, il lettore avrebbe potuto confrontarsi con i testi o partendo dalle sue norme e quindi ridere o cercando di lasciarsi coinvolgere da quel mondo e quindi angosciarsi. Se avessi usato un linguaggio pungente, avrei condizionato il giudizio del lettore. Non gli avrei lasciato la possibilità di confrontarsi col testo, perché egli sarebbe stato attratto da quelle punture. Se alla base del linguaggio poetico c’è la polisemia, io volevo che il lettore avesse più possibilità di giudizio della medesima scena. Come uno scienziato sovrastato dai dati, che non ha alcuna teoria con la quale interpretarli. La confusione del titolo sta proprio in questo: so di fronte a cosa mi trovo, ma non so come interpretarlo.
Inoltre, non credo di essere capace di produrre un linguaggio pungente. La puntura cattura l’attenzione, ti costringe a un percorso di focalizzazione. Le punture sul nostro corpo creano delle mappe. Io, al contrario, avevo bisogno di uno stile fluido che andasse a diluire queste punture. Il tempo che attraversavo non mi pungeva, anzi: mi ignorava. Volevo restituire la sensazione del déjà vu: un dato che rapisce la nostra attenzione, ma che cogliamo solo quando non è più lì. Assomiglia a qualcosa, ma non sappiamo bene cosa. E non sappiamo neanche se effettivamente questo cosa esista o se sia mai esistito. E intanto mentre cerchiamo nella nostra mente il tempo passa e quel dato sembra non importarci più o perdere la forza di quella puntura che ci ha fatto fermare. Avevo bisogno di una poesia con versi in più, che andasse quasi a infastidire il lettore. Come il commento inopportuno che giunge alla fine di una conversazione per certi versi brillante. Dovevo far scadere il poetico, non per abbassarlo (o forse anche per abbassarlo), ma per scrollarlo dal suo piedistallo, farlo rotolare dalla sua cima e gettarlo nel ridicolo. Perché oggi la poesia, al di fuori del campo dei poeti, è il ridicolo per eccellenza.
Una poesia che mi ha fatto capire cosa fosse in realtà la poesia è L’Infinito di Giacomo Leopardi. Un individuo dallo sguardo finito inizia a inspirare l’infinito, si lascia penetrare da tutto ciò che non potrà mai essere e scopre che rinunciando alla visione può travalicare i confini del suo tempo. Ma infinito significa anche non definito. Non è qualcosa di complesso, ma qualcosa che sfugge alla possibilità stessa di essere categorizzato come complesso. L’Infinito di Leopardi è grandioso perché è il non-definito assorbito dall’individuo, da questo elemento definito che desidera vivere la grandezza di quell’infinito che lo farà esplodere. Io volevo tentare l’esatto opposto: un individuo spazzato, come un’antenna sul tetto durante una tempesta, dal non-definito. Un individuo chiuso che non può entrare in contatto con quell’indefinito. Lo può solo osservare attraverso uno schermo, lo può osservare solo se lo incornicia. È il ridicolo di chi vuole definire l’indefinibile, di colui che vuole ottenere qualcosa facendo l’esatto contrario. Per Maurice Blanchot questo è il tragico della poesia: provare a definire l’indefinibile. La scrittura stessa del suo L’espace littéraire è tragica. Pensiamoci: Edipo parla con gli oracoli, Amleto con i fantasmi: l’attore vive il tragico, lo spettatore vede il ridicolo. Forse, la poesia può essere tragica a patto che ciò che le è esterno, il suo autore, sia ridicolo. Proprio come me, che ho cercato di definire l’angoscia, la paura non di questo o quello, ma la paura di non si sa bene cosa.
Rileggendo quanto ti ho appena scritto, la sensazione è quella di aver scomodato grandi autori per parlare di me e di ciò che scrivo. E non sarebbe una sensazione sbagliata: ripeto, sono cresciuto nella provincia italiana e, pertanto, le mie più grandi esperienze sono avvenute nei mondi dell’immaginario e del pensiero. Ho attraversato questi mondi, fino al punto di tentare di crearne uno mio attraverso Arrevuoto. Ma se i miei studi mi facevano osservare la grandezza, quel periodo della mia vita mi ha messo di fronte all’(arre)vuoto. E io ho voluto rappresentarlo con i suoi mezzi, i quali alleviano ogni puntura in favore di un sinistro tepore. E non a caso l’unico calore che hai percepito è stato quando ho smesso di rappresentare il mondo e ho iniziato a nominarlo. Alla fine. Forse, è da questa consapevolezza che dovrei partire per scrivere una seconda raccolta.
Ancora grazie,
Gerardo
Avellino, 5 Gennaio 2020