Nelle fotografie, Rori, che aveva appena compiuto i venti anni, sembra una donna matura, molto più vecchia della sua età. Io col viso scavato, il naso adunco e un gran ciuffo sulla fronte, che nascondeva la incipiente calvizie (e non avevo ancora ventotto anni) ho l’aria di un violinista, polacco o ceco, da orchestrina, piuttosto squattrinato.
Questa l’immagine che Manlio Cancogni, ventottenne fresco padre di famiglia, offre di sé nella primavera fiorentina del 1944 in Gli scervellati (Parma, Diabasis, 2003), un’autobiografia degli anni di guerra in chiave resistenziale, su cui ci soffermeremo. Già insegnante di liceo ironicamente critico verso il fascismo, poi per poco impiegato ministeriale, era stato richiamato dall’esercito nel ’41 e spedito nei Balcani; godette di sei mesi di licenza a causa di un deperimento organico e infine un’alveolite di sospetta natura tubercolare lo fece rimpatriare definitivamente dalla Grecia nel ’42. Si accentua dopo il 25 luglio il suo febbrile attivismo di pigro, di «scettico, nel fondo per ciò che riguardava la politica, nemmen tanto coraggioso», che lo porta ad entrare nel Partito d’Azione (scherzosamente chiamato “Pidaz”), cercando contatti con le guarnigioni dopo l’8 settembre in Versilia, pronto a portar messaggi e stampa clandestina in bicicletta fuori città.
Non è una Resistenza eclatante quella degli «Scervellati», ovvero dei giovani antifascisti che, al modo dei fuoriusciti francesi dopo il 1789, tifavano con un po’ di rimorso contro la patria nella guerra in corso:
C’era semmai da sottolineare nel nostro comportamento, una ben più grave anomalia. E mi riferisco al brindisi sulla terrazza del Selvaggio, ai bicchieri levati alla salute dell’Inghilterra (cioè il nemico del nostro paese) e alla sua vittoria. In ogni paese che si rispetti, una cosa del genere, non è nemmeno pensabile. Per tutti loro cittadini vale la legge del: wrong or right, my country. L’antipatriottismo è una colpa, una macchia morale.
Ormai dunque questi giovani, borghesi e intellettuali, cominciavano col muoversi, anche se con una certa difficoltà, nell’accostamento al popolo, per costruire una nuova e diversa unità nazionale:
Mi sentivo un poco come Frédéric Arnoux a Parigi nelle giornate tumultuose del’48 fra la gente che invade le Tuileries e gli appartamenti del Re fuggito poco prima. Viva il popolo! Il popolo è giusto, è santo anche nella sua violenza! Mescoliamoci ad esso, ci rigenererà! Sì, e nello stesso tempo come non ritirarsi, rabbrividendo, a sentir il suo odore, a udire la sua voce furente e scomposta, a vederci in mezzo tanti ceffi? Inutile fingere una famigliarità che non c’è, dettata solo dalla paura, e dal bisogno di farsi perdonare.
Meglio forse la notomia letterariamente compiuta delle proprie sensazioni nella giornata cruciale:
Il primo dei quarantacinque giorni della libertà fu lungo. Fu caldo, assolato, e soprattutto lungo. Mi ricordo vari episodi di quella memorabile prima giornata di libertà, ma in particolare questa sensazione di lentezza. Il giorno non passava mai; il sole sembrava sempre al suo posto, mai declinante. A volte, alzavo gli occhi per guardarlo sopra i tetti, fra i campanili e le cupole di Firenze, col desiderio di vederlo un poco più basso. Macché, era sempre lì.
Resta insomma il sentimento d’inferiorità-superiorità verso le semplici (semplificate) e granitiche convinzioni degli amici comunisti:
Andammo allo studio di Guttuso, in Prati, all’ultimo piano di un palazzo in via Pompeo Magno. C’era anche Antonello Trombadori tornato all’indomani del 25 luglio dal confino in Abruzzo. Tutti e due erano comunisti. Davanti alla loro ferma convinzione mi sentivo confuso e indifeso; a confronto delle loro semplici tesi, condivise, intuivo, da un gran numero di Italiani che presto sarebbero stati una maggioranza, i miei argomenti suonavano futili e noiosi. Cavilli. La voce stessa enunciandoli si faceva stridula e falsa. Mentre loro mi guardavano sicuri e soddisfatti, con la calma che è data dalla forza. […] Ero tornato a Firenze piuttosto scosso nelle mie già pericolanti convinzioni politiche e cominciando a sospettare di non averne alcuna, non diverso in questo dalla maggioranza degli Italiani, desiderosi in fondo di una sola cosa: che la guerra finisse, con la vittoria degli Alleati, visto che ormai pareva proprio che non ci fosse altra soluzione.
In questa narrazione cronologica dei sei anni di guerra si può leggere allora la crescita di una consapevolezza, a volte incerta e a volte disincantata, soprattutto attraverso la galleria d’incontri con i letterati antifascisti, di Roma e in particolare di Toscana. Già perché non si trovano nel memoriale eroiche azioni vissute in prima persona o riferite, ma si raccomanda per la testimonianza d’un popolo di scrittori alla macchia, per parafrasare il celebre testo resistenziale di Luigi Longo, variamente impaziente, come il Mario Tobino così magistralmente ritratto in un precoce incontro nell’agosto 1942:
C’incrociammo sul lungomare nei pressi della Capannina. Tobino era tornato qualche tempo prima dalla Libia, dove aveva trascorso mesi, sul fronte di Tobruch, ufficiale della sanità. Tarchiato, l’occhio scuro e vivo nel viso largo e virile, esprimeva un’ira violenta, a stento repressa. Gli altri due lo seguivano ridendo, un poco intimoriti. Tobino mi squadrò come se mi volesse giudicare, mentre si attraversava il viale, diretti non so dove. Poi prese a sbraitare. – Ora – mi fece fermandosi di botto – non è più tempo di discorsi. Fra poco sentiremo le revolverate. – Aveva un’aria minacciosa. Io non sapevo che rispondere. Non sapendo a chi fossero diretti quei colpi di pistola, guardavo interrogativo ora Ponsi, ora Pinna. Tobino, commedia a parte (e Dio sa quanto gli piacesse recitare) era sinceramente esasperato. Il ricordo del lungo servizio nel deserto, con lo spettacolo della vanità e dell’incompetenza nei comandi, la paura dei più, il coraggio e l’abnegazione dei pochi, gli bruciava sotto la pelle. Tutto il suo essere reclamava chiarezza e giustizia.
A Firenze c’erano i vecchi letterati del caffè Le Giubbe Rosse, tra cui Gadda e Montale, vi si nascondeva l’ebreo in fuga Saba, si trovavano i prudenti Luzi e Parronchi; era stata soprattutto la culla dell’Ermetismo, quella «nebbia» da cui la nuova generazione voleva uscire e sembrava potesse farlo anche solo stendendo con «frasi brevi e chiare», dirette alla popolazione, il Manifesto storico, redatto a tambur battente il 25 luglio: «Uscimmo dalla casa di Romano che cominciava ad albeggiare. Eravamo molto soddisfatti anche se non avremmo saputo dire perché. Aver mostrato, noi uomini di lettere estranei alla realtà della gente comune, di saper, venuto il momento, essere come gli altri, fratelli nella stessa vicenda? Sì, forse era per questo». Ugualmente più anziano ma sentito maggiormente vicino è invece Carlo Levi, ricercato e nascosto con una certa trascuratezza in città. Figura faconda e carismatica diventa quel maestro che Cancogni, con rammarico pari all’orgoglio, non aveva mai avuto, al contrario di altri suoi sodali, tra i docenti universitari un po’ inamidati. Per di più Levi stava scrivendo con grande sprezzatura, sempre ritenendola attività secondaria e minore rispetto alla forza rappresentativa della pittura, il suo capolavoro Cristo si è fermato a Eboli; lo scrittore, autobiografico e impegnato, privo di qualsiasi compiacimento da letterato, sembra far da sprone a Cancogni per iniziare di Azorin e Mirò e, nello stesso tempo, farsi modello per il – momentaneo – abbandono della stesura a fronte dei fatti storici che incalzavano.
Bilenchi, il Romano sopra citato, e Vasco Pratolini, per altro ben più esposti di lui nelle vicende partigiane, sono amici dell’autore con cui confrontarsi giorno per giorno, come con maggiori contrasti Franco Calamandrei; il figlio del grande giurista fiorentino Piero, diventerà gappista a Roma, dove, forse anche per la figura e la fisionomia riconoscibilissime, fu arrestato, portato da Pietro Koch e riuscì come in sogno a fuggire dalla finestra di un bagno alla pensione Oltremare al Sallustiano, sede della banda. E tuttavia il suo ritratto ha i colori contraddittori del giovane intellettuale cresciuto nel fascismo:
Fu Franco a spiegarsi […] stando ciascuno al suo posto, con gli altri, ci possiamo rendere utili e dimenticare noi stessi. – Era vero, e tuttavia, a sentirlo dire da uno come lui (che m’era parso sempre au dessous de la melée, aloof nel suo splendido isolamento, un fratello di Lafcadio se non un nipote di Stavroghin), mi suonava falso e per nulla convincente. E poi chi erano gli altri? Quelli con i quali si preparava ad agire per un fine comune? Non occorreva che lo dicesse, infatti lui stesso ritenne inutile dirlo. Erano i comunisti. Sicché lui non solo era passato, nello spazio di pochi giorni in forza di una scelta volontaristica, dall’indifferenza politica all’attivismo, alla militanza nel partito più opposto alla sua natura di gran signore viziato e di dandy, lui scrittore proustiano e gidiano che a tutto anteponeva la letterarietà. E non c’era il rischio che anche questa, di contenuto in apparenza etico e politico, fosse una scelta letteraria? Esistevano illustri precedenti in proposito.
Decisamente più fraterni i rapporti con Cassola e Bassani. Il primo era già stato un sodale nel 1936, quando insieme avevano messo in piedi una rivistina di poche pagine e pochi numeri, all’insegna della poetica «subliminare», una sorta di accensione struggente e veritiera delle cose quotidiane, e fu ritrovato fugacemente a Volterra dov’era partigiano, per poi essere adombrato anche nel già citato romanzo Azorin e Mirò, pubblicato nel ’48 sul primo numero di «Botteghe Oscure». Cancogni aveva esordito nei tardi anni Trenta, pubblicando su «Il Frontespizio» alcuni racconti raccolti poi nel 1943 con il titolo Delitto sullo scoglio, per dedicarsi più tardi al romanzo, generalmente breve, in cui le vicende sono spesso legate alla Storia (La linea del Tomori, del 1965, sulla guerra in Albania; Il ritorno, del 1973, sulle traversie post-8 settembre); in particolare con sguardo limpido e appuntito sulla società del Ventennio (L’odontotecnico 1957; Le leonesse 1982). Con Bassani, nato come Cancogni nel 1916 a Bologna, che si nascondeva a Firenze dietro lo pseudonimo di Marchi, fu amore a prima vista: ogni giorno, fino alla discesa romana dell’amico, lunghe chiacchierate sulla guerra, Ferrara e le leggi razziali, la squadra cittadina di calcio «che tremare il mondo fa». E naturalmente la letteratura e la lettura dei racconti di Giorgio Una città di pianura usciti con un’edizione alla macchia; in particolare Storia di Debora, per Manlio analogo quanto a forza di identificazione e a «rivolgimento psicologico, morale» alle Metamorfosi di Kafka lette nel ’38 e al futuro incontro con Cedola falsa di Toltstoj. Insomma, come testimoniato dalle frequentazioni riportate, a quei tempi si dedicavano alla stampa dei veri scrittori mossi da una precisa scelta etica: «Ci dava soddisfazione l’aver saputo uscire con quelle frasi brevi e chiare a tutti comprensibili, dalla nebbia dell’ermetismo? Letterariamente era questa una seconda nascita». Ed infatti Cancogni subito nel 1946 collaborò con «Il Popolo», diretto da Mario Melloni (più noto come Fortebraccio), tra l’altro con scottanti reportage sull’area emiliana detta Triangolo della morte per i delitti compiuti da ex-partigiani comunisti, visse la gloriosa stagione de «L’Europeo», trasferendosi per alcuni anni a Parigi, e quella de «L’Espresso», trapiantandosi a Milano; ancora diresse «La Fiera letteraria», lavorò al «Corriere della sera» e al «Mondo» nella sua seconda fase degli anni Settanta, con lunghi periodi di insegnamento nei college americani. Quando la responsabilità e la curiosità del giornalismo venivano per un momento accantonate per tornare alla passione narrativa secondo necessità interiore (penso, oltre a Cancogni, ad Arrigo Benedetti), o semplicemente per provarsi con il romanzo (il Biagi di Disonora il padre), o ancora abbandonarsi alla memorialistica come l’ultimo Giorgio Bocca o Davide Lajolo, i risultati sono quelli quasi sempre felici dei letterati di razza.