Per raccontare un evento, un periodo, un secolo, non bisogna per forza nominarlo. Le vite di chi si porta dentro quell’evento, quel periodo, quel secolo sono alle volte più significative. Ma si può anche prendere di petto la storia, i contesti delle nostre vite, e così riattivarne il ricordo presso la memoria di chi vi ha preso parte, farli rivivere attraverso la finzione romanzesca. Provo a spiegarmi meglio.
Se dovessimo collocare gli eventi (quelli della diegesi così come quelli fuori di essa) su una medesima linea in base al numero di persone coinvolte, quella linea sarebbe una semiretta (vale a dire una retta – e rinfresco la memoria a voi che leggete tanto ma non ricordate la geometria – che ha un inizio ma non ha una fine), alla cui origine si può collocare l’individuo, e quindi la sfera del privato. Dall’altra parte, dove la linea tende all’infinito, si pone una collettività potenzialmente senza limiti. Se un personaggio cade per terra questo evento toccherà lui e lui soltanto. Se però cadendo si rompe una gamba ed è costretto a stare a letto per due settimane quell’evento comincerà a coinvolgere quantomeno il medico che si occuperà delle cure e la moglie che, sbuffando, sarà costretta ad assisterlo il tempo necessario. In questo caso non siamo più all’origine della semiretta: l’evento, infatti, non riguarda una singola persona ma un gruppo di persone che sono coinvolte in varia misura e a vario titolo. Se quell’uomo è il presidente del consiglio e cadendo sbatte la testa e perde la vita, poi, quell’evento coinvolgerà lo Stato intero. Allontanandoci il più possibile dall’origine, potremmo dire che il big bang è stato un evento che ha coinvolto la collettività più ampia. Ora, su quella linea (se fossi uno strutturalista magari la chiamerei la Semiretta degli Eventi) esiste un punto in cui si raccolgono gli eventi che tendono a coinvolgere la totalità delle persone che vivono in Italia. Quegli eventi formano i nostri contesti e i romanzi ne danno conto in vario modo.
Secondo il Thibaudet amato da Giacomo Debenedetti, a lungo i grandi romanzi si sono composti di biografie di singoli individui e delle loro idiosincratiche e circoscritte vedute. Poi è arrivato Balzac e ha preso forza l’idea che «lo slancio creativo del romanzo deve sforzarsi di coincidere non solo con quello dell’individuo o di più individui, ma con quello di un mondo, di una totalità, superiore agli individui e che si manifesta attraverso di loro, attraverso le loro affinità e contraddizioni». Da Balzac in poi questo modello si è diffuso in lungo e in largo, ma è forse nella forma della saga familiare che questo bisogno di totalità si realizza con più efficacia. Ogni vicenda, collegandosi agli eventi propri della vita pubblica di un Paese, di una collettività o di un gruppo sociale, nella vita privata trova fondamento, si sviluppa e, allo stesso tempo, tenta di smarcarsi. All’interno di questo quadro, le vicende familiari costituiscono quelli che potremmo chiamare microcontesti: una serie di eventi, infatti, toccherà tutti i componenti della famiglia escludendo il resto del mondo. Se ogni famiglia è contraddistinta da un’origine socialmente e culturalmente determinata, si apre la questione delle variabili: un’analisi comparata dei componenti di una famiglia permette di far luce su alcuni caratteri che altrimenti sarebbero rimasti in secondo piano.
Il nuovo grande romanzo di Giorgio Fontana s’intitola Prima di noi e ripercorre la storia della famiglia Sartori (le cui vicende si ispirano alla biografia della famiglia dell’autore), da Maurizio (classe 1898) ai pronipoti Dario e Letizia, nati nei primi anni Ottanta, per un arco temporale che va sostanzialmente dal 1917 al 2012. Mentre i Sartori nascono, crescono, si sposano, bevono, fanno figli, disegnano, fotografano, scrivono, cantano e muoiono, Mussolini sale al potere, l’Italia combatte funestamente per una colonia in Africa, impazza la seconda guerra mondiale, la guerra finisce, le periferie di Milano si riempiono di fabbriche, le ideologie forti fanno paura ad alcuni e alimentano le speranze di altri, si diffondono le violenze di piazza, la lotta armata, Calabresi viene ucciso, Falcone e Borsellino muoiono a distanza di pochi mesi, Berlusconi sale al potere.
Il romanzo è diviso in undici capitoli, ognuno dei quali è costituito a sua volta da brevi capitoletti che proseguono il racconto alternando diversi punti di vista secondo i modi tradizionali della narrazione in terza persona. L’unica eccezione è il primo capitolo, focalizzato prevalentemente su un unico punto di vista e incentrato sulle fughe del disertore Maurizio Sartori: fughe dal fronte, fughe dalla compagna incinta. Poi Prima di noi assume la forma di un romanzo a staffetta in cui i genitori lasciano spazio ai figli, e i figli lasciano spazio ai propri figli, fino a coprire le vicende di quattro generazioni di Sartori. Ogni personaggio prende la parola quando prende posizione nel mondo e poi, trovata una seppur provvisoria collocazione, la cede e si mette in disparte. Forse non sarebbe così sbagliato parlare di una composita successione di romanzi di formazione afferenti a un unico mondo narrativo.
Fontana sceglie una lingua ordinata, ricerca la precisione lessicale, l’armonia sintattica, ricorrendo però volentieri a inserti dialettali, allo scopo di dare una caratterizzazione sociale e geografica ai personaggi. Lontana da toni forti ed espressionistici, la scrittura talvolta (di rado, a dir la verità) cede il passo a pose patetiche (l’innamoramento è un «incantesimo»), ma fa bene, a mio parere, a prendersi qualche rischio, che oggi per chiamare l’amore col suo nome senza paura di fare una figuraccia mi pare che si debba prendere le traduzioni di qualche romanzo islandese. Aggiungerei, tra le (poche e trascurabili) pecche un capitolo 8 forse un po’ troppo veloce e sintetico, che mi pare stonare con la misura con cui la narrazione è distribuita nel resto del libro, ma ciò poco importa di fronte a un’architettura romanzesca che si rivela ben congegnata e maestosa.
Fontana riesce infatti a evitare il rischio più grande, vale a dire quello di scrivere un grande riassunto del grande romanzo che aveva intenzione di scrivere. L’ampio arco temporale non costituisce un problema, le ellissi numerose e considerevoli dettano i ritmi di una narrazione che trova sempre nel singolo personaggio la sua misura, nelle sue esigenze il traino, nel suo passato se non una giustificazione quantomeno un inamovibile punto di partenza. Ogni storia ha una sua traiettoria che interseca le altre in maniera proficua e complessa. I primi capitoli raccontano la storia di un uomo incapace di occupare la posizione assegnata, le vicende di una famiglia nella movimentata Udine degli anni Trenta, tra risse e speranze di redenzione, così come gli ultimi due anni della seconda guerra mondiale nell’esperienza del sottotenente Gabriele Sartori, a capo della compagnia più indisciplinata di tutte, del fante Domenico, troppo buono per la guerra in Africa, e Renzo, costretto a rimanere a casa con la madre e a guardare i partigiani da lontano. La narrazione prosegue poi con il trasferimento nelle periferie milanesi, il lavoro in fabbrica, gli scioperi, e i tentativi (più o meno vani) di allontanarsi da quell’invadente figura rappresentata da Maurizio Sartori (padre per alcuni, nonno per altri) e dalle sue inquietudini, lottando con quel malessere che niente sembra riuscire a placare. Poi le parole fanno eco, così come i gesti, e gli affanni di una giovane nata negli anni Ottanta risuonano delle paure di un ragazzino fuggito dalla guerra, l’ingenuità di uno zio mai conosciuto segna il carattere di un uomo a cui era stato chiesto di non assomigliare a se stesso. Forse la letteratura può ancora permettersi di connettere, mettere ordine, cercare senso e restituirci i nostri contesti.
Ed è in questo concerto di punti di vista, di personaggi che dallo sfondo si portano in primo piano e poi sullo sfondo tornano, che prende forma la storia della famiglia Sartori, che per molti versi assomiglia a quella di tante delle nostre famiglie, partite dalla campagna, trasferitesi nelle periferie di un grande centro urbano (con l’annesso allontanamento dalla terra), fino ai primi figli all’università e a quei titoli che non garantiscono la mobilità rincorsa per generazioni. A partire da Maurizio, il primo della famiglia ad andare più in là di venti chilometri dal paese. Gli altri si sarebbero spinti oltre, naturalmente. Belle pagine sono ambientate a Bruxelles, a Dublino, ma anche oltreoceano, rincorrendo le vicende di questi friulani che si arrampicano sul Novecento cambiando lingua, aspirazioni, riferimenti, orizzonti e Fontana è bravo a dar conto di questi mutamenti con una prosa che ritorna con confidenza anche su quegli anni di piombo dentro cui si erano mossi con efficacia Per legge superiore (2011) e Morte di un uomo felice (2014).
Se le consonanze hanno una dimensione temporale forte e una profondità cronologica, collegando personaggi appartenenti a generazioni diverse, le dissonanze hanno una dimensione sincronica. I personaggi, infatti, si definiscono in contrasto con gli altri componenti della famiglia. Ed è così che Eloisa può rendersi conto che
a differenza dei suoi parenti lei voleva essere felice. Non voleva né l’anarchia né l’oblio né il piacere né la salvezza divina né il sapere né la poesia né la rivoluzione: voleva soltanto essere felice. Una necessità misera rispetto ai dolorosi sogni dei Sartori, e forse un poco vile; ma perché mentire? Voleva essere felice e comportarsi bene con gli altri abitanti del pianeta. Nient’altro.
Quanto diversa è, in fondo, da quel bisnonno che nel 1917 aveva disertato e difendendosi diceva «non ho mica chiesto io, di combattere: voglio soltanto vivere libero e tranquillo»?
Se è vero che il grande romanzo italiano dovrebbe quantomeno essere dotato di forza simbolica e di un alto grado di esemplarità, se è vero, come dice Paolo Zardi, che serve che parli di una nazione, che sia in grado di rappresentarla, di riconoscerla, di inventarla, non son sicuro che la nostra letteratura ne abbia ancora partorito uno. Prima di noi racconta solo una storia di viltà e coraggio, di conflitti e rancori, di amori e sconfitte, una storia che non comincia nel 1861, lo si è detto, ma nel 1917, e insegue «a calci e pugni» crisi e speranze. Non riscrive la storia del nostro Novecento ma ne racconta reazioni e divaricazioni.
La storia pubblica, si diceva all’inizio, può essere nominata oppure no. E forse, allora, per quanto Fontana nomini la storia senza paura, da Mussolini a Mike Bongiorno, dalle piazze alla televisione, è forse nelle pieghe delle vicende dei personaggi che è possibile riconoscere il suo grande romanzo italiano, negli egoismi e nelle speranze che agitano i personaggi che lottano sul fronte così come nelle lacrime versate sul pavimento della claustrofobica cucina di un bilocale a Sesto San Giovanni, cercando di spiegare a un bambino di due anni che sua madre se n’è andata per seguire una vocazione. Del resto, di universale c’è poco, ed è chiaro che il Novecento italiano non può risolversi in un solo romanzo. La totalità del Thibaudet di cui si diceva sopra credo che vada ricercata in quei contesti senza i quali ogni passo in avanti parrebbe vuoto. Ma forse, soprattutto, nelle comuni reazioni a quei contesti. E nelle divaricazioni, naturalmente. Per quanto ampio possa essere il nostro orizzonte, la nostra vita scorre tutta all’origine della semiretta.
Giorgio Fontana, Prima di noi, Palermo, Sellerio, 2020, 896 pp., € 22.