Uscito per i tipi di Bompiani a gennaio, Città sommersa, prima fatica nell’ambito della narrativa per adulti di Marta Barone, ha già raggiunto una serie di ragguardevoli successi: in testa alla classifica quadrimestrale di qualità dell’Indiscreto e inserito nella lista dei dodici dello Strega, si è imposto come uno degli esordi più in vista dell’ultimo periodo. Vale senza dubbio la pena di concedersi un viaggio tra le pagine di questo romanzo, che suggerisce già qualche coordinata di lettura a un primo sguardo, se si presta attenzione alla copertina – dove l’ombroso ritratto fotografico di un ragazzo si alterna, e quasi si nasconde dietro a un’immagine più luminosa e seppiata dei portici di Torino – e all’enigmatico, affascinante titolo.
Ma andiamo per gradi: Marta, protagonista e narratrice, ha ventisei anni e si è appena trasferita a Milano. Valuta manoscritti per una grande casa editrice e scrive, ma è da tempo preda del più classico blocco dello scrittore. O meglio, l’idea di un romanzo, che ha ben piantata in testa, non ha mai raggiunto una forma concreta. Il padre, Leonardo, è morto da due anni, e a volte Marta sogna, oppure si ritrova a pensare a quell’uomo «disordinato, chiassoso, trasandato nel vestire e povero in canna da sempre» di cui serba un ricordo immobile, granitico ma parziale, dal momento che il padre è sempre stato una persona sfuggente e riservata – che, per riprendere le parole della moglie, aveva deciso di dividere la sua vita in compartimenti stagni, in periodi o fasi non comunicanti.
Lui, e poi la sua morte, facevano parte del campo di fatti evidenti della mia vita, della superficie liscia su cui potevo far scorrere una mano impassibile e non sentire già più increspature di alcun genere.
C’è un’informazione però che non trova il suo posto nel ritratto di genitore fabbricato da Marta. Leonardo era finito in prigione per motivi mai specificati chiaramente alla figlia, a suo dire per essere stato ingiustamente incolpato d’essere un terrorista dopo aver prestato assistenza (in quanto medico) a un militante di Prima Linea. Ma era stato assolto con formula piena, nessuno in famiglia ne parlava, e come dicevano i suoi amici «era stato molto tempo prima, […] e comunque lui era innocente». Pure un’increspatura del passato, un garbuglio, un nodo di questioni irrisolte è sempre rimasto: la questione del carcere, sicuramente di grande importanza, non era mai stata affrontata di petto, né chiarita. Siamo alle prime pagine, e i ricordi di Marta sono impastati su un piano temporale uniforme, che si connette debolmente, e in maniera confusa e superficiale, al suo presente e al passato più recondito di Leonardo.
Allo «smaliziato lettore» cui si rivolge l’autrice, a questo punto della narrazione, non è sfuggito il dettaglio: c’è «un fucile appeso alla parete nel primo atto del dramma». Nel giorno di Santo Stefano, il giorno del compleanno di Leonardo, il suo fantasma viene a bussare alla porta. Marta sta passando la serata insieme alla madre, in piena tranquillità. Parlano di lui, si mettono a curiosare nello scatolone che contiene alcuni suoi vecchi documenti, e per un gioco della sorte trovano quella che, a detta della madre, dovrebbe essere la sentenza di assoluzione del famoso processo. Ma non è così, anzi: si tratta della memoria difensiva dell’avvocato. Il delitto imputato a “L. B.”, a un uomo che Marta non riesce a riconoscere nella distesa uniforme del passato, è di partecipazione a banda armata. Improvvisamente, Marta si rende conto di avere tra le mani un ricordo del padre sbrecciato, e incompleto. Da qui nasce una ricerca, la lenta ricostruzione dell’esistenza di quello che non è più un padre, ma è anzitutto, come recita la fredda memoria giuridica, “L. B.”, o “il Barone”; inizia la ricostruzione della vita nascosta di Leonardo, che alimenta la scrittura di Marta e le permette di avere tra le mani un personaggio nuovo, inaspettato e vitale.
Marta decide insomma di ripercorrere le tappe della vita di L. B. a partire dal trasferimento da Roma a Torino dopo gli studi di medicina, indagando i suoi rapporti con una serie di gruppi e organi politici come Servire il popolo, cui il padre si era legato, e compresa la banda armata Prima Linea – partendo dal dato reale, testimoniato dalla memoria giuridica, e cioè che l’imputato «era per sua ammissione senz’altro noto nell’ambiente eversivo, ma in esso non si era mai inserito».
Qualche giorno dopo mi venne in mente un’altra immagine senza contesto; mio padre, a casa mia, che nel corso di chissà quale conversazione mi diceva con un sorrisetto esitante, guardandomi di sbieco: “un giorno scriverai un libro su tuo padre.”
Io avevo sbuffato.
“Ma per carità di dio.”
Alla fine era riuscito a incastrarmi.
L. B. è un personaggio in divenire, che grazie a una narrazione che intreccia più piani temporali assume diversi volti: è un padre dal passato sconosciuto e dal carattere pacifico ma ambiguo; un ragazzo che cresce in una Torino che gronda sangue, scossa dal clima politico degli anni Settanta. Quando una ricerca di quasi trecento pagine arriva al dunque, all’inevitabile chiusura del racconto della sua vita, assume piena tridimensionalità, slegandosi dalle etichette di “padre” e “giovane uomo militante”, presentandosi con una nuova, indipendente identità. La sua storia è il fulcro attorno al quale la figlia-narratrice opera la ricostruzione di un’epoca, scartabellando tra documenti d’ogni genere e bussando alla porta di più persone, a caccia di nuovi racconti e informazioni. E a partire dallo scavo senza sosta nella memoria e dalla costruzione di un personaggio tanto complesso, inseguito in diverse fasi della sua vita, si arriva alla forza nascosta del romanzo.
C’era senza dubbio in L. B. qualcosa di straordinario, di magato, qualcosa che tutti quelli con cui parlai mi nominarono senza riuscire a definirlo; non aveva a che fare solo con la generosità, o con il carisma, o con la sua esuberanza: era come un fuoco violetto, una luce misteriosa, unica e sua, che quando sfiorava le persone le conquistava immediatamente.
Il libro è diviso in tre parti: La prima Kitez, Lacuna, Conchiglia. A un certo punto, nella prima parte si parla della leggenda di Kitez, favolosa città situata a nord del Volga che, attaccata dai Tatari, s’inabissò nelle acque del lago Svetlojar, scomparendo per sempre e impedendo agli invasori di violarne le strade. L’accesso alle porte della città lo aveva reso possibile un traditore, un cittadino che aveva indicato un sentiero segreto all’implacabile signore della guerra Batu Khan. Si narra che la città viva ancora, sott’acqua, e che solo ad alcuni, fortunati viandanti sia permesso di «udire il suono sordo delle sue campane». La narratrice deve riuscire a ricostruire la sua prima Kitez incrociando più testimonianze, quella personale dei suoi compagni e amici e quella che filologicamente emerge dalla collazione di documenti, racconti, reperti («Era come se ci fosse una vita sotterranea che scorreva in parallelo a quella visibile»), impantanata tra la storia politica dell’Italia degli anni Settanta e le svolte di un lungo e tentacolare processo. Il suo primo compito, insomma, è quello di far riemergere la città sommersa di Leonardo.
Ciò che Marta non aveva messo in conto e rappresenta invece il tesoro nascosto alla fine del percorso, è che l’esperienza politica di L. B. – di un «medico operaio» che crede ciecamente nelle sue idee, vive, lotta, consuma la sua giovinezza e finisce con la testa tra le mani, a ripetere singhiozzando «Ho sprecato la mia vita» – finisce per diventare uno specchio nascosto. Il ripiegamento nel passato, l’immersione nella pozza salmastra dei ricordi altrui porta verso una direzione inaspettata.
E poi capii. Sotto la prima Kitez scoprivo dunque un’altra Kitez. La mia vita. Cercando di ricostruire mio padre ero stata obbligata a volgermi all’indietro, a ricordare cose che credevo già di ricordare, a tentare di ricordare cose cancellate; ero stata costretta a esaminare il mio passato che mi sembrava dato tutt’intero, evidente. La storia di mio padre, dunque, come una grande conchiglia madreperlata, sotto la valva conteneva la mia: la mia, che già credevo di possedere e in cui invece trovavo una nuova linea, una nuova verità. La mia vita vera, qualsiasi cosa avessi deciso di farne.
La ricostruzione della giovinezza di L. B. nella Torino degli anni Settanta trascina il lettore nel tempo personale, familiare dell’autrice e simultaneamente nel tempo condiviso, pubblico della storia italiana. Il risultato, chiusa la curva narrativa e riemersa la “vera” identità di L. B., è l’esperienza di un «momento di percezione lucidissima del corpo presente». Ciò che movimenta Città sommersa e permette il passaggio dalla monotonia del memoir commosso alla polifonia del romanzo è il cambiamento dello sguardo della figlia-narratrice; la formazione, si potrebbe dire, elegantemente passata sottotraccia, e il fine lavoro sulla componente temporale. Il passato non può essere una distesa uniforme: volgere lo sguardo al passato significa sprofondarvi, cercare di ritrovare la complessità di un momento perduto, e osservare le differenze rispetto al presente. L.B. è uno straordinario dispositivo che coinvolge, nel ricordo personale di Marta, il lettore. Attraverso un percorso allo stesso tempo progressivo e circolare, Barone costruisce attorno alla vita del padre una cattedrale di memorie personali e collettive, e una linea narrativa sottile, che prende linfa direttamente dalla sua ricerca.
Quando ero ragazzina avevo provato diverse volte a tenere un diario, ma li abbandonavo per noia dopo pochi giorni: non c’era niente da dire. Avevo sempre preferito inventare.
C’è un tempo di L. B. che Marta, la protagonista, non potrà mai ritrovare, a cui non potrà mai avere accesso. È il tempo della sua irriducibile unicità, delle sciocchezze e delle cose importanti, dello spazio personale («non saprò mai niente. Non saprò mai quando scoprì i libri, […] se sognava di vedere l’America o la giungla, chi fu il suo primo amore, se ebbe un insegnante speciale […]»). Parlare con Agata, la ex moglie, con la madre, con l’ultima donna con cui abbia convissuto il padre, e ancora con i compagni di partito, con le persone che lo hanno conosciuto, non basta, non può permettere di recuperare un’esperienza ormai impossibile. Per quanto riesca a evocare il volto di Leonardo e a tracciare fedelmente il corso della sua vita, Città sommersa è soprattutto uno strumento che permette all’autrice di guardare dentro sé e costruire qualcosa di nuovo; ridefinire la realtà, in qualche maniera manipolare il ricordo e inventare, creare qualcosa che tutti possano vedere là dove altrimenti rimarrebbe soltanto uno spazio buio, personale e desolato.
Marta Barone, Città sommersa, Milano, Bompiani, 2020, 296 pp., 18 €.