Quando nel 1947 un gruppo di scienziati creò l’orologio di Doomsday, con l’obiettivo di misurare scientificamente il tempo che ci separa dalla fine del mondo per cause umane, gli occhi, manco a dirlo, erano puntati su un conflitto atomico tra USA e URSS. Quell’anno, «l’orologio dell’Apocalisse» toccò le undici e cinquantotto: solo due minuti separavano il mondo dalla mezzanotte: l’ora della distruzione. Poi la Guerra Fredda finì, così negli anni Novanta nuovi calcoli portarono indietro le lancette di ben sette minuti. Fu un breve momento di sollievo, prima che la tempesta di dati sul riscaldamento globale facesse riprecipitare il countodown della distruzione che, in questo momento, segna le 23, 58 minuti e 20 secondi. Il punto di massimo avanzamento mai toccato dalle «lancette dell’Apocalisse». Un minuto e quaranta secondi alla fine.

Qualcosa sta davvero per succedere? Per qualcuno, no. È solo un sentimento diffuso, qualcosa di umano, troppo umano. Il bias più ingenuo di sempre: quella percezione del «dopo di me il diluvio!» che oggi risponde ai bisogni psicologici con cui il maschio bianco e occidentale cerca di riparare la ferita narcisistica di un mondo che sta per sfuggirgli di mano. Ma c’è chi è di tutt’altra opinione e indica allarmato l’evidenza dei dati scientifici: qualcosa sta davvero per succedere, se alle Isole Svalbard un’equipe di scienziati segnala che entro venticinque anni la temperatura al Polo si alzerà di otto gradi, che le terre, a quel punto non saranno in grado di rispondere ai bisogni di una popolazione che probabilmente si aggirerà intorno ai dieci miliardi. Allora le città si allagheranno e masse umane si sposteranno, affamate e impaurite. C’è poco da scherzare: tra un minuto e quaranta secondi tutto questo sarà reale, anzi: già lo è. E poi non è solo questione di cambiamento climatico. Gli stravolgimenti in corso sono tanti e crescono come un fiume in piena. Discipline diverse come genetica, robotica, tecnologie dell’informazione e nanotecnologia hanno intrecciato i loro raggi d’azione e da ormai qualche tempo stanno accumulando una quantità tale di cambiamenti che presto il balzo si farà qualitativo e darà consistenza ai concetti di “transumano” e “postumano”. Come scrisse Bruce Sterling nel 2012: «probabilmente gli sconvolgimenti della genetica fanno paura quanto essere spazzati via dalla bomba atomica». Se non finirà il mondo, probabilmente finiranno quel mondo e quell’uomo a cui siamo abituati. Quel che sopravvivrà sarà così diverso da noi che non saremo noi. 

Il tema è ovviamente sfuggevole e litigioso, ma senza dubbio delinea un sentore presente nei nostri giorni e ben registrato nel libro di Alberto Giuliani: Gli immortali. Storie dal mondo che verrà (Il Saggiatore, 2019). Un’opera che è un lucido inventario delle soluzioni con cui il presente si sta attrezzando ad affrontare qualche tipo di imprecisato, ma imminente, diluvio. Nulla di inventato, sia chiaro: tutto frutto di reportage giornalistici. Davvero la Nasa sta simulando la vita su Marte alle Hawaii, dove un astrobiologo spiega che il Pianeta Rosso è l’unica alternativa che abbiamo alla Terra, sulla quale «non potremo vivere a lungo». E sarà un salto assoluto visto che «su Marte arriveremo nudi come naufraghi, perché non potremo portare nulla di personale che non entri in un taschino. Ogni singolo grammo di materia dovrà viaggiare per 56 milioni di chilometri e costerà quasi duemila dollari farlo atterrare su Marte». Ma c’è anche chi ha progetti meno ambiziosi, come Robert Vicino: un imprenditore che sta creando città di bunker di lusso, organizzate per affrontare l’Apocalisse e già pronte ad accogliere le quasi cinquemila persone che li hanno acquistati. «La Terra», dice Vicino, «è un puntino nel mezzo di un poligono di tiro. Prima o poi qualcosa ci colpirà». Poi ci sono le tante arche moderne in cui altri uomini cercano altre forme di riparo al diluvio. Come i centri di crioconservazione umana di Phoenix e Detroit, dove le persone si fanno ibernare nell’attesa di essere risvegliate. Quando e da chi, non si sa. Dagli scienziati del futuro, nel mondo del futuro. D’altronde, come affermò il padre della crionica Robert Ettinger, «l’uomo è fatto di materiale scadente», ma i progressi della tecnica sono così veloci che l’invecchiamento e la morte presto saranno una malattia del passato. Si tratta di avere abbastanza soldi per mettere il proprio corpo al sicuro per qualche tempo. Si tratta di trovare un posto in cui passare la nottata.

I dati curiosi racchiusi in questi reportage sono tanti e verrebbe davvero da riportarli tutti. Gli immortali è una raccolta di fotografie così deformate che verrebbe da non credere che riguardino questo presente. Possibile, per esempio, che a Osaka il professor Iroshi Ishiguro si stia sottoponendo a interventi chirurgici per assomigliare al robot di sé stesso che aveva creato quando era giovane, ma che ora, mentre lui invecchia, gli sta fregando l’identità?

«Quando i suoi studenti iniziarono a confrontarlo con il suo Geminoid e a sottolineare che quello vero stava invecchiando (…) Ishiguro comprese che era lui a dover cambiare, non il suo gemello meccanico».

Non avrebbe senso, qui, tirare le somme morali e filosofiche del presente/futuro disegnato da questi reportage, ma si può certamente dire, visto che lo sottolinea a più riprese Giuliani stesso, che ognuna delle proposte di “alternativa alla fine” resta insoddisfacente, almeno per chi si aspetta un futuro capace di accogliere ciò che confusamente chiamiamo “umano”. Ci arriveremo nudi come naufraghi: l’avevano detto gli astrobiologi della Nasa nel primo reportage del libro, ma alla fine la metafora si chiarisce come più cruda nelle parole del professor Ishiguro: «l’empatia è ostile al cambiamento».

L’empatia. Ecco cosa non manca agli Immortali di Giuliani. Perché se il libro è una raccolta di reportage, scritti tra l’altro da un fotografo, il filo che li lega è comunque narrativo e si avvale di un punto di vista affettivo e personale. Gli immortali ha l’impianto di un libro di viaggio, la cui spinta alla partenza è una questione privata che Giuliani deve sbrogliare da solo e alla svelta, visto che, sul piatto, c’è niente di meno che la sua pelle. Tutto iniziò nel 1999, quando un bramino profetizzò la sua morte entro i quarantacinque anni. Una previsione che l’autore non aveva preso molto sul serio. In parte perché a vent’anni nessuno crede alla propria morte, in parte perché quella profezia era stata accompagnata da un’altra: una palese cantonata dell’indovino, il quale aveva previsto, a torto, che Giuliani avrebbe avuto un figlio con una donna conosciuta sin dall’infanzia. Peccato che vent’anni dopo, sfogliando alcune vecchie foto delle vacanze, l’adulto Giuliani non abbia visto la faccia della sua compagna, ancora bambina, proprio accanto a lui, nel 1984 a una premiazione a Livigno. Un’epifania che ha di colpo acceso il suo orologio di Doomsday interiore piazzando le lancette a pochi minuti dalla fine di tutto. Il suo lavoro, suo figlio, la sua vita: qualcosa stava per succedere, forse la fine, e a Giuliani non restò che aggrapparsi alle parole del bramino: quel giorno «un uomo del futuro ti indicherà il giusto cammino». Quella degli Immortali è una scrittura misurata, da reportage di viaggio, resa letteraria più dal filtro emotivo che dallo stile e dalla trama. Qualcosa gli sta per succedere. Il futuro che l’autore registra non è oggetto di curiosità giornalistica, ma pellegrinaggio reale, viaggio alla ricerca della sopravvivenza.

Se Giuliani prima di essere narratore è fotografo professionista, è in effetti nelle descrizioni che il libro dà il meglio. La sua penna è una macchina fotografica che vede i dettagli giusti e li mette nel giusto ordine per creare immagini chiare e capaci di raccontare i diversi scenari che incontra (e il libro è comunque accompagnato da foto vere). I capitoli funzionano, anche come diapositive senza continuità perché sono forti le scene che registrano e forte il tono emotivo creato dalla cornice del bramino. Al contrario, laddove si coglie lo sforzo di creare un plot che guidi il passaggio tra la chiusura di un reportage e l’apertura di un altro, il montaggio risulta leggermente più fragile, seppur non compromettente nella struttura complessiva dell’opera. È quel punto di vista motivato e coinvolto che crea la trama e le dà continuità. Davvero non serve altro. Opera di non-fiction? Reportage di viaggio? Diario personale? Gli immortali è certamente più cose e questa caratteristica, che per alcuni potrebbe rappresentare un punto debole, almeno secondo il parere di chi scrive è uno dei grandi motivi di interesse di questo testo che sguscia liberamente tra le maglie della scrittura di mestiere, ma che dichiarando infedeltà ai canoni di genere riesce a riallacciare la scrittura alle motivazioni della curiosità e della ricerca personale, imprevedibile e priva di certezze.


Alberto Giuliani, Gli immortali. Storie dal mondo che verrà, il Saggiatore, Milano 2019, 208 pp. 19,00€