Pubblicato da Fazi Editore da appena pochi mesi, l’esordio di Claudio Lagomarsini è un romanzo in grado di colpire il lettore, di riportarlo a quel piccolo universo di provincia che pensa di aver superato, ma del quale, volente o nolente, è stato parte – o lo è tutt’ora.
Ai sopravvissuti spareremo ancora si apre con la storia di un uomo, che il lettore imparerà a conoscere con il nome “il Salice”, al quale è toccato il compito infelice di abbandonare per un momento la propria vita d’oltreoceano, per fare ritorno nel piccolo paese della provincia toscana in cui è cresciuto. L’impellenza è la vendita della vecchia casa di famiglia, ormai dismessa, di cui nessun altro, evidentemente, vuole occuparsi. Il Salice si è programmato una visita breve e indolore – in fin dei conti quello che spererebbe di fare ciascuno di noi di fronte a un capitolo della propria vita che si è cercato in tutti i modi di allontanare definitivamente.
Con la scusa di alcuni impegni di lavoro mi fermerò il meno possibile. Mi aggiro tra le scatole come un angelo della morte, sbuffando come un treno a vapore. L’insofferenza e il fastidio di essere qui prevalgono sulla nostalgia. Segno croci rosse senza misericordia, condanno allo smaltimento vasellame e soprammobili.
Ma fra quegli oggetti scartati e dimenticati, abbandonati sul fondo di uno scatolone spiccano cinque quaderni Monocromo. Sfogliate le prime pagine, il Salice si rende conto che si tratta del romanzo che suo fratello Marcello stava scrivendo in un’estate ormai lontana, quando lui – il Salice, secondo il soprannome che gli viene attribuito in quei quaderni – viveva la sua spensierata adolescenza fra «sbornie, uscite con gli amici e baci con troppa saliva», mentre Marcello viveva un’altra quotidianità, e cercava di scriverne. Le pagine di quei quaderni, scritti con quella familiare grafia «piccola e nervosa», diventano l’occasione per il Salice di rivivere da un’altra prospettiva le vicende della sua famiglia, che fra la noncuranza di tutti, durante un’estate come tante altre, costruiva le basi di una tragedia. Ma soprattutto quel romanzo, che Marcello ha intitolato Ai sopravvissuti spareremo ancora, costringe il Salice a fare i conti, una volta per tutte, con quelle responsabilità che è andato cercando per molti anni.
Come un vaso di Pandora, le pagine di quei quaderni lasciano che tanti mali del piccolo mondo provinciale in cui vive Marcello escano allo scoperto. Sotto lo sguardo sensibile e acuto del ragazzo si dipanano i bandoli di quelle matasse che hanno costruito la realtà gretta e meschina in cui si è ritrovato a vivere. I rapporti familiari si rivelano essere i più complicati da sciogliere e da gestire. Nel piccolo complesso di case a schiera, fra le sottili mura domestiche – così sottili e penetrabili da non riuscire nemmeno nel loro intento di delimitare una proprietà, di garantire una privacy familiare –, Marcello assiste alla progressiva e inesorabile trasformazione della madre in una serva, in una vittima silente e remissiva di un compagno egemone – Alessandro, che Marcello soprannomina “Wayne” – e di una cultura che non vuole vederla oltre il suo ruolo di madre.
Bisogna riconoscere che la tecnica di controllo codificata da Wayne era ed è fenomenale. […] il primo passo consiste nel fornire aiuto non richiesto a una persona in difficoltà; quindi, senza farlo pesare (anzi, senza parlarne mai esplicitamente), trasformare l’aiuto occasionale in una consuetudine, in un piano quinquennale di aiuti. A questo punto chiedere piccoli servizi, prima una tantum, poi anch’essi consuetudinari. Trasformare, così, le persone in aiutanti, collegare ogni aiuto prestato a un favore da riscuotere. Se l’aiutato è una donna, è tutto più semplice: si proceda a farne una serva. In seguito: soffocare sul nascere le sedizioni, spostare il conflitto su altri piani. Parliamo di panni sporchi, ma parliamo di soldi. Io posso portare la polo in lavanderia. I pantaloni da stirare posso darli, per pochi euro, alla cinese che abita sopra al mio negozio. Quando non ho voglia di cucinare o di riscaldarmi qualcosa, posso mangiare in una tavola calda. E posso passare le mie serate libere al bar con gli amici. Posso comprarmi una donna, una sera che ho voglia. Tu sei sicura, sì, di voler tornare a pagare le bollette? Per una polo blu.
Ma in fin dei conti lo stesso Alessandro non è che il prodotto inconsapevole e ignorante di quei «western di serie b» di cui è appassionato, il risultato caricaturale e grottesco – che gli è valso il nomignolo – di quella smania di affermazione di sé, di comandare e di non aver bisogno di nessuno, tantomeno per farsi giustizia. Le rapine che disturbano il quartiere non sono che l’occasione per dimostrare e ribadire la sua apparente intransigenza, la sicurezza di sé e nei suoi principi.
Wayne dice che i rapinatori devono solo azzardarsi. In camera da letto tiene due carabine regolarmente detenute, è un tiratore scelto, si allena al poligono. Venite a riempirvi la pancia con un cocktail a base di piombo, teste di cazzo.
Anche la semplice grigliata in giardino diventa lo scenario perfetto per il suo machismo esagerato e ridicolo – «È questa l’immagine che ama dare di sé: maschio accaldato che maneggia lame. Se incrocia lo sguardo di una ragazza fa una smorfia adescatrice: la vuoi un po’ di ciccia?». Nello sguardo di Marcello, che coglie queste immagini e le trascrive, c’è sensibilità, a tratti quasi comprensione, ma non solidarietà. Fissati in quell’estate lontana, tutti i personaggi sono contemporaneamente vittime e carnefici di luoghi comuni pervasivi e velenosi che, però, nessuno si stanca di perpetrare.
Fra le pedine di questo piccolo mondo c’è anche quella del Tordo, il degno compare e rivale di Wayne, solo più vecchio e laido, un Don Giovanni ormai stantio che non ha mancato di sedurre anche la nonna di Marcello. Il distacco generazionale viene colmato da stereotipi e cliché, alla sessualità più becera e volgare del Tordo o alla curiosità malevola e maliziosa della nonna, Marcello fa corrispondere un senso asfissiante di ottusità e ristrettezza. Eppure, il ragazzo non si svincola mai – come gli altri – da quegli inviti a cena nell’aia del Tordo, ma partecipa e assiste al lento tramonto di due anziani ringalluzziti dalle ultime vibrazioni sessuali, ostinati nel loro voler rimanere aggrappati a un’immagine di sé che non esiste ormai da tempo, a un sistema di valori che non funziona più.
Fra tutte le vicende che si succedono nella vita di questa famiglia allargata e ingombrante, la decisione di Wayne e del Tordo di avviare un orto comune si rivela presto una seccatura, l’ultimo tassello di un’estate disastrosa. Quale pretesto migliore di un pezzo di terra da lavorare per dimostrare, una volta per tutte, chi comanda, «chi è che manda avanti le cose»? I legami famigliari vengono messi a dura prova, ma solo Marcello pare accorgersene. Quel ragazzo un po’ strano, che all’abbronzatura estiva preferisce il classico pallore di chi passa l’estate sui libri, nella faticosa gestione della propria vita adolescenziale, cerca di tenere insieme quei pezzi di vita instabili e precari: osserva, ascolta e scrive. E interviene, forse nel tentativo di riportare un ordine.
«Posso dire una cosa?», comincio. È una formula che uso spesso anche a scuola. Nessuno ti dirà mai: no, devi tacere. E restando in silenzio ti accordano il permesso di prendere la parola.
È così che Marcello prova ad arginare la deriva, a dare voce alla madre, a ridurre le presenze assordanti di Wayne e del Tordo, a comprendere gli scontri fra la madre e la nonna, a colmare il silenzio di un padre ormai distante e assente. L’obiettivo è creare uno spazio equilibrato, ben distribuito, dove poter dedicare la giusta attenzione a ciascun elemento di questo piccolo mondo meschino, senza la presunzione di ergersi a giudice inappuntabile e intransigente.
Si apre, qui, l’ennesimo raccontino a cornice del mio romanzo: più che un diario romanzato, dunque, una specie di Decameron. A mio discapito posso garantire che ho fatto una cernita, ho scelto solo i racconti più rappresentativi dei narratori, dei loro ideali, del mondo in cui sono cresciuti. Perché il lettore non li condanni senza prima sapere da dove vengono.
Anche se una condanna da fare, alla fine, ci sarà. La tensione è destinata a esplodere, ma la penna e i quadernetti Monocromo non basteranno a Marcello per contenere i danni.
Di fronte al fallimento di una classe genitoriale immatura e al naufragio di una «Grande Famiglia Moderna», davanti a violenze e a soprusi ridicoli nella loro banalità, Marcello registra tutto e restituisce al lettore l’immagine di un mondo che si ama considerare scomparso ma che si rivela invece ancora vivo, recalcitrante a lasciarsi andare. Nonostante la pluralità di storie e vicende, più o meno problematiche, Lagomarsini riesce a dare vita ad un romanzo ben amalgamato e coerente. La voce narrante di Marcello si rivela un buon collante, è attenta a cogliere la specificità di ogni prospettiva, sebbene filtri tutto con ironia e disillusione. I dialoghi riportati consentono a ciascun personaggio di poter dire la propria, di mostrare al lettore da quali convinzioni è mosso, più o meno consapevolmente. La scrittura, attenta e puntuale, garantisce al testo di evitare rappresentazioni caricaturali o banali, molte dinamiche – anche se apparentemente secondarie – emergono in maniera viva e cruda, rafforzate da un registro grottesco abilmente declinato. Il rapporto fra il romanzo di Marcello e la storia del Salice, invece, sembra bloccato, fermo ai contrasti adolescenziali. Il Salice, mosso dalla stizza verso quel fratello che ricorda come «aggressivo, depresso, probabilmente scontento, certamente nevrotico», sente la necessità di opporsi alla voce narrante di quei quaderni, «che scrive, con l’assenza di pietà che rende indistinguibile il suo romanzo dal diario di un kamikaze». Inerme di fronte a quest’esplosione, l’uomo ormai emigrato oltreoceano si trova a fare i conti con se stesso e con la propria adolescenza.
Mi andava tutto bene e non mi rendevo conto, ha ragione mio fratello. Qualche volta Alessandro faceva lo spaccone, ma non ricordo di essere mai stato umiliato o maltrattato. Oppure non mi rendevo conto nemmeno di questo. Certo, andava matto per i western di serie B (Wayne! Ho sorriso trovando per la prima volta il nomignolo…), non aveva mai aperto un libro in vita sua, ma a Marcello vorrei dire: è la provincia, bellezza. Scegliere un’altra strada, qui, significava condannarsi a un’esistenza infelice, essere maltrattato da una stronzetta di nome Sara e passare le estati in camera a tradurre dal greco e rileggere i russi. Ne valeva la pena?
Una volta letti i quaderni, come a voler compensare il silenzio e l’assenza che caratterizzano il suo personaggio nelle pagine del fratello, il Salice diventa, però, nel romanzo di Lagomarsini, una voce quasi ingombrante. La sua rabbia e la frustrazione sfogano in un atteggiamento ai limiti del presuntuoso, la paura di poter essere parte di quella «miscela dal potenziale esplosivo» lo spinge sulla difensiva, a minimizzare, nel suo tribunale notturno, le responsabilità di chi ha abitato con lui quel microcosmo. La storia di quell’estate, così com’è stata percepita e raccontata da Marcello, costringe il Salice a confrontarsi con il fatalismo e l’apatia, malcelati da una cordiale accondiscendenza, che hanno caratterizzato gli anni della sua adolescenza – e forse non solo. Ciò che però il Salice non vuole vedere né riconoscere è che c’era un’alternativa a quel modo di vivere e che il rancore o l’antipatia di Marcello, così come lui li ricorda, non erano una semplice richiesta di attenzione di un adolescente malmostoso, ma erano parte di una battaglia più grande che il fratello portava avanti nella convinzione, forse illusoria, proprio di evitare quella condanna a un’esistenza infelice.