Pubblichiamo oggi la seconda parte di un lungo articolo di Tobia Poltronieri: qua si trova la prima parte.
Qua invece si può scaricare l’articolo in PDF.


(in copertina: Édouard Glissant: Sainte-Marie, 21 settembre 1928 – Parigi, 3 febbraio 2011)


 

Wolfgang126 

Dopo tutti questi aneddoti e riflessioni personali forse qualche realtà musicale italiana potrà facilmente riconoscersi in alcune situazioni, come anche, giustamente, non vederci nulla di particolare, o essere assolutamente contraria a questo punto di vista.

Ciò che ho scritto non vuole presentare risposte, in quanto io stesso sono il primo ad ammettere che questa tematica è molto soggettiva e ricca di infinite sfumature legate all’espressione creativa, ma senz’altro vuole essere l’occasione per condividere delle domande che, se mi fossero state poste quando quindici anni fa cominciai a suonare addentrandomi nel mondo della canzone, mi avrebbero spinto a confrontarmi allora con problemi che mi sono portato appresso inconsciamente fino a pochissimo tempo fa.

Sempre rimanendo nell’ambito musicale della canzone, credo che il concetto stesso di ciò che ancora oggi comunemente definiamo “internazionale” debba essere rivisto. Per anni, senza accorgermene, quando pensavo a una scena musicale “internazionale”, il mio pensiero si rivolgeva esclusivamente alla scena anglofona, senza considerare minimamente l’esistenza di tante altre nazioni con altrettante lingue. Per curiosità ho cercato la classifica delle lingue più parlate al mondo[1], e l’inglese si trova al secondo posto (con 500 milioni di persone), poco prima dello spagnolo (al terzo posto con 450 milioni), ma decisamente dopo il mandarino (840 milioni). Ma, come ho spiegato prima, ha veramente senso affidarsi a un aspetto così pratico (cantare nella lingua maggiormente parlata nel mondo occidentale anche se ne abbiamo una conoscenza più limitata della nostra lingua madre) come porta per comunicare a più persone possibili?

Però proprio per provare ad assecondare questo punto di vista ho ricercato i progetti italiani musicali che dalla nascita del genere rock and roll (secondo i giornalisti approssimativamente attorno al 1950 negli U.S.A.) hanno ottenuto successo (riscontrabile in un vasto riconoscimento di pubblico e vendite reiterato per un medio-lungo periodo, insomma non un singolo di successo e basta) nel mondo cantando unicamente in una lingua non italiana, escludendo quindi i progetti tradotti dall’italiano solo per l’esportazione (tra i più eclatanti nel mondo del pop da classifica Laura Pausini o Eros Ramazzotti che cantano in spagnolo per il mercato sud americano per intenderci, o band che hanno cantato in altre lingue solo per un breve periodo, come PFM o Raf).

Il caso più degno di nota, insuperato da anni, credo rimanga quello dei Lacuna Coil, un gruppo milanese che da sempre si rivolge al mondo metal anglo-americano assecondando stile e lingua (naturalmente inglese) di quel genere, e sembra in tutto e per tutto una band di provenienza anglo-americana. Lo possiamo ritenere di ampio successo in quanto la sua fama è riuscita talvolta ad uscire dal circuito della nicchia (per quanto vastissima) del mondo Metal, potendolo definire quasi “mainstream” (termine che si utilizza per indicare un artista che raggiunge un pubblico trasversale, diciamo generico, e che riesce quindi ad andare oltre al genere di nicchia). Li conosco pure io, che di metal non so praticamente nulla!

Ma al di fuori dei Lacuna Coil non ho trovato nessun altro esempio utile per giustificare sotto questo punto di vista la scelta della lingua inglese da parte di un artista italiano. Senz’altro sono presenti stimabilissimi progetti che hanno raggiunto un ottimo seguito di pubblico (con conseguente attività concertistica e carriera professionale) in una nicchia di genere specifica, e che quindi rispettano dei principi e delle dinamiche interne alla nicchia del caso, ma non incontrano un pubblico eterogeneo. Posso citare l’esempio contemporaneo della band romana dei Giuda che, suonando in tutto e per tutto come le band inglesi e americane tra il garage e il punk anni settanta, sono riusciti a farsi largo in quel circuito. Casi analoghi nelle varie nicchie di genere ce ne sono stati sempre nella storia della musica italiana che si confronta con l’estero (vedi per esempio la scena garage punk o hard core punk), ma per l’appunto oltre ai Lacuna Coil non ho trovato esempi che sono riusciti ad andare oltre a quello che sono riusciti a fare i Giuda o band analoghe per percorso artistico e commerciale.

Inoltre evidenzio che questi due esempi che ho utilizzato sembrano sotto ogni punto di vista band anglo-americane. La loro provenienza e la loro origine, in questi casi italiana, ad un primo ascolto o ad una prima occhiata (alla loro immagine, i loro video musicali, etc) non traspare in nulla. Dipenderà naturalmente dal proprio punto di vista valutare questo fatto come positivo, negativo o ininfluente.

Quando anni fa iniziai a sviluppare queste riflessioni, espressi alcuni miei dubbi al mio manager dopo che egli mi passò un disco di un artista italiano che cantava in inglese. Gianluca (fondatore dell’etichetta discografica Trovarobato, della band Mariposa e manager di Iosonouncane) obiettò esprimendo un punto di vista interessante. Per lui la lingua utilizzata nella forma canzone dipende dal genere musicale: ogni genere ha la sua lingua prediletta, legata alla storia del genere stesso, al contesto in cui si è sviluppato e quindi anche al suono più affine (in termini di musicalità della lingua). Ecco quindi che se per il melodramma nel XVIII secolo si affermò la lingua italiana in tutta Europa (uno degli esempi più celebri è senz’altro il Don Giovanni dell’austriaco Wolfgang Amadeus Mozart, 1787, il cui libretto è stato scritto dall’italiano Lorenzo Da Ponte) di conseguenza per il rock and roll (e tutti i suoi derivati) la lingua prediletta dovrebbe essere l’inglese, vista la nascita di questo genere negli U.S.A. attorno agli anni cinquanta.

Personalmente credo che questa visione legata strettamente ai generi di appartenenza, ai suoi confini e le sue regole, per quanto razionalmente comprensibile, rischi di portare l’artista e la sua espressione verso stereotipi e percorsi già battuti, tarpando le ali all’uccello imprevedibile della creatività, che di certo non ha bisogno di essere ingabbiato. Limitare insomma la musica del genere in questione a una specie protetta da non contaminare per preservare le caratteristiche originarie: forse solo così mi potrei spiegare il senso dei gruppi country (ossia la canzone tradizionale statunitense per eccellenza) suonata da musicisti non statunitensi, per esempio italiani, che però tentano di suonarla e cantarla il più fedelmente possibile, a partire dalla lingua utilizzata e dall’immaginario di riferimento. Ma anche questa è una differenza di punti di vista sostanziale: c’è chi preferisce rimanere in un luogo sicuro e confortevole, di cui conosce già regole, pregi e difetti, sa come muoversi, cosa aspettarsi e per ciò lo ritiene un motivo valido per non uscire da quegli schemi. Oppure al contrario c’è chi ricerca la novità, lo stupore, in primis per se stesso, e ritiene impensabile accettare regole e imposizioni di qualunque sistema che ritiene limitante.

Il punto di vista di Gianluca, che credo sia decisamente diffuso in ambito musicale, confermerebbe dunque il motivo del successo dei due progetti che ho preso in esempio prima (Lacuna Coil e Giuda), proprio perché queste band soddisfano letteralmente le caratteristiche richieste dal genere specifico di cui fanno parte e quindi del mercato annesso (nel caso dei Lacuna Coil un mercato che parte dall’ambiente metal per arrivare a quello del rock occidentale più mainstream, mentre nel caso dei Giuda rimane nella nicchia del garage rock anglo-americano).

Credo anche però che confermi la rigidità di questo sistema, del sistema di quella che potremmo definire scena alternativa anglo-americana che a mio avviso impropriamente definiamo “internazionale”, mentre riterrei più appropriato chiamarla “predominante”: se un artista italiano non suona e canta esattamente come un artista anglo-americano è, fino a prova contraria, veramente difficile che abbia un qualche risultato degno di nota nella scena alternativa. A me questo fatto sembra ormai abbastanza chiaro e comprensibile (e ho spiegato prima perché non l’ho sempre pensata così), ma la continua ed incessante produzione di musica italiana in lingua inglese, soprattutto in ambito indipendente ossia piccole autoproduzioni che spesso, se non sempre, suonano esclusivamente sul suolo italiano (quindi rivolgendosi ad un pubblico che non parla la lingua inglese correntemente) mi stupisce.

Mi chiedo: tra qualunque gruppo “indie-rock” che canta in inglese senza essere di madre lingua inglese e un gruppo “country”, sempre non statunitense ma che canta in inglese, vi è differenza, al di fuori del genere musicale suonato? E viceversa quanti gruppi musicali non italiani conoscete che suonano liscio cantando proprio in italiano i grandi classici come “Romagna mia”? Vi è differenza tra i due esempi? Pochi anni fa sono venuto a conoscenza di un duo tedesco appassionato dell’electro pop italiano anni ‘80 che si ispira, o meglio emula ed omaggia al 100% i suoni, l’estetica (nelle foto e nei video), le tematiche e l’immaginario (Roma, il festival di San Remo…) affrontate nei testi, ovviamente scritti e cantati in italiano, con modi di dire non sempre grammaticalmente o logicamente corretti e una pronuncia palesemente tedesca che crea un effetto straniante quanto curioso.

Bravissimi, simpaticissimi, godibilissimi (per la cronaca si chiamano “Itaca”, li ho conosciuti perché ho ospitato un loro concerto nel mio salotto, organizzato da un’associazione culturale di amici). Risultato: trasmettono esattamente quello che sono, ossia un omaggio sincero a una cultura di cui non sono originari ma che amano moltissimo. Il che è bellissimo, e leggendo la loro storia personale (che allegano ai loro contenuti on-line come presentazione del progetto) si capirà ancora meglio quanto sia tutto credibile. Ma credo che, come per me, per qualunque ascoltatore italiano sentire un “omaggio” di questo tipo alla nostra cultura, a partire dal cantato “sbagliato”, trasmetta una sensazione straniante, non per forza negativa o positiva, ma senz’altro nuova, poiché non siamo abituati ad essere “omaggiati” così didascalicamente da artisti esteri per una nostra espressione artistica-culturale, come per esempio i Matia Bazar.

Possiamo quindi prendere questo esempio degli Itaca (artisti tedeschi che emulano lo stile musicale, le tematiche e la lingua dell’electro pop italiano anni ’80) e porlo per analogia allo stesso livello degli artisti italiani che utilizzano il linguaggio delle band “indie rock” (sia musicale, che tematico, che linguistico, ossia proprio nei testi), compreso l’effetto che può provocare a una persona di provenienza statunitense di vedere che esistono band con nomi in inglese, che cantano in inglese con pronunce talvolta corrette talvolta meno, con testi e costrutti grammaticali molto semplici se non addirittura grammaticalmente scorretti, che utilizzano effettivi modi di dire della grammatica e della lingua inglese, se non addirittura citano tematiche e riferimenti culturali appartenenti alla loro cultura specifica (quella anglo-americana)?

Senz’altro per esperienza personale, avendolo chiesto direttamente ad amici musicisti anglo-americani o al pubblico al di fuori dell’Italia, posso dire che la musica del mio gruppo quando cantavamo in inglese e suonavamo all’estero veniva fruita senza tanti problemi, come la maggior parte delle altre band che cantano in inglese in giro per Europa e U.S.A., anche se tutti notavano che eravamo di provenienza non anglo-americana. Talvolta presi più o meno seriamente come anche presi con divertimento, ma sempre compresi. Il che non mi stupisce: sono cinquant’anni che la canzone occidentale vede un predominio di questo linguaggio nel rock, e credo che gli stessi anglo-americani diano per scontato che si canti nella loro lingua. Ben di più di quanto noi italiani ci aspettiamo che dei tedeschi cantino electro pop in italiano!

Ci tengo a precisare però che questa mia riflessione non è da interpretare come un’accettazione del momento storico che la canzone italiana sta attraversando, ossia che semplicemente o canti in italiano, oppure in Italia non ti ascolta nessuno.

Non voglio accettare che l’unica maniera per un artista pop italiano di farsi ascoltare all’estero sia di comportarsi come la Pausini o Ramazzotti che producono canzoni per l’esportazione ritraducendole in spagnolo come se fossero il riadattamento della ricetta della Coca Cola in base al paese di vendita, oppure come Toto Cutugno che con uno dei pezzi italiani più famoso del mondo (“L’italiano”: provate a chiedere a ogni persona che proviene dall’Est Europa se la conosce e ne rimarrete sorpresi) ha costruito un’intera carriera (a dir poco legata all’immagine che il mondo ha degli italiani).

Non intendo accettare neanche che un artista per suonare nel mondo alternativo anglo-americano (il mondo del South By Southwest di Austin, Texas, per capirci, sempre e solo in occidente comunque) debba abbracciare lo stile e il linguaggio in tutto e per tutto identico alla scena dove intende accostarsi, in poche parole emulando lingua ed estetica del mercato musicale anglo-americano (i pochi casi che non l’hanno fatto, partecipando al festival con progetti in lingua italiana non hanno poi costruito un percorso all’estero). Visto così sembrerebbe uno scenario chiuso, da cui è impossibile uscire. E sempre secondo i punti di vista lo si può valutare positivamente, negativamente o semplicemente accettarlo passivamente.

Io personalmente non intendo farmi sovrastare da questo contesto, e anzi lo colgo come un interessante stimolo e un’occasione per capire come evolversi, come andare avanti ricercando nuovi mondi e stimoli creativi.

Il fatto che in questo momento in Italia vada per la maggiore la canzone italiana di stampo classico, che si voglia chiamarlo (per l’ennesima volta) Nuovo cantautorato, It-Pop (non so chi l’abbia coniato ma è la definizione più recente), Indie-italiano (termine che chi ha più di trent’anni sa bene quanto sia inappropriato poiché risale al concetto di indipendenza delle band “alternative” anglo-americane degli anni ottanta e novanta, figlie del concetto Do It Yourself del movimento punk, autoproduzione dunque in alternativa alle grandi produzioni delle Etichette Discografiche Multinazionali, cosiddette Major e simbolo del capitalismo in musica) non significa di certo che quindi sia l’unica strada da seguire tutti quanti, anzi! Per quanto il capitalismo e le leggi del mercato per loro stessa natura tendano sempre a uniformare tutti i prodotti seguendo ciò che va per la maggiore, non ci vuole molto a capire che se tutto il mercato seguisse la moda forse premierebbe di più sforzarsi per creare qualcosa di nuovo, che rompa gli schemi e se mai crei una tendenza, piuttosto che mettersi in fila con gli altri a seguirla.

Ma si sa bene anche che impegnarsi a inventare qualcosa di unico, che riesca a stimolare emozioni nuove e venga visto come una novità di valore dal mercato necessita molte energie, rischi e fatiche senza avere nessuna certezza, mentre fabbricare con lo stampino artisti/prodotti simili al primo che ha veramente fatto successo è molto più semplice veloce, e per quanto tecnicamente significhi raccogliere le briciole del panino di qualcun altro è pur sempre qualcosa, a quanto pare.

In questo momento storico ritengo degno di nota per molteplici aspetti un movimento, o fenomeno, che si è sviluppato negli ultimi sette anni nella nostra nazione, la trap italiana. Senza entrare nel merito del genere specifico, dei contenuti e del valore artistico (oltre a non avere nessuna qualifica per poterlo eventualmente giudicare lo conosco troppo superficialmente per poterne fare un discorso approfondito), non posso però non notare che il successo e l’impatto che questo genere in Italia ha avuto nella cultura generale è impressionante, forse senza precedenti.

Partendo da un’emulazione del movimento originario statunitense (che ha iniziato a svilupparsi a fine anni ‘90 nel sud degli U.S.A.) ma cantando assolutamente in italiano, questo movimento periferico, quanto meno come provenienza geografica, e veramente “dal basso”, essendo i primi brani spesso prodotti in cameretta con mezzi semplicissimi, ha iniziato a crescere principalmente su Youtube con numeri di visualizzazioni che dopo pochi anni hanno superato i milioni per ogni singolo video, scavalcando i meccanismi classici del mercato (produzione musicale ad alto budget in studio di registrazione professionale, promozione sui canali d’informazione principali, videoclip canonico, album pubblicato nei soliti formati fisici e digitali, il tutto finanziato dalle etichette discografiche standard), raggiungendo risultati che solitamente erano impensabili senza budget altissimi e appoggi di strutture professionali.

Insomma il Do It Yourself praticato da una generazione di artisti che potenzialmente non sa neanche cosa sia, per un pubblico ancora più giovane che ora darà per scontato che un trapper per prima cosa debba fare un bel video su Youtube, sfondare e poi eventualmente pensare a scegliere cosa fare della sua carriera. Tutto ciò cantando rigorosamente in italiano, creandosi un linguaggio e uno slang personalissimo, assolutamente estraneo a chi non è coetaneo o seguace della scena, fregandosene altamente di tutti i ragionamenti che io feci dieci anni fa sul mondo musicale italiano, e ottenendo numeri che avranno fatto impallidire le major, le quali ovviamente non hanno perso un secondo e sono corse a fare offerte agli artisti di punta del genere. Se ora infatti scorriamo gli ultimi album pubblicati da questi artisti, anche quelli per così dire di “seconda fascia”, notiamo che sono già stati tutti agguantati dalle solite tre multinazionali (Universal, Sony, Warner).

Ho citato la favola della trap sia perché la ritengo una bella storia, che ci ricorda il potere della creatività (perché è ciò che credo che abbia veramente spinto in origine questi artisti), sia perché mi sembra un ottimo esempio di un genere musicale vitale e di ampio successo accompagnato da dati tangibili e riscontrabili da tutti, in contrasto con l’esempio reazionario dell’itpop, che ricicla forme classiche della canzone pop italiana spruzzandoci sopra fragranze effimere che danno l’illusione della novità, prima di svanire ancora una volta verso una nuova tendenza che ci farà dimenticare di quella di ieri. Ritengo la trap italiana originariamente in netto contrasto anche con gli artisti “mainstream” delle etichette major, facenti parte di un mercato a sé stante, che come ogni mercato capitalista che si rispetti risponde solo ed unicamente ad una logica: quella del profitto.

Ma dunque cosa c’entra la trap italiana con la domanda che sta alle base di questa riflessione? A mio avviso il fatto che questo genere sia l’unica vera novità di successo degli ultimi dieci anni nel mondo della canzone italiana è indice che la questione che sta alla base di questo articolo non ha alcun significato per le nuove generazioni.

Alle nuove generazioni importa ascoltare musica che gli parli direttamente, con un linguaggio e tematiche che entrano nel vivo del loro quotidiano. Senz’altro anche i giovani di oggi ascolteranno musica proveniente dal di fuori dei confini italiani. Ma dubito seriamente che un ventenne di oggi sentendo il bisogno di esprimersi musicalmente scelga una lingua non propria, quando nessuno dei suoi beniamini e dei suoi coetanei lo sta facendo, mentre è circondato da artisti che ovunque si esprimono nella propria lingua di origine con risultati più che soddisfacenti, spesso mischiando lingue e culture differenti.

Anche questo è uno degli aspetti che ritengo più positivi e stimolanti di questo genere, ancora più in profondità di come sia già avvenuto per l’hip hop negli anni novanta: se l’hip hop, anche se nato negli U.S.A., aveva già avuto il merito di svilupparsi in ogni nazione secondo la propria lingua e la propria cultura (praticamente nessuno in Italia, da italiano, si è messo a rappare in inglese), la trap oggi si sta dimostrando un esempio unico di commistione di culture diverse, segnale di una società multiculturale in continuo cambiamento, che sforna un trapper milanese da generazioni tanto quanto uno di origini tunisine, perché sono cresciuti tutti assieme nello stesso quartiere, hanno condiviso lo stesso quotidiano e il loro linguaggio si è influenzato a vicenda.

Mi piacerebbe che si parlasse meno dei leghisti e dei loro portavoce che seminano odio e giocano con la frustrazione delle vecchie generazioni, e si parlasse di più del fatto che i bambini che oggi vanno a scuola in Italia, a differenza dei loro genitori, non vedono nessuna differenza tra i loro compagni di classe, men che meno che possa essere una differenza la provenienza scritta sulla carta d’identità: sono tutti bambini che giocano in cortile assieme, ognuno con le sue meravigliose differenze, accettate da tutti o, se motivo di confronto, senza differenze di superiorità.

Non credo che nessun bambino, senza averlo imparato prima dai propri genitori, si sentirebbe più o meno importante di un altro bambino in base alla propria provenienza geografica. Ecco, per me la trap rappresenta anche questo. Rappresenta come mi piacerebbe che la musica fosse, cosa mi piacerebbe trasmettesse, sia a chi la fa che a chi la ascolta.

La poetica del diverso (conclusione)

Perché sono arrivato alla trap passando dai Jennifer Gentle, i Lacuna Coil e Toto Cutugno? Come molti potrebbero legittimamente obiettare non basterebbe chiudersi un pomeriggio in sala prove con la propria band, un po’ di birre, dell’erba, e vedere cosa viene fuori? Fare semplicemente musica senza pensieri? Invece di scrivere quindici pagine su una questione assolutamente soggettiva? Ovviamente ognuno fa quello che gli pare. Chi pensa che cantare in inglese sia la scelta migliore in assoluto per fare musica e scrivere canzoni, indipendentemente dalla provenienza dell’artista stesso, probabilmente vivrà sereno tanto quanto chi ascolta solo It-Pop in attesa della prossima tendenza.

Semplicemente a me piacerebbe immaginare un futuro, anzi un presente, dove la musica sia un luogo senza confini e generi, dove ognuno possa esprimersi come vuole, trovando ascolto, supporto e comprensione, oltre ovviamente al confronto. Dove le differenze e le particolarità (come anche la sperimentazione) vengano incoraggiate perché riconosciute come elementi fondamentali per lo scambio e la crescita di ognuno.

Un anno fa la mia compagna, dopo che le parlai di queste riflessioni, mi consigliò di leggere un saggio che mi ha cambiato la vita. Il poeta, romanziere, filosofo, teorico della letteratura Èdouard Glissant ha passato la sua esistenza (1928 – 2011), in quanto caraibico (nello specifico dell’isola Martinica), a riflettere sulle conseguenze del colonialismo nella cultura del mondo, partendo naturalmente dalla sua cultura, che è inevitabilmente complessa e sfaccettata, essendo formata dalla commistione di nativi Aruachi, di colonizzatori francesi (in seguito alla scoperta da parte di Cristoforo Colombo) e di africani (inizialmente trasportati sull’isola come schiavi dai francesi), vivendo in una terra in cui si parla creolo e francese. Nel saggio “La poetica del diverso” (Meltemi, 1998, trascrizione di conferenze svoltesi tra il 1994 e il 1995), tra le tante meravigliose questioni che affronta (talvolta complesse, talvolta semplici, sempre illuminanti) ho trovato conforto e ispirazione per le mie riflessioni in un concetto chiave di quelle pagine: la differenza delle lingue come valore portante per il Mondo (che lui chiama “Tutto-mondo”).

Specifico che Glissant parla di letteratura (come espressione artistica), ma io credo che le canzoni, ossia l’oggetto delle mie riflessioni, ne possano essere considerate parte in quanto formate da testi come veicoli di emozioni, concetti e messaggi. Glissant ritiene che, arrivati a questo punto della storia dell’umanità (parla a metà degli anni novanta del secolo scorso, quando sono avvenute queste conferenze), sia giunto il momento di parlare e soprattutto scrivere “in presenza di tutte le lingue del mondo”, solo che questo “multilinguismo non presuppone la coesistenza delle lingue, né la conoscenza di molte lingue, ma la presenza delle lingue del mondo nella pratica della propria; è questo ciò che io chiamo multilinguismo”. Ossia che ormai la consapevolezza delle diversità presenti nel mondo è tale che non è più necessario credere di dover conoscere molte o tutte le lingue, bensì è fondamentale avere coscienza della loro presenza e vivere e dialogare di conseguenza.

Dice ancora: “La difesa della lingua è irrinunciabile perché ci permette di difenderci e di opporci alla standardizzazione che può provenire, per esempio, dall’universalizzazione dell’anglo-americano. Dico che se mai questa standardizzazione si stabilirà nel mondo, non minaccerà soltanto la lingua francese o quella italiana o quella creola, ma in primo luogo quella inglese, perché quella inglese smetterà di essere una lingua con le sue oscurità, le sue debolezze, i suoi trionfi, i suoi slanci, i suoi punti di forza, le sue ritrosie e le sue arretratezze, smetterà di essere la lingua del contadino, la lingua dello scrittore, la lingua del portuale, ecc. Tutto ciò sparirà, la lingua smetterà di essere viva e diventerà una specie di codice internazionale, un esperanto”.

Da queste parole di Glissant colgo un invito allo scambio, quello che lui chiama “cambiare scambiando”, una genuina condivisione dell’essenza originaria di ognuno senza avere la pressione di doversi imporre sugli altri o temere di essere sopraffatto da ciò che è diverso senza sapere ciò che ne deriverà da questo incontro. Proprio quella diversità e quella particolarità che il capitalismo, la globalizzazione, il mercato legato a questi fenomeni (che sia quello discografico come qualsiasi altro) tentano per la loro stessa missione di assottigliare, appiattire e controllare a loro piacimento.

Io credo che nel 2020, in questo decennio appena cominciato e in un millennio ancora più giovane, dopo che negli ultimi anni finalmente la battaglia femminista e LGBT contro il patriarcato (che è quindi un movimento anti-capitalista e dunque ecologista) è diventata un argomento quotidiano riconosciuto come fondamentale per la salvezza del pianeta e non un movimento rivoluzionario tacciato come una delle tante anomalie del sistema, dopo che la consapevolezza della multiculturalità si sta diffondendo almeno nei bambini che ogni giorno frequentano le classi delle scuole di tutto il mondo fregandosene della nazionalità scritta nella carta di identità che ancora non hanno, dopo che con le informazioni che abbiamo a disposizione in ogni momento è diventato sempre più evidente e chiaro come si muove il sistema capitalista, che problemi genera e che impatto ha sulla nostra società contemporanea, ecco, io credo che, con tutte le dovute proporzioni rispetto alle grandi questioni appena citate, da musicista e scrittore di canzoni, sia arrivato anche il momento di chiedersi perché un artista non possa sentirsi libero di esprimersi nella propria lingua madre senza sentirsi inadatto, provinciale, marginale, “etnico” (termine che ormai si utilizza in tutti gli ambiti merceologici per indicare provenienze non occidentali ossia della cultura predominante: “andiamo a mangiare cibo etnico” vale per la cucina tanto quanto per la musica “etnica” o world music, ossia musica non occidentale).

Se posso immaginare che ingenuamente, quanto genuinamente, i ventenni degli anni novanta di tutto il mondo volessero diventare i Nirvana o gli Oasis, negli anni duemila volessero diventare The Artic Monkeys o i Franz Ferdinand, e negli anni duemila-e-dieci volessero diventare i Fleet Foxes o gli Arcade Fire, spero che ora i ventenni di tutto il mondo vogliamo fare la trap nella loro lingua, solo per loro stessi e chi li vorrà ascoltare.

E, trap o non trap, spero fortemente che siano lieti, onorati e curiosi di esprimersi nella propria lingua assieme a tutte le altre lingue del mondo, senza nessun senso di inferiorità, senza nessuna paura di essere ferito da altre culture più potenti e senza nessun interesse a sovrastare le altre di culture. Questo è per me fare musica: esprimermi liberamente assieme a chi sta facendo lo stesso. Finché questo non avverrà io in primis mi sentirò incompleto, inadatto, vittima se non complice.

“Dico ai miei studenti ‘Quando ottenete quei lavori per cui siete stati brillantemente formati, ricordatevi che il vostro vero lavoro è che se siete liberi, dovete liberare qualcun altro. Se avete un po’ di potere, allora il vostro compito è dare più potere a qualcun altro’”.

Credo che questa celebre frase della scrittrice afroamericana Toni Morrison, appena scomparsa (1931 – 2019) e Premio Nobel per la Letteratura nel 1993, descriva quello che provo in quanto privilegiato, e quello che mi piacerebbe sentissero le culture predominanti di questo mondo.

Concludo queste pagine con un altro stimolo che mi dà molta speranza ed energia per sforzarmi ogni giorno di tendere verso l’ignoto (lo sconosciuto, il nuovo, il diverso). Naturalmente ci sono degli artisti italiani che quando suonano all’estero cantano nella loro lingua originaria riempiendo teatri con pubblico proveniente dello stato che visitano (non esclusivamente con italiani che vivono all’estero per intenderci): si chiamano, per esempio, Paolo Conte e Franco Battiato. Artisti che, non credo casualmente, se ne sono sempre fregati di ogni genere, definizione e regola, seguendo un percorso unico e inimitabile. Hanno sempre e solo fatto quello che gli veniva meglio e che verrebbe naturale ad ognuno di noi: essere se stessi senza condizionamenti.

Tre anni fa, nei giorni seguenti a quella cena a casa nostra in cui si parlò di colonialismo, stavo facendo delle ricerche su un chitarrista e cantante americano che un’amica mi aveva appena fatto scoprire, tale Robbie Basho. Nella pagina di ingresso del suo sito ufficiale mi accolse una frase che da allora non smetto di ripetermi: “Io non cerco di seguire i maestri, io cerco di pormi le domande che loro stessi si sono posti”.

“Ci vorrà molto tempo, ma nella relazione mondiale contemporanea è uno dei compiti più evidenti della letteratura, della poesia, dell’arte che devono contribuire gradualmente a fare ammettere “inconsciamente” alle umanità che l’altro non è il nemico, che il diverso non mi cancella, che se cambio nell’incontrarlo non significa che mi diluisco” (Edouard Glissant, “La poetica del diverso”).

[1] M. Paul Lewis. Ethnologue: Languages of the World, SIL International, Dallas, 2009 (sedicesima edizione).