È diventato scontato iniziare la recensione di un romanzo di Domenico Starnone scrivendo che l’autore mette a nudo le ambiguità degli esseri umani e sottolinea la poliedricità delle relazioni affettive che intrattengono, e che lo fa in uno stile limpido e essenziale; però in effetti Starnone fa proprio questo e non fa eccezione il suo ultimo piccolo capolavoro, Confidenza, uscito ormai un anno fa per Einaudi.
Da lettori continuiamo a leggere i suoi romanzi con così tanta fiducia e ad apprezzarlo proprio perché ci permette di sprofondare nel disordine affettivo che i suoi personaggi sperimentano e ci fa sentire meno soli e meno orribili se non siamo ancora riusciti in una vita a provare sentimenti incontrovertibili, né a capire sempre da che parte stare, se dalla parte dei retti o più semplicemente altrove.
Con Confidenza mi pare si completi una trilogia iniziata nel 2014 con Lacci e proseguita nel 2016 con Scherzetto, il cui filo rosso si individua soprattutto nei tratti che caratterizzano i protagonisti di questi bellissimi romanzi (tutti uomini, borghesi, intellettuali e padri) e nell’alone opaco che ricopre i rapporti padri-figli, mariti-mogli, coniugi-amanti.
La struttura, che richiama molto quella di Lacci, consiste in tre “racconti” affidati a tre voci diverse: la prima e più potente è quella del protagonista Pietro Tella, insegnante di liceo che farà carriera quasi casualmente grazie a un saggio sullo stato dell’insegnamento; le altre, di minore impatto, che pare abbiano la funzione di accompagnare la storia al suo disfacimento, sono le voci di due tra le donne più importanti nella vita del professore.
Per dare un cenno di trama, che rappresenta di per sé una forte attrattiva di questo gioiello letterario, un vero e proprio boost che dà al lettore la spinta per arrivare velocemente al finale (Confidenza è un romanzo da bere in unico sorso), è necessario dire innanzitutto che Pietro è un insegnante di scuola superiore tiepidamente appassionato e Teresa è una sua ex allieva; tra i due si instaura una relazione amorosa così totalizzante che decidono di confessarsi a vicenda il proprio più terribile segreto, in modo da rimanere legati per sempre. Disgraziatamente, però, subito dopo questo atto di estrema fiducia la relazione tra i due si interrompe senza particolari traumi. Dal momento della rottura le vite dei due proseguono autonomamente, fino a quando in una fase cruciale della vita di Pietro, cioè poco prima del suo matrimonio con la collega Nadia, Teresa ricompare e gli ormai ex amanti decidono di stringere un patto basato sul controllo reciproco: uno ha il diritto di rivelare al mondo la vera natura dell’altro, se questi non si comporta in maniera moralmente retta e irreprensibile. Nonostante sembri un patto di impegno che coinvolge entrambi, in realtà chi sembra abbia realmente il controllo sull’altro è Teresa: Pietro passerà la sua vita a temere che l’intervento della donna smonti pezzo dopo pezzo la sua esistenza. È con la promessa di rivelarci un segreto tremendo, quindi, che Starnone ci consegna un personaggio scisso tra perfezione e auto-sabotaggio.
Si possono individuare pochi nodi centrali attorno a cui si sviluppa il romanzo e cioè: quel che resta dell’amore, che Pietro definisce una «smania che storce e distorce, un’ossessione senza rimedio» [p.3]; il riconoscimento pubblico, occasione per disegnare un ritratto crudele dell’intellettuale borghese romano (secondo l’impietoso slang millenial: diciamo pure che Pietro è un boomer) prima insegnante, poi teorico dell’educazione e addirittura politico, e tutto questo grazie a un suo brevissimo saggio; mentre il terzo e ultimo nucleo è rappresentato dalla trasformazione dei segreti dei due amanti da atto di fiducia in strumento di ricatto.
Questi nuclei, sedimentati nel primo racconto, lasciano l’idea che non ci sia altro oltre Pietro, nonostante il cambio di voce e il twist che relativizza il punto di vista: diventa cardine dell’interpretazione il suo modo di trovarsi costantemente in bilico tra controllo e indifferenza, tra perfezionismo e sabotaggio, e questo instilla qualche dubbio in chi legge sulle ragioni che rendono l’uomo dipendente dal controllo di Teresa, che è un fantasma onnipresente. La confessione del segreto rivelato, che serve ai due per garantirsi la fiducia dell’altro, nasce letteralmente come una specie di assicurazione contro l’abbandono. Ma quando la relazione finisce, la fiducia si trasforma in minaccia costante di ricatto, e il rapporto tra Pietro e Teresa, definito sadicamente come una forma alternativa di matrimonio («Cominciai a sentirmi più sposato a Teresa che a Nadia» [p.84]), costringe la non-coppia a rimanere implicata per tutta la vita, ciascuno misurando con la dovuta ansia i passi dell’altro nel mondo. Ma la leva per l’interpretazione, appunto, è che il soggetto dell’accordo non è realmente duale: Pietro il perfezionista è quello che sconta effettivamente la colpa per aver ceduto a una persona amata la chiave per la distruzione di tutta la sua esistenza. L’azione della confessione del segreto, intesa come cessione di sé e quindi come allentamento della volontà ha ripercussioni sulla vita civile del professor Tella; mesto dalle prime pagine manifesta disinteresse mischiato a una finta umiltà:
Sono un letteratucolo inchiodato per sempre a rosa rosae rosae rosam – le confessavo che me ne vergognavo [p.21];
Non avevo mai avuto particolari ambizioni, mi bastava il mio lavoro di insegnante e una vita piena di letture, di attenzioni agli altri, di affetti [p.21].
L’incongruenza sta nel fatto che il professore si ritrova, quasi senza accorgersene, al centro di un dibattito nazionale sullo stato della scuola semplicemente per aver scritto un saggio mai ritenuto di particolare valore dal protagonista stesso («ho buttato giù quattro scemenze» [p. 23] – ammette). La volontà, che si nega anche in questa occasione, è una vittima del sé. Per Pietro le sue sono sempre «cosucce» e il successo è come se riguardasse un altro da lui, come se la paura costante di essere smascherato gli impedisse di dare un valore qualunque a ogni sua azione. L’ossessione di Pietro per la perfezione e l’irreprensibilità, di cui ci sono a ben guardare solo tracce e ricordi, mai prese di posizioni forti (Pietro non cerca mai di fare qualcosa di eccezionale, si limita a essere diligente), ha un’origine infantile, come lui stesso rivela in uno dei molti momenti di acuta autoanalisi:
Avevo sempre avuto una spinta alla perfezione e questo probabilmente era il motivo per cui non mi ero mai piaciuto. Volevo essere ineccepibile, ma poiché c’era in ogni occasione qualcuno che individuava buone ragioni per eccepire, ero cresciuto insoddisfatto di me e nel timore di una qualche nota di biasimo.” [p.43]
Ossessione e spinta che bene si manifestano nel pensiero, ricorrente pure questo nell’infanzia, del salto nel vuoto dalla finestra:
Intorno ai sette o otto anni ero stato spesso sul punto di saltare dalla finestra. Abitavamo al terzo piano, all’epoca […]. Io mi chiudevo nel bagno, mi sporgevo sul davanzale stretto – nei momenti di massima determinazione, addirittura mi ci sedevo con le gambe penzoloni – e guardavo in alto il cielo azzurro o grigio o con nuvole bianche allungate dal vento, e di sotto la striscia d’asfalto, il sentiero erto che portava ai campi. Con tutta probabilità ero un bambino infelice, anzi, lo ero di sicuro, ma escludo di aver mai voluto in tutta consapevolezza morire. Al contrario ero certo che se fossi saltato non mi sarei fatto assolutamente niente, nemmeno un osso rotto, e anzi il salto mi avrebbe causato un grandissimo piacere. Tuttavia, pur essendo stato mille volte sul punto di lanciarmi, non lo feci mai [p.17]
Il salto dalla finestra è la figura del rischio che Pietro vorrebbe correre ma non corre mai, a cui aggiungerà, poco oltre, la paura di essere scoperto nell’atto di saltare. Se il narcisista che è in lui credeva possibile saltare e non farsi male, la possibilità di essere esposto a uno sguardo altro è l’unica causa di dolore e l’unico vero danno. La vita di Pietro, a causa, oppure proprio grazie a, Teresa procede secondo il ritmo ansioso della paura, esplode in una carriera edificante che lo rende modello e punto di riferimento per altri, e innesca l’ascesa che si dovrebbe concludere con il riconoscimento pubblico dei suoi meriti. Ma Starnone non salva mai nessuno e noi lo sappiamo bene: se non esiste l’amore, ma esistono solo la dipendenza, le smanie e le ossessioni, dunque non esiste nemmeno riconoscimento pubblico senza vergogna. La sua strategia di mostrarci fragili gli uomini, sempre precarie e compromesse le relazioni umane, e di sottintendere che ci sia sempre un disinteresse di fondo per ciò che si realizza in una vita (famiglia, relazioni, lavoro), fa in modo che Pietro raffiguri se stesso come un orgoglioso impostore.
C’è una bella e dolorosa scena nel primo racconto, un litigio tra Pietro e la moglie Nadia, che avviene su due piani diversi: uno è quello delle parole realmente dette, l’altro e più interessante è quello delle parole (di Pietro) pensate. Il monologo del protagonista denuncia infatti un narcisismo radicato e un senso ineluttabile di fallimento, nonostante Pietro apparisse sempre addirittura sorpreso dalla riuscita della sua carriera e dalla presa che avevano le sue idee e di conseguenza le sue parole sul pubblico; ma la verità è un’altra. La consapevolezza del suo valore, che pure esisteva, veniva seppellita da uno strato di sensi di colpa causati dallo sbilanciamento dei ruoli che si crea nel suo matrimonio (al successo di Pietro corrisponde il fallimento accademico di sua moglie) e tutto il suo risentimento e la sua cattiveria – vera definizione del suo sé narcisista – sono semplicemente tenuti a bada dalla paura dell’intervento di Teresa:
Nadia, io sono un uomo colto, leggo, studio, non ho bisogno di un qualche titolo universitario per esprimere idee che – stammi bene a sentire – solo io posso definire sciocchezze con voluta modestia, tu no, tu devi studiartele come hai fatto – ottusamente, inutilmente – con le tue superfici algebriche, anzi devi studiartele di più, devi studiartele meglio, e soprattutto devi parlarne con rispetto, senza azzardarti mai a dirmi quando e come devo impiegare il mio tempo, quando e come devo stare con mia figlia, quando e come devo darle le pappette e il ciuccio e la mela grattuggiata insieme alla banana, perché io non mi faccio comandare da nessuno, specialmente da una che parla con la figlia facendo vocine da cretina: Emma è una bambina normale ed è inutile e dannoso che invece di Emma, vuoi bere, tu le dica pigolando cosa vuole questa bambina della mamma sua, vuole brum? Perché, te lo dico una sola volta, se continui così io ti sbatto fuori dalla mia vita come t’hanno sbattuto fuori dalla facoltà di matematica, chiaro? [p.42]
La bravura di Starnone sta nel rendere ogni personaggio così umano da farlo diventare quasi insopportabile. Lo sguardo disilluso di Pietro e il modo distaccato con cui assiste da una parte allo sgretolarsi del suo matrimonio e dall’altra alla propria ascesa sociale, come se non gliene importasse poi molto, lo rendono un personaggio spregevole, ma umano. È l’ossessione per l’immagine di sé che vuole costruire che probabilmente lo spinge verso il baratro della confessione del proprio peggior (miglior?) segreto – non è stato scoperto in procinto di saltare da una finestra già in quel momento?
Il paradosso per il lettore avido è che alla fine di questo segreto non si parla mai: sarà un peccato mortale, forse un reato? E proprio il fatto di non parlarne sposta l’attenzione dal segreto all’uso sadico che se ne fa, escludendo a priori per il colpevole la possibilità di essere perdonato (peraltro, è interessante notare che la focalizzazione su Pietro omette di considerare che anche Teresa, potenzialmente, si trova nella medesima situazione esistenziale, dal momento che anche lei gli ha affidato un segreto inconfessabile).
Per concludere, in Confidenza la vita coincide con la ricerca morbosa di quel pezzetto di noi che abbiamo lasciato andare insieme a una persona; ricerchiamo lei per salvare noi stessi, non la ritroviamo, e viviamo monchi.
Ma siamo sicuri, alla fine del romanzo, che quello che ci interessi sia il segreto o piuttosto ci aspettiamo una riga risolutiva in cui l’autore prende la parola e ci dice che il protagonista supera l’impasse e va avanti serenamente con la sua vita, senza pagare alcun prezzo per gli indicibili errori del passato? È davvero rilevante valutare l’esatto peso del segreto per dargli un valore di scambio?
Certo, nel finale no-show speriamo proprio che il narratore ci dia questo contentino o una exit strategy qualunque, che l’insuccesso dei padri non si schianti sui figli e li migliori; invece i figli peggiorano e i padri non si redimono e il lieto fine non è mai lieto, è solo la fine. La fine di tutto, di noi che non siamo niente nemmeno rispetto ai risultati che raggiungiamo se a distanza di anni e di famiglie e di carriere l’unica cosa che non vorremmo si sapesse di noi è l’unica che ci ha definiti per un’esistenza intera.
Per dirla banalmente, Confidenza è bello e fa riflettere; nel senso che quando leggiamo ci riflettiamo nel bisogno di Pietro di essere a tratti amati, a tratti controllati (forse accuditi), ma possibilmente mai perdonati.
Domenico Starnone, Confidenza, Einaudi, Torino 2019, 152 pp. 17,50€