Per gentile concessione dell’autrice e dell’editore, pubblichiamo la prefazione di Alberto Cellotto a Scena Muta di Nicoletta Bidoia (Ronzani Editore, 2020). Segue una selezione di testi tratti dalla raccolta.
Sulla soglia del frontespizio c’è un titolo che precipita nell’afasia e nel silenzio: in queste zone, del resto, un componimento poetico prende avvio e in queste è continuamente ricacciato. Il titolo del quinto libro di poesia di Nicoletta Bidoia smaschera la contraddizione e l’esitazione che tutto plasma: la partenza, in poesia come in una musica o a teatro, è sempre silenzio e mutismo. Pensiamo, esemplificando, alla fatica sovraumana che fa l’attacco dell’Incompiuta di Schubert per fuoriuscire dal silenzio. Pensiamo soprattutto a quanto dicono i versi di Massimo Ferretti, richiamati a un certo punto quale constatazione e dilemma e a conferma di un’aporia originaria: ricorrere alla parola scritta quando si vorrebbe unicamente ballare. Il lettore capirà nella seconda metà di questo libro com’è totalizzante e assoluta la danza – e un danzatore su tutti.
Nella sezione d’avvio, La morsa, una vasta gelata s’è impadronita dell’Europa. Questi testi iniziali disegnano una mappa vaga, frastagliata, dove per un processo allucinatorio ci si può sentire immersi in uno di quei dipinti invernali e affollati di Pieter Brueghel il Vecchio («Allora si trascina il carro sopra la laguna, | si pattina sulla piazza di mare»). «Ci chiediamo se sia del bianco | l’invenzione dell’eterno» è la coda della poesia che apre una sezione inscenata su un “noi” che vive di penombra (vale a dire, come leggiamo, «[…] sottrarre al chiaro | ciò che conta […]») e dove s’isolano, tra catene consonantiche insistite che si coagulano e stemperano, a sciami, alcune enigmatiche indicazioni spaziotemporali: la Boemia oppure l’anno 1709.
Nel secondo movimento del libro l’enigma è addirittura inscritto nel titolo (sereniano, rilkiano) e il passo assomiglia a quello dei colloqui, dell’esortazione, finanche della resa («[…] Si depongono | le attitudini come chi preferisce | mancare lo scopo e ama solo | i tempi morti»). Il finale della poesia d’apertura illustra icasticamente le stanze spoglie di questa scrittura attraversata da plurime correnti d’aria: «Tutto il resto rimane un nascondiglio | dove il nome si cela alla radice | e tutto, tutto si chiude intatto al mondo | e non si vede più». La memoria, puntiforme, nasconde il presente e diventa ladra (lo cantava già Piero Ciampi ne L’assenza è un assedio), iniziando ad accendersi in modo scoordinato, per lampi, fuggendo con convinzione qualsiasi linearità o premeditata scorciatoia.
Eppure la terza sezione in prosa restituisce una memoria perfettamente collocata in un tempo e in uno spazio: si ripercorre qui, infatti, la breve esperienza vissuta durante l’adolescenza alla Scuola di Balletto Classico di Reggio Emilia. Dietro un’espressione del linguaggio amministrativo, Ora per allora, si recita una preghiera retroattiva, che ci parla della coesistenza dei tempi che compongono il soma, dei punti di flesso in cui la curva tracciata dalla vita muta aspetto, inaugurando il corpo a corpo con la memoria – e quindi con la scrittura.
E se la sezione in prosa si apre sotto il monito di Sergej Esenin, «Non a tutti è dato cadere», è nella direzione opposta al cadere e nel celebre ultimo salto di Vaslav Nijinsky immortalato da Jean Manzon che possiamo immaginarci la fine del mutismo che accenderà l’ultima sezione. Finiremo per trovarci, poema dedicato al leggendario danzatore nato a Kiev, si srotola alla prima persona singolare. A parlare è lo stesso Nijinsky, anche attraverso frammenti quali «Penso spesso alle stelle | perciò so chi sono». Così come egli cercava Dio – anzi, era il dio che muore quando non è amato – e nei suoi Diari disponeva su un unico piano l’assoluto, la meschinità e le devastazioni personali, in questi versi l’immaginario si sgancia, s’impenna e dilaga, tessendo una rete di rimandi circostanziati, citazioni, incursioni, schegge. Un’interrogazione calata nell’enigma e nell’opera di Nijinsky torna così a lambire la landa della follia, come già successo nella scrittura di Nicoletta Bidoia (si torni sull’eccezionale libro in prosa Vivi. Ultime notizie di Luciano D.). La realtà di questa landa è però povera di fatti: si parte e non è detto che si faccia ritorno. Importa allora il tragitto, il fervore, la mappa per quanto inservibile, ricordandoci, con i versi della seconda sezione, che «qualcosa bisogna pur perdere, | in qualcosa bisognerà pure svanire».
Dalla sezione LA MORSA
Quando finirà
questo secolo lungo di ghiacci
e novene, l’irrigidirsi dei propositi
che cristallizzano col fiato?
Ci chiediamo se sia del bianco
l’invenzione dell’eterno.
Dalla sezione IL CARO ENIGMA
Se una cosa ci accomuna
è la penombra, sottrarre al chiaro
ciò che conta. Ogni tanto ci stana un corpo,
la pelle tesa che ha nell’avambraccio,
il principio che precipita nell’inguine
coi pensieri, il fiato corto.
È allora che i morti con cui parlo
si tolgono di mezzo – sanno bene
che non è il momento – mentre tu
continui a dire sono qui.
Tutto il resto rimane un nascondiglio
dove il nome si cela alla radice
e tutto, tutto si chiude intatto al mondo
e non si vede più.
Dalla sezione ORA PER ALLORA
Prima di dormire pensiamo a quanto grandi sono le pianure e a quanto distano i corpi dall’amore. E ogni notte che seguirà a quella temeremo che una scossa provochi una fessura e poi una falla enorme, che il nucleo si divida per sempre tra due terre.
Dalla sezione FINIREMO PER TROVARCI
Già da allievo miracolavo nel salto,
perché se parto alla volta del cielo
è per restarvi a lungo a mezz’aria.
Non conosco altro azzurro
se non quando prolungo l’incontro
là in alto
e mi sospendo, vi penso, mi calmo.
E dopo ogni indugio
ritorno a quel fuoco, plano,
scendo in me
come un perdono.
Nicoletta Bidoia, Scena Muta, Monticello Conte Otto, Ronzani Editore, 2020, pp. 76, € 12.