Sarà un caso, ma a spezzare la cupa atmosfera del dopo-Mura ha provveduto minimum fax. Il più astemio tra i grandi Gianni del nostro giornalismo sportivo – “con la complicità” di Fabio Stassi e di un magnetofono – ha confezionato il proprio lascito testimoniale in un’autobiografia (Storia di un boxeur latino, 2020) le cui immagini di repertorio (fotografie comprese) farebbero invidia a The last dance. Ippoliti, Bezzi e Cerqueti potranno sentirsi sollevati: la categoria è stata adeguatamente rappresentata (quanto a Clerici, Il tennis nell’arte è per la verità già piuttosto stagionato). Intrecciando frammenti di privato ai “colpi” più altisonanti, Gianni Minà si è spinto con forza al di là del catalogo di navi ed eroi – espediente buono per un’imitazione riuscita, ma come sempre limitante – cui la sua carriera è stata ridotta (per volontà di semplificazione) negli ultimi vent’anni. Attraverso la disinvoltura di chi padroneggia il mito per abitudine, si è reso intertesto vivente in cui tutto è rimando. Lo provano il titolo del volume, estrapolato da una definizione di Paolo Conte, la dedica a Sepùlveda («Lucho, l’amico della vita») e le parole di Soriano sull’inutilità (nell’equivalersi) di biografia ed autobiografia, arbitrari tentativi di ricostruire le complessità di un’esistenza senza saperne carpire l’essenza. Se il reale di Minà è necessariamente iperbolico (dai pugili americani ha imparato anche l’inglese), il valore dell’opera è accresciuto dal ruolo che vi interpreta la tradizione diretta: sono le appagate confessioni di un piemontese, ma di origini sicule, che si è ritrovato a essere cittadino del mondo. Un’avvertenza: per una lettura del genere, l’indice dei nomi è strumento salvifico.
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Opportunamente indirizzata, la memoria finisce per delineare un percorso unitario in cui neppure l’infanzia ha caratteri ordinari: si poteva, del resto, già contare su un bisnonno che combatté al seguito di Garibaldi. Minà (classe 1938) è legato a suo fratello non da semplice vicinanza anagrafica (splendida la ricostruzione del tormentone “Kirialainen”, cognome di una zia finlandese su cui i due ragazzini si divertivano a scherzare); mostra inoltre, nei confronti dei genitori, un debito che oltrepassa la gratitudine e si trasforma, con pudica sensibilità, in commosso tributo filiale. L’eclettismo del padre Paolo è inevitabile modello del giovane Gianni, che lo mitizza a partire dall’occasione in cui l’uomo, tesserato al PNF, scacciò a parole il partigiano opportunista che aveva fatto irruzione nella casa di Brusasco. La figura della madre, oscurata dalla debordante personalità del marito (avvocato, autore di riduzioni teatrali èdite dai salesiani e, soprattutto, guardalinee al gol di Cesarini contro l’Ungheria), riemerge a intervalli regolari. Al destino della donna, trasferitasi al nord dopo la catastrofe messinese del 1908, il figlio si sentirà accomunato per la vita nel ’76: quando, per conto della RAI, sarà inviato in Friuli a documentare gli strascichi del terremoto.
Il primissimo Minà si nutre di epica sportiva, ascolta la tappa in diretta e gioca – con successo – a fare il radiocronista tra i coetanei nel vialetto di casa. Ama Salgari (il prediletto è ovviamente Yanez) e tifa Toro «con la rabbia di un pacifista» (vivrà Superga, da undicenne, come una coda della seconda guerra mondiale). Pecos Bill dopo un po’ lo annoia; il jazz lo attrae come poco altro. è in lui connaturato l’entusiasmo che più avanti, divenuto temerarietà, porrà le condizioni per i servizi più impensabili. Ma prima del giornalismo (e del magistero di Zavoli), è cruciale la frequentazione del liceo D’Azeglio, di cui si ricostruisce, sia pure in modo divulgativo, un quadro vivo e puntuale in fatto di “storia degli studi” (lo sfondo è una Torino «ancora monarchica» in cui «solo il nome del re era cambiato»); questo vale, e in misura forse maggiore, per le parole spese sulla generazione napoletana di La Capria e Patroni Griffi. Nel riconoscere loro un primato avanguardistico in ambito cinematografico, Minà (cittadino onorario di Napoli dal 2019) rivive l’impulso che lo condusse ad abbinare, alla pagina scritta, il supporto delle immagini. Contestualmente, e con un occhio alla contemporaneità, tesse l’elogio di generazioni di professionisti che assicuravano, non solo in campo giornalistico, standard qualitativi di norma elevatissimi.
Del Minà adulto si ha traccia già nel ’60: quella a Zátopek è in sostanza la prima delle grandi interviste. Ci vorrà però ancora qualche tempo perché il cronista torinese possa accedere alle quinte che, da sempre, predilige rispetto al palcoscenico: serviranno perlomeno il trauma della naja, un viaggio in Seicento con i Beatles e le Olimpiadi del ’68 (il pugno chiuso del velocista Tommie Smith, ma non solo). Servirà che al cinema (salde e documentate le amicizie con Leone e Fellini) Minà affianchi la musica e ne faccia il centro dei suoi interessi. Lo sguardo è rivolto all’universo jazzistico (ricondotto più volte alla boxe) e cantautorale: spicca tra tutti l’incontro con Gillespie, di cui Minà ricorda la tromba storta e l’incendio sfiorato (e sventato) in casa del musicista, con annesse bestemmie di Aldo Scarpa. Colgono nel segno le considerazioni su Tenco e Paoli (dei quali si ritiene che «si fossero sparati con la stessa pistola»); colpisce il ritratto del dirompente Eric Burdon. Per il resto, e per distacco, prevarranno i brasiliani.
Nel passaggio da “giornalista” in senso canonico a “documentarista” (nonché autore per la TV con Blitz, Odeon e tanto altro), Minà è forte di una completezza, acquisita per meriti, in funzione della quale in qualche modo rivendica – senza possibilità di coabitazione – un posto tutto suo. Che, sia chiaro, gli spetta di diritto. Sull’entità degli ospiti c’è poco da aggiungere, eppure l’autore riesce, grazie all’inedito, ad arricchire il già noto. è significativo che proprio in questa fase del resoconto emerga il giornalista spericolato, che arriva a Muhammad Alì per intercessione dell’avvocato di Mahalia Jackson, punta e si accaparra Fidel Castro nel corso di un match di Teófilo Stevenson e raggiunge García Márquez con l’aiuto di Pedro Armendáriz Junior («figlio del grande attore messicano che (…) era diventato una star hollywoodiana con opere come Il massacro di Fort Apache al fianco di John Wayne e A 007, dalla Russia con amore, al fianco di Sean Connery»). La rassegna di dettagli è sterminata e tutta rigorosamente all’imperfetto: gli spaghetti (e l’ingenua maleducazione) di Celentano in casa Agnelli; l’amore di Mina (la cantante) per la boxe di Clay; le cene in compagnia di Buarque, De Moraes e di un Ungaretti (di cui si rievoca la docenza a San Paolo) che «recitava poesie con la sua voce di cartavetrata». È d’altronde lo stesso Minà a operare una selezione di riferimenti personali: è un podio tutto di sportivi, ma senza numeri ordinali, di cui fanno parte Alì, Maradona e Mennea (era forse lecito aspettarsi, ma è un mallem scripsisset, due parole in più su Nino Benvenuti, di fatto il nostro miglior peso medio di sempre, della cui autobiografia Minà ha firmato la prefazione). Su Mennea (si legga: «cantonata di Brera») c’è forse la sola svista del volume, in particolare dove si sostiene (p. 158) che dal 1979 «solo due uomini hanno fatto meglio»: valgano, a parziale integrazione, i nomi di Frankie Fredricks, e Yohann Blake.
La maturità ha per Gianni Minà sapore agrodolce. è stagione di riconoscimenti, delusioni e bilanci. La sofferta chiusura con la RAI (1996), di cui l’autore dà una versione piuttosto concisa rispetto al clamore che suscitò al tempo, rappresenta senz’altro il principale motivo di amarezza («credo di essere stato espulso per somma di ammonizioni (…). E pensare che ero figlio di un arbitro»). D’altra parte, la vicenda ha permesso a Minà di dedicarsi a una serie di viaggi (del mondo dichiara qui di aver visto quasi tutto e «forse troppo») la cui summa ha dato origine al progetto Latinoamerica, rivista rivolta a «tutti i sud del mondo» che fu molto di più di un contentino: tra le altre cose, ha il merito di aver rappresentato, anche grazie all’ausilio di firme di culto, un osservatorio di raro prestigio su questioni di politica estera. Quel Minà è il protagonista dell’ultima parte di Storia di un boxeur latino. Per ciò non devono stupire i passaggi – non privi di valutazioni ideologiche – dedicati ai paesi più amati: dalla passione per la Cuba castrista al rapporto compromesso con l’Argentina di Videla; dalla vicinanza al Brasile di Lula al sostegno, mai nascosto, al Venezuela di Chavez. Caso a sé, perché eccezionale, è l’angoscioso ricordo dell’imprevista tappa in Togo, dove Minà e i fratelli Tosatti (Giorgio e Marco) rimasero bloccati nel tentativo di ritornare in Europa dall’Uganda (erano, nel resto del mondo, i giorni dell’approdo sulla luna). La panoramica è suggellata dai giudizi – positivi – riservati ai pontificati di Wojtyla e Bergoglio.
Così, a braccetto con i suoi lettori più maturi, Gianni Minà ha attraversato il Novecento e se ne è fatto portavoce ai più giovani. Lo ha fatto rielaborando il mito anche in funzione della sua ricezione; lo ha ribadito con un racconto lucido, e giocato su più registri, con cui ha eluso i rischi connessi all’esercizio della sbobinatura. Con un’operazione da “umanista” nel senso più ampio, capace di cogliere l’unità nella varietà, ha concesso una lezione magistrale di metodo giornalistico. Sbalordendosi ancora una volta, più che per una vita piena e soddisfacente, per le circostanze che l’hanno resa irripetibile. Anche senza aver mai conosciuto Che Guevara.
Gianni Minà, Storia di un boxeur latino, minimum fax, Roma 2020, 232 pp. 16,00€