Riproponiamo un articolo uscito su «In realtà, la poesia» il 12 ottobre 2016, ringranziando la rivista e l’autore (titolo originale, Scomposizioni chirurgiche: motivi e procedure in “Anatomie in fuga” di Cristina Annino). Il saggio ‘prepara’ per l’incontro della rassegna ‘Giri di chiglia’ online di lunedì 29 giugno h 18:30, in cui Cristina Annino dialogherà con Davide Castiglione, Michele Ortore Pietro Roversi e Stefano Guglielmin.
«Io non imito, Jack». Così un non meglio precisato «pittore omofobo» declina l’ingenua o arrogante richiesta di Jack che vorrebbe estorcergli un ritratto alla maniera di Picasso («Voleva sé come | Pablo»). La ferma replica, che troviamo nell’ultima ed eponima sezione di Anatomie in fuga (Donzelli 2016), può essere letta come una dichiarazione di poetica valida per l’intera opera di Cristina Annino. Assecondando questa linea interpretativa, cosa rappresenta allora la richiesta di Jack se non l’orizzonte d’attesa di un pubblico della poesia che preferisce una rassicurante copia del già noto a una singolarità indomita, fuori dagli schemi? In effetti, originalità ed eccezionalità sono attributi che, inflazionati quando applicati alla maggior parte dei poeti oggi in attività, appaiono perfino inevitabili quando oggetto del discorso critico è Cristina Annino.
Nella prefazione al volume, Maurizio Cucchi parla infatti di «evidente autonomia […] da ogni altra esperienza poetica di questi decenni» (ix-x), limitandosi ad accennare a una tenue parentela con Antonio Porta (grazie al quale Annino pubblicò Madrid nel 1987). Accostamento lasciato quasi cadere subito dopo perché questi sono «discorsi in fondo oziosi» (x).
Oziosi perché la poesia di Annino, come e ancora più dell’opera di altri poeti, va capita dal suo interno, nel duplice allontanamento da (non annullamento di) tradizione letteraria e mimesi referenziale e/o psicologica. Sotto la loro estrosità destabilizzante, nutrita di un’inventività che si rigenera a ogni sintagma, i testi di Annino tradiscono infatti una propria «perfetta logica» (Franco Fortini, lettera all’autrice, ristampata nell’auto-antologia Magnificat, Puntoacapo 2009). Ecco un esempio, peraltro di dizione insolitamente piana, da La casa del folle (p. 11): «La ragione cos’è? Arrivo qui e mi stendo | al piede del suo letto come a una pianta». La presenza di pianta qui è quasi altrettanto obbligata quanto il succedersi del 3 al 2 nell’insieme dei numeri naturali, benché assai più motivata rispetto a questi ultimi. Infatti pianta allude alla catacresi pianta del piede (l’altra, i piedi del letto, è già nel testo), si ricollega per iperonimia ad albero (stendersi sotto un albero per trovare pace o ristoro), ed è giustificata dal contesto rappresentato, perché l’ambientazione ospedaliera della poesia è compatibile con la presenza di una pianta accanto al malato. Viene anche introdotto un certo grado di straniamento, perché mentre è empiricamente possibile stendersi ai piedi di un abete o di un faggio, occorre essere lillipuziani per stendersi ai piedi di una pianta (poco importa l’ipoteticità della similitudine).
Per misurare lo scarto di Annino dalla tradizione, si consideri il probabile intertesto montaliano: «Mi stesi al piede del tuo giaciglio, ero | già troppo ricco per contenerti viva» (Per album – per inciso, la sopracitata poesia di Annino chiude proprio con vitalità). In Montale prevale la dimensione referenziale, a essa viene subordinato il lessico. In Annino, benché simile qui l’intonazione confessionale, la dimensione referenziale è subordinata alla sovradeterminazione della composizione letteraria. E sarebbe il caso, per Annino – ma questa non è la sede, né chi scrive ne avrebbe le competenze – di indagare seriamente il complesso rapporto fra scrittura e arti figurative, già incoraggiato biograficamente dall’attività di pittrice, e testualmente dalla poesia citata all’inizio di questa recensione, nonché dal titolo, un po’ alla William Carlos Williams o alla Charles Olson, di un’altra poesia (Concentrazione guardando Hopper, p. 12).
Altro esempio di logica stringente, sempre da La casa del folle: «Cerco di non affollarlo di niente; | il suo corpo vuoto è una stanza» (difficile non restare colpiti, per inciso, dall’empatia e discrezione dell’io poetico nei confronti del suo soggetto, il folle). Qui affollarlo include anagrammaticamente “folle”, e la stanza che è il suo corpo vuoto (tropo corpo-abitazione) è anticipata molti versi addietro da «la sua camera», con passaggio da esterno a interno, con l’abitante della stanza che diventa stanza egli stesso in un gioco di scatole cinesi. Insomma, due piccoli esempi per mostrare che il comporre anniniano regge e perfino esige un’analisi formalizzante. Allora è sincerissima Annino quando in una prosa altrove nel libro scrive «E io che amo la logica, ammetto che i muri saltino, pur di renderle omaggio» (p. 68). Questa ammissione intreccia l’adesione apollinea alla forma in Annino alla sua vocazione dionisiaca e dinamitarda che probabilmente emerge per prima o per unica a un occhio più sensoriale o disattento. Allora val la pena insistere sul controllo ferreo dei mezzi, questa volta in chiave strutturale e ritmica anziché semantica. Si prenda in considerazione il testo riportato sul retro di copertina, parte del bellissimo Ottetto per madre (pp. 78-82):
Senza pace, senza pena e senza girarmi
mai, pestando
non pepe o caffè ma gardenie, io amo
la mamma e i topi; li metto insieme chissà
perché. O ancora perché voler bene a quel
modo spezzato così in due, collo in giù,
polvere senza cerniere, bottone, qualcosa.
Si noti la voluta sintattica per cui l’enunciato principale («io amo | la mamma e i topi») viene posposto, e quindi caricato, dai sintagmi preposizionali e dalla proposizione gerundiva che lo precedono. E più ancora si noti come nel primo verso questi tre sintagmi avverbiali combinano ripetizione di una privazione (senza), aumento di devianza dalla norma dei sostantivi o verbi sostantivizzati che seguono (senza pace è cliché idiomatico, senza pena è cliché letterario, senza girarmi | mai è inatteso nel contesto) e appunto variabilità sintattica, dai più scontati sostantivi (entrambi bisillabi e allitteranti) al verbo sostantivato. Questa tripartizione del verso è poi ripresa e variata al verso 7 («polvere senza cerniere, bottone, qualcosa»), senza contare che cerniere è richiamato dal «modo spezzato così in due» e dall’allusione paronomastica a “cenere” (rafforzato da polvere, e dal tema mortuario dell’ottetto). Ritmicamente, spicca l’andamento trocaico dei vv. 2, 6 e 7 ma è possibile leggere trocaicamente anche i vv. 1 e 3, dando enfasi agli avverbi mai e non, secondo l’indicazione del forte enjambement che precede e specularmente richiamando le sillabe ossitone in fine verso (vv. 4, 5 e 6), in una versificazione spesso virile e fortemente chiaroscurale.
Volendo passare a una disanima più tematica del libro nel suo insieme, farò leva sui versi sopracitati per soffermarmi su un motivo cruciale – quello della scomposizione e deformazione del corpo. Impossibile figurarsi il corpo della madre qui, perché collo in giù (forse, permutazione o scrambling dell’idiomatico testa in giù) manca di ogni riferimento (in giù rispetto a cosa – collo rovesciato, sotto terra, o semplicemente reclinato?). Senza contare poi la lista di sineddochi che le appartengono ma che la nebulizzano e rendono inidentificabile (polvere, bottone, qualcosa). Altri esempi: «arti spropositati sotto stomaci grevi» (Abbecedario, p. 10), ancora figurativo ma già deformante; «mette sotto la schiena | le gambe» (Balbuzie, p. 23), postura degna di una contorsionista; «i fianchi sotto, sopra il torace, qualche villosità, | le natiche premono dietro, il piede destro | più corto» (Il dejà vu, la neo, neo…, p. 36), iperrealismo sordido e disorientamento causato dagli avverbi di luogo senza riferimenti spaziali condivisi; «poi le spalle di lei per il colpo | volano in su eterne» (L’amico della vecchia Casa Abbattuta, p. 43), forse memore del ritratto di Innocenzo X di Francis Bacon e del Vittorio Sereni di «non sa più nulla, è alto sulle ali»; «lei dilata | il viso fino a coprirlo» (Il cane sapiente, p. 49); «mento sopra i ginocchi» (Cattivo tempo, p. 58), dove lo straniamento è doppio – il cane soggetto della poesia è personificato (le giunture diventano ginocchi) e alle zampe anteriori, o eventualmente polsi su cui il cane può empiricamente poggiare il mento, si sostituiscono le ginocchia, ovvero le zampe posteriori. Annino ci dà lei stessa la chiave per interpretare questo assalto contro il senso comune: «né gli basti l’ubiquità che lo prende», dalla stessa poesia. In sostanza, gli esempi elencati (un censimento completo ne comprenderebbe di ulteriori) sono un tentativo di ampliare il reame delle possibilità – la scomposizione corporea non è tanto l’effetto di uno sguardo stralunato quanto il risultato di una consapevole esplorazione di come la nostra presenza anche fisica potrebbe essere illimitata, ubiqua, affermando la propria potenza. Il corpo è però anche – a differenza del suo abuso stilizzato in tanta poesia femminile, stigmatizzato da Matteo Marchesini qui – agente e indice di generosità: «a lei che darei | tutto il corpo per quella risata» (Ottetto per madre, p. 79). Infine, lo stesso titolo anatomie in fuga, benché posto in relazione – in epigrafe alla sezione omonima – con «personaggi in chiaroveggente fuga naturale dalla centralità sociale della storia» (p. 85), può riassumere uno studio prospettico e plastico, non lontano dalle Forme uniche della continuità nello spazio di Umberto Boccioni.
Ci sono motivi altrettanto pregnanti nel libro, e che come il sopracitato scavalcano la sua suddivisione in sezioni pressappoco tematiche (Area del disgusto, Allarme dell’artista, Alla bestia sono abituato, Virus amandi e Anatomie in fuga). Uno di questi è il motivo acquatico e anfibio, da cui discendono le figure dei pesci e dei nuotatori, nonché l’impressione di un mondo poetico “piratesco” (prima ho usato “dinamitardo” come altra caratterizzazione del rigoglio dionisiaco della poesia anniniana). Penso ovviamente a I nuotatori (p. 22), a mio avviso una delle massime riuscite di Annino. In questa poesia metapoetica, fondata sul tropo mare-scrittura già presente in Descent of Winter di William Carlos Williams («your writing are a sea | full of misspelling and | faulty sentences») e nel suo traduttore d’eccezione Vittorio Sereni, specialmente in Un posto di vacanza. Ma in Annino l’indirezione è maggiore rispetto alla metafora equativa di Williams, giacché «a macchina la calligrafica cala da gomma nera e la schiuma | sola lascia bene le rocce». Inoltre, in questa poesia ha luogo quello che Benjamin Hrushovski (1984: 36) chiama “evento figurativo” e che si realizza quando una metafora viene sviluppata letteralmente in un testo poetico, diventandone parte del mondo empirico (e non più ipotetico) ivi rappresentato[1]. Così i cani antropomorfizzati della poesia diventano metaforici («risalgono, per grazia di Dio, nella mia | testa, più in silenzio d’un nuotatore») ma poi ritornano a essere fisici («li copro in tutto con la persona»). Hrushovski analizza questa procedura in Eliot e soprattutto in Majakovsky, mettendone in luce la carica sovversiva e assurdista. Carica presente spesso e volentieri in Annino, ma che ne I nuotatori porta a un incedere più meditativo, che può persino permettersi quelle parole archetipiche sotto il cui peso soccombono poeti meno talentuosi: silenzio e luce:
Si fa così
ogni parola più del silenzio perché ancora torna
in su dal basso e taglia
come la luce senza nulla né bocca, l’acqua.
Val la pena a questo punto di offrire una campionatura di altre immagini marine o comunque liquide: il gatto Koko che iperbolicamente «corse come una nave, anzi | siluro nell’acqua» (L’Interna Creatura, p. 59); «io | salvo da nuotatore quella fronte» (La madre vedova, p. 67); «non lasciarci nuotare nel globo | acquoso con Archimede» (La divina qualità del cemento, p. 84), con ovvio riferimento alla spinta dinamica di Archimede; «un ovale | pezzo di pesce nella farina» (Pastore errante, p. 87); «dopo aver remato nel sonno» e «un mucchietto di pesci, | mare stretto, mucose e saliva» (Il rabbino, p. 109); e ancora «due mari strambi in tazzine» (A letto mise gli occhiali, p. 111), forse permutazione dell’espressione idiomatica annegare in un bicchiere d’acqua. Chi nuota o si muove nel fluido è quindi soccorritore o espressione di metamorfismo e vitalità non raggelate in forme fisse, o fuori luogo come un pesce nella farina o come la ràzza «dentro la cesta, fuori dal suo elemento» in Sereni (Un posto di vacanza). O come, si potrebbe continuare, l’albatro baudelairiano sul ponte della nave.
Leggermente diverso, ma altrettanto interessante, il fatto che il tropo acqua-tempo presente almeno già in William Blake («Time’s troubled fountains») e in Eugenio Montale («il tempo fatto acqua», Notizie dall’Amiata) sia scherzosamente rivitalizzato nella poesia senza titolo di p. 8: «Il tempo rieccolo | lavandaio, ammiraglio | con acqua sempre in mezzo a sé». Qui da un lato all’attitudine metaforica di Blake e Montale se ne sostituisce una metonimica (il tempo non è acqua, ma ne è circondato); dall’altro è possibile leggere questi versi come una critica indiretta del riuso di convenzioni poetiche – il tema metapoetico è fra l’altro esplicitamente esplorato almeno in Area del disgusto (p. 20) e in Torre d’avorio con orto (p. 28), che sembra alludere all’allegoria fortiniana sulla perdita del prestigio del poeta ne L’alloro. Al tono constatativo e austero di Fortini, Annino ne sostituisce però uno istrionico, con allocuzione iniziale («Davvero fosse facile, signori»), gerundi che sono «lunghi lombrichi» e un cozzo di registri forse tardo-montaliano («la sacra scrittura non molla»). Tutto questo per sottolineare come la scrittura di Annino sia lontana da uno spontaneismo ingenuo, ma al tempo stesso sia abbastanza forte da rendere quasi irriconoscibili i possibili influssi, fagocitandoli – nel doppio senso di assimilazione e di successiva eliminazione.
I versi finali da I nuotatori riportati più in alto rivelano il potenziale gnomico, talora aforistico, della poesia di Annino. Sono eruzioni improvvise di una saggezza mai ostentata, mai in odore di postura. Spiccatamente aforistico, e pervaso di leggerezza umoristica, è «la vita è in fondo un perenne colpo | di sfortuna alle banche» (Al piccolo ladro viene spiegato il senso comune della rettitudine, p. 14). Per inciso, la figura o maschera del ladro è altro motivo ricorrente («se voglio qualcosa, da quando | son nato, io la rubo», Dolcetto Scherzetto, p. 38; «di notte | fonda entrato da ladro», L’amico della vecchia Casa Abbattuta, p. 43). Di nuovo, in una vetta del libro leggiamo che «in fondo, | niente esiste che si ponga | davanti piatto, senza | sbalzi di luce» (L’amico del tavolo da caffè, p. 91), dove la sinuosità degli enjambement sembra iconicamente aderire agli sbalzi dei fenomeni del mondo, non diversamente dal valore prospettico e spaziale delle “anatomie in fuga” del titolo, di cui già ho parlato. In L’era del Catrame (p. 63): «la Storia s’è rotta oramai | sugli esseri umani; non incolla più | nessuno a un’altra persona», riflessione lucida sulla disgregazione dei legami sociali dopo l’utopia sessantottina, e forse rovesciamento di prospettiva rispetto al cinismo della montaliana La storia, da Satura («la storia è a corto | di notizie, non compie tutte le sue vendette»). In Concentrazione guardando Hopper (p. 12), si legge poi che il «silenzio è | l’udito maggiore», che sembra ossimorico ma che può in realtà essere ricondotto all’affinamento delle capacità di ascolto a opera del silenzio. La compressione del dettato poetico – grammaticalmente, una proposizione relazionale con copula equativa – trasforma però il silenzio da elemento ausiliare dell’ascolto a suo protagonista[2]. Il nesso poesia-ascolto è più esplicito in Maudit (p. 33): «l’annoia la gente che neanche | sente». Qui però l’ambiguità sintattica può screditare il poeta maledetto, perché se gente è (grammaticalmente) oggetto, allora l’insofferenza del poeta è frutto di pregiudizio, e quindi resistenza alla ricerca, allo scavo. Se invece interpretiamo gente come soggetto, allora il maudit sarà in cerca di anime affini, portate com’egli all’ascolto, anzi, al sentire, termine che ha più ampio spettro semantico coinvolgendo anche la sfera sensoriale.
Come si vede, questa saggezza non è altera, sia perché smussata da marche colloquiali (“in fondo”) sia perché parcamente disseminata nei testi, rifiutando di apparire in posizioni forti di incipit ed explicit. Annino insomma non concede alle sue sentenziosità uno status privilegiato, in grado di illuminare retroattivamente un dettato ostico. Al pari delle immagini e dei numerosi ritratti del libro, sono schegge che possono conficcarsi – sebbene in maniera diversa, più concettuale – nella sensibilità del lettore. Questa saggezza diventa forse più indifesa, confessionale, nelle bellissime prose. In una di queste, senza titolo, leggiamo che l’imbecillità «è lo stato originale prima dell’organizzazione» (p. 68), che nel contesto della prosa si richiama alla dicotomia – che Annino cerca comunque di armonizzare – tra la vitalità dionisiaca della madre e la propensione logica della figlia, senza la quale non si dà techné poetica. O ne Il tritacarne, prosa ancor più memorabile, Annino scrive che «l’origine dei nostri mali, per me, è la speranza che è cieca, mentre definiamo cieca la fortuna che invece è, al massimo, originale o sciocca» (p. 29). E poche frasi dopo, la speranza diventa «quel tipo di bellezza solo retorica che è il condizionale» (p. 29). E in effetti, non c’è speranza nella poesia di Annino: non c’è un vorrei, o un magari; c’è sempre la datità dell’indicativo, nella forma di un presente percettivo o di un passato remoto mitico, e c’è l’astoricità dell’infinito e del gerundio; c’è fede nel dato, nel mondo sensibile modellato dall’ascolto e dalla vista («Ma è il mio modo di guardare le cose, che conta», p. 69 – la prosa citata prima). Insomma, mentre il lirismo spesso crepuscolare delle nostre lettere immette qualche stilla di speranza (fino a che punto genuina e non portatrice di cattiva coscienza?) per compensare una malinconia di default, Annino trascende lo stesso dualismo in una contemporanea mancanza di speranza e di disperazione, nell’abbraccio vorace del sensibile e dell’immanente, nel rifiuto della nostalgia: caduti i miti, le utopie e le ideologie unificanti, Annino si crea i propri miti personali ma non privati (il gatto Koko, il cane dei miracoli…), sostituendoli alla religione e alla politica. Una sensibilità pagana, anti-cristiana, orientale (Lara e io prendiamo in considerazione il Nirvana, p. 74), ma anche forse debitrice di Nietzsche – affido ad altri, più filosoficamente inclini di me, il compito di interrogare tali interrelazioni o affinità.
A questo sostrato filosofico è forse possibile ascrivere le presenze tribali, il primitivismo fauve della poesia anniniana. Nella sezione Anatomie in fuga, la guida aborigena «legge | nella pozzanghera un concetto | di climi, una specie | di territorio» (The Tracker, p. 88). In Ciò ch’è umano danza su ciò che non è (p. 15), un indefinito lui «comincia da capo la sua | danza pelvica», «per primo vivendo le ere, la gravità». In Caos (p. 42), altra vetta del libro, c’è questa invocazione guerriera e sentenza filosofica: «io siedo al bordo dell’orecchio universale; dico | ‘biondo, marziale cieco cielo | dove il tempo è rotondo: la verità | è orrendo cannocchiale’» (allusione a Galileo Galilei?). Vengono in mente per la prima poesia i quadri di Matisse, per la seconda un titolo da Wallace Stevens, A Primitive Like an Orb. Altrove, leggiamo anche «questo | fumo sciamano mi conosce | i polmoni» (Metafisica, p. 39), dopo che «vedo | staccarsi dai miei polsi un’immagine». In Annino, come testimoniano i molti passaggi citati sin qui, convergono elementi surrealisti, argomentazioni filosofiche (non ho ancora accennato alle prosopopee che diventano personaggi del testo con cui l’autrice parla e si confronta), ritratti di persone, colloquialità espressiva e perfino residui dell’ermetismo, giusta l’origine toscana dell’autrice. Per esempio, metafora ermetizzante è il «catino del sonno» (Fessura d’ospedale, p. 95), al quale però – con riduzione ironica, gozzaniano-montaliana – si accede «col tubino di gomma nel naso». Oppure, il «ciclista montagnoso» (Abbecedario, p. 10) può richiamare alla mente il Luzi che scrive «montuoso esulta il capriolo» (Avorio, in Avvento Notturno). Non meno letterari sono alcuni perfetti endecasillabi a chiudere una unità sintattica di quattro versi («nella spinta del vento dove sta», p. 19, Ricordo terribile maglio). Questa mescolanza composita, questa apertura poundiana alla vita (Pound è citato in epigrafe e non solo, e insieme a Bach è una delle figure artistiche più omaggiate nel libro), si coagula in un monolinguismo granitico, sorvegliatissimo, quasi petrarchesco – benché molti e di molte provenienze siano gli ingredienti delle poesie di Annino, non c’è mai un cedimento all’informale, alla dispersione centrifuga, e mai serpeggia l’illusione che basti raccogliere i propri materiali con buona pace (e pigrizia) della mente artistica. E questo sia per la logica compositiva prima messa in rilievo e il verso sillabicamente tendente al canonico, sia perché ogni componimento aspira a una sintesi – la mente del demiurgo che lega – che si fa più agonistica quanto più cospicue sono le forze disgreganti, più apparentemente inconciliabili i vettori di forza di ogni singolo testo. Espansione e coagulo, mondo e psiche, plurilinguismo e monostilismo, Apollo e Dioniso, humour e senso tragico: Annino trascende questi dualismi interpretativi prendendosi tutto, rubando, come fanno i grandi poeti.