Nel campo letterario italiano, ogni nuovo romanzo di Walter Siti rappresenta un avvenimento significativo, data l’importanza che questo autore ricopre nella produzione letteraria dei nostri tempi. Alcuni giorni fa è uscito per Rizzoli La natura è innocente, che aggiunge un nuovo tassello al coerente mosaico rappresentato dall’ormai ventennale produzione romanzesca dell’autore modenese. Dopo aver sperimentato diverse forme narrative – prima tra tutte l’autofiction, che lo ha consacrato e da cui ha tentato di allontanarsi con i suoi ultimi romanzi – Siti si confronta per la prima volta con uno dei generi più praticati in questi ultimi anni: la biofiction, ossia la narrazione della vita di un personaggio reale diverso dall’autore ibridata, sia sul piano del contenuto che della forma, a elementi finzionali.

Nel romanzo di Siti le vite raccontate sono due e procedono a capitoli alternati: quella del catanese Filippo Addamo, condannato dopo l’omicidio della madre, colpevole di tradimento e di abbandono del tetto coniugale, e quella di Ruggero Freddi, ex pornoattore romano con laurea e dottorato di ricerca, professore universitario a contratto e sposo prima dell’anziano principe Giovanni del Drago, poi del collega pornoattore Gustavo Leguizamon.

Probabilmente a causa della cattiva congiuntura – non solo editoriale – in cui il libro è uscito, molto scarsa è stata la risonanza che la critica e la stampa gli hanno dato. Per questo abbiamo pensato di dedicare al romanzo una sorta di tavola rotonda virtuale. Una riflessione in più puntate in cui di volta in volta ciascun critico darà un proprio punto di vista; uno sguardo plurale e critico su un libro che, apparentemente, parla di cose che ora non ci riguardano, ma forse va più a fondo dei discorsi confusi, retorici e terrorizzanti che in questo momento occupano gran parte del nostro orizzonte.

Dopo gli interventi di Silvia Cucchi e Valentina Sturli, quello di Lucia Faienza.

 

A distanza di due anni dal suo ultimo romanzo torna Walter Siti con La natura è innocente, narrazione complessa dal punto di vista della forma e, in continuità con lo stile degli altri romanzi, dal contenuto denso. Iniziamo dalla forma. Dopo le prove di Bruciare tutto e Bontà, in cui l’autore rinuncia all’ingresso in prima persona nella storia, ritroviamo Siti nei panni del biografo che raccoglie le confessioni di vite frantumate, violente, irrecuperabili, che nessuno probabilmente vorrebbe vivere. I protagonisti gli affidano le loro biografie che vengono restituite dalla scrittura, con ritmo, bilanciamento delle dinamiche, intelligenza compositiva: niente è più innocente della focalizzazione esterna del testimone che raccoglie i brandelli di una storia e li ricuce nella forma letteraria. Il modello formale che organizza la materia narrativa sembra essere quello della tragedia: dopo un breve prologo, le due storie si sviluppano in successione episodica, alternandosi come due tronconi narrativi indipendenti e intervallati dal commento dell’autore. Seppur due storie distinte, la vicenda del matricida e quella dell’“arrampicatore sessuale” trovano un punto di convergenza, un punto cieco non colmabile né con l’espiazione del tempo né con la narrazione: il vuoto causato dall’assenza della Madre, che mai come in queste pagine ritroviamo in tutta la sua dolorosa ambiguità. È una connotazione espressa esemplarmente nella persona di Valeria Golino, figura dagli occhi “di terra” e madre negata, posta all’inizio del racconto. Nell’incipit del romanzo è quindi raffigurata anche la sua genesi simbolica, ed è in questo passaggio che avviene lo slittamento dalla cronaca al mito: il personaggio reale, che vive nella storia del tempo televisivo, si sovrappone a quello eterno della cattiva madre. L’autore riporta questo scarto anche nella temporalità delle due storie raccontate. Le vite dei due protagonisti prendono forma a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 e l’acmè tragico si svolge all’inizio degli anni Duemila; alla chiusura di questa epoca segue la coda del tempo presente che, a differenza del passato, appare come un ininterrotto vuoto di significato dove non solo il lutto non è riparato[1], ma non ha neanche necessità di esserlo.

Un solo tema, due variazioni. La vicenda di Filippo è quella della perdita, della rottura dell’unità fusionale tra sé e la madre ma, a differenza di quanto descritto nei manuali di psicologia, qui è la madre che entra nel mondo, che diventa altro rispetto al figlio. L’eco che arriva in queste pagine è quello della letteratura, in particolare di Aracoeli con il quale condivide più motivi, tra cui l’inconsolabilità del figlio e il sottotesto incestuoso del suo amore. Con una differenza sostanziale però: il mondo del protagonista di Aracoeli finisce con quello della madre, la vita di Filippo è condannata ad andare avanti. Il richiamo mitico e letterario fa da sfondo anche alla storia di Ruggero e anche qui si consuma una rottura che trova le sue crepe, seppur più nascoste, nel mondo della madre. Il cinismo predatorio del pornoattore entra nello schema mitico quando incontra il desiderio di un anziano nobile che ne farà l’astro luminoso e lontano della sua vecchiaia. Tra le allusioni mitiche e letterarie che rientrano nel modello omosessuale vecchio-giovane, c’è quello dell’amore tra l’imperatore Adriano e Antinoo, che la storia ricalca in diversi punti: anche Ruggero-Antinoo è destinato a rimanere al di qua del riscatto nobiliare, anche il principe Drago-Adriano sperimenta il dolore di un inaccessibile possesso.

Nel mondo alla fine del tragico dove il chiacchiericcio svagato da talk show ha sostituito la narrazione plurale del romanzo, i personaggi sono quello che diventano; il vuoto che non può essere colmato da un’altra metafisica viene riempito dalla costruzione della vita sociale. Il passato però non può essere completamente cancellato, al massimo rimosso, e infatti riemerge come lapsus nelle vite di Filippo e Ruggero: lapsus che ne disconfessa il cambiamento, dando così ragione di quella natura non addomesticabile, né dalla cultura né dalla nuova identità sociale. Siti ne riporta almeno due esempi: nel primo, Filippo, accompagnato dalla nuova moglie, ammette en passant di provare eccitazione per le donne incinte; nel secondo Ruggero confessa prima di non saper prendersi cura degli altri (rinnegando il principio femminile dell’accudimento), poi di non sapere quale sia la causa della morte della madre (ultimo tentativo di cancellazione della sua figura). Entrambe queste confessioni involontarie rivelano la fissazione del trauma a uno stadio del materno che è, e sarà sempre, una ferita immedicabile.

C’è però un ulteriore livello della tragedia che fa da cornice alle storie, ed è quello che potremmo individuare nel registro metaletterario. L’autore sembra riflettere e rivolgere al lettore una riflessione: che ruolo può avere la letteratura nel tempo del dopo, quello che ha sacrificato la natura sull’altare della (finta) civiltà? Se inizialmente Siti prova a convincerci della sua marginalità, mettendosi al lato della narrazione, nell’epilogo ci rivela che le biografie reali dei suoi personaggi vanno a riempire le righe di quell’“autobiografia simbolica” e privata che nutre l’autobiografia reale (e che, aggiungeremo, rimpolpa gli strati dell’universo autofinzionale del suo autore). Fuori dal recinto biografico Filippo e Ruggero si mostrano per quello che sono, rispettivamente soggetto (desiderante) e oggetto (del desiderio) in cui si proietta la realtà psichica dell’autore. Non è difficile vedere attraverso Filippo, il soggetto, la stessa maschera protagonista dietro cui si nasconde Siti – da La magnifica merce ad Autopsia dell’ossessione – così come ai lineamenti di Ruggero si sovrappongono quelli di Marcello in Troppi paradisi o di Tommaso in Resistere non serve a niente. Ed ecco svelato il trucco: attraverso due vite che non sono la sua, Siti torna a parlarci di sé, questa volta non attraverso l’autofiction ma scegliendo di oggettivare il tema del desiderio fuori dalla propria narrazione. E ha buona ragione di farlo: perché se la natura è innocente, la letteratura non lo è affatto.

[1] È emblematico il caso di Filippo che a distanza di anni dall’omicidio ha chiuso i conti con la legge e può ricostruire la sua vita. L’autore, lontano dall’esprimere un giudizio morale, si pone una domanda di tipo più esistenziale che etico, per sottolineare la distanza tra il mondo in cui è avvenuto il matricidio e quello attuale: «Dove sono le Furie, è bastata la legge Gozzini a trasformarle in Eumenidi? […] quel che mi inquieta […] è il sospetto che oramai si viva tutti, Filippo compreso, in una “civiltà del sorpasso” in cui gli eventi tragici sono macinati in una spirale di comunicazione, ablazione e velocità…»


la natura è innocente

 

Walter Siti, La natura è innocente. Due storie quasi vere, Rizzoli, Milano 2020, 352 pp. 20,00€