Negli ultimi quarant’anni, gli studi culturali e di genere hanno letteralmente salvato la grande narrativa criminale, trasformandola da paccottiglia per appassionati della spazzatura in straordinario e privilegiato oggetto di analisi sociale, politica e delle dinamiche di potere. Purtroppo, però, tanta letteratura critica è stata spesso incapace di dirci perché un autore popolare vada necessariamente letto. Il lettore ordinario reagisce tiepidamente a testi accademici che nell’esaminare specifiche tematiche fondamentali (genere, classe, razza) deliberatamente oscurano il talento narrativo e la brillantezza della prosa di certi meravigliosi artisti, trascurando in questo modo uno dei compiti centrali del critico, quello di stimolare la scoperta (o riscoperta) di un’opera o del suo autore. Particolarmente in un mondo come quello anglosassone, dove essere iconoclasti e giudicare un prodotto culturale dal punto di vista estetico è punibile per legge, è inevitabile che a rimetterci sia talvolta il piacere stesso della lettura.

È per questo, io credo, che Herbert Lieberman sia virtualmente assente da qualunque “storia” della letteratura criminale e debba essere letto, assaporato nella sua cruda ruvidezza e solo in un secondo momento scandagliato mediante gli strumenti della critica letteraria. C’è qualcosa di straordinariamente magnetico e morbosamente affascinante nell’opera pur altalenante e a volte problematica dello scrittore americano, che dopo aver ottenuto una certa fama tra gli anni Settanta e Ottanta – nel 1977 vinse il prestigioso Grand Prix de Littérature Policière con City of the Dead (Città di morti, 1976) – è letteralmente caduto nell’anonimato. minimum fax ha giustamente recuperato alcuni dei suoi lavori più significativi, e con questo Caccia alle ombre, pubblicato originariamente nel 1989 come Shadow Dancers, chiude la trilogia iniziata con City of the Dead e continuata con Nightbloom (Il fiore della notte, 1984).

Se Lieberman è rimasto vittima di quel fenomeno che Franco Moretti chiama «the slaughterhouse of literature» non è certo perché, come sostengono alcuni, l’autore nato a New Rochelle, nello stato di New York, nel 1933 fossein anticipo sui tempi”. Semmai possiamo dire l’opposto, giacché la tradizione iconografica all’interno della quale Lieberman si inserisce è quella radicata, riconoscibile e scintillante del noir americano, che emerge nei dime novels del secondo Ottocento, prende forma, al crocevia tra letteratura e cinema, nel periodo a cavallo delle due guerre mondiali e subisce un definitivo processo di cristallizzazione negli anni Settanta e Ottanta. Cupa, nichilista e violenta, la narrativa di Lieberman ha al centro la psicosi del soggetto postmoderno, che qui assume le sembianze schizofreniche del serial killer affetto da insondabili forme di follia. In Caccia alle ombre, infatti, il tenente Frank Mooney, stanco e prossimo alla pensione, è alla caccia di un omicida seriale e stupratore che la stampa newyorkese ha soprannominato “Il Danzatore”. Le cose, però, si complicano quando Mooney, avvicendato nelle indagini dall’intero corpo di polizia e da Paul Konig, l’anatomopatologo protagonista di City of the Dead, comincia a sospettare che il Danzatore abbia un’ombra, una sorta di imitatore che ne riproduce con precisione quasi millimetrica i delitti.

Sin dall’inizio, il romanzo alterna con tono irrequieto e irregolare le prospettive di diversi personaggi – gli assassini, i poliziotti, i medici, le vittime – secondo un oliato meccanismo da thriller psicologico che scaraventa il lettore senza preavviso all’interno di un mondo volutamente caotico e goticheggiante, dove persino il paesaggio newyorkese perde di consistenza e si sfalda sotto i colpi di pennello dello scrittore americano, il quale ha il potere di rendere estranea e disordinata persino un’ambientazione così iconica. C’è un piacevole lirismo in certe descrizioni – «erano da poco passate le cinque del mattino ed era ancora buio, quel genere di buio che inizia a cedere il posto alle prime, timide, sfumature grigie dell’alba. Un misto di pioggia e nevischio cadeva obliquo sulla campagna ghiacciata e silenziosa, producendo un debole sibilo» (p. 353) – che si scontra con l’atmosfera squallida, puzzolente e incancrenita che domina tutto il romanzo, sia nei passaggi metropolitani che in quelli ambientati in interni (le scene nell’obitorio, ad esempio, sono di straordinaria vividezza).

Caccia alle ombre è un romanzo viscerale, emotivo, frastagliato, ma anche perfettamente congegnato. Lieberman conosce i meccanismi della tensione e sa bene come tenere i suoi lettori attaccati alla sedia per ben 515 pagine, gestendo il ritmo e manipolando gli snodi narrativi. L’americano è abile seduttore e mostra la sua profonda conoscenza della componente medica del crimine. In un universo dove il DNA è ancora sconosciuto, l’autore si focalizza sulle tracce fisiche visibili lasciate sulle scene dei delitti (grafia, impronte, sangue e altri liquidi corporei), che danno al romanzo un sapore squisitamente contemporaneo e lasciano intravedere più di una diretta influenza su Patricia Cornwell, che esordirà esattamente l’anno successivo. Per quanto gran parte dei personaggi non sia particolarmente memorabile, Mooney è indimenticabile e umanissimo nel suo essere – inconsapevolmente – di una inettitudine sconcertante. Testardo, scontroso, unico passatempo i cavalli (passione che condivide con la moglie proprietaria di un bar, il che lascia più di un sospetto che Lieberman sia un fan di Febbre da cavallo di Steno), Mooney dirige un’investigazione lunghissima (ben due anni), scandita da qualche successo ma anche da innumerevoli errori di valutazione (non solamente suoi, a dir la verità) e deduzioni sconclusionate. La lentezza del suo cervello non blocca di certo l’azione romanzesca, che invece si muove rapida fino al colpo di scena finale, che Lieberman prepara con cura e pazienza da artigiano vero. La conclusione, per quanto possa sorprendere alcuni lettori per la sua straniante e forse stonata nota dolceamara, è invece in perfetta armonia con l’anti-eroismo del suo protagonista: fiacca, amara e ripiegata su se stessa.

Al netto dei meriti, Caccia alle ombre rimane tuttavia un testo complicato, che va letto nonostante (o forse anche per) le sue mancanze e le sue difficoltà. Se un certo compiacimento nella rappresentazione della violenza è uno dei grandi limiti endemici del noir americano (si veda Spillane), in questo frangente l’enfatico dilungarsi nelle scene di violenza sessuale è non solo gratuito e fine a se stesso ma anche esasperato ed esasperante («Arlette non era particolarmente pudica. Poteva tollerare la brutalità di quelle mani e la serie ininterrotta di oscenità che uscivano dalla bocca dell’aggressore. Ma la distruzione del suo bellissimo vestito […] era troppo anche per lei», p. 412). Il grande problema, a mio avviso, è che le ragioni che si nascondono dietro queste esplosioni di violenza fisica (lo stupro, il cannibalismo) restano sostanzialmente inspiegate. Diverse vaghe ipotesi si accumulano nel corso della narrazione – una «forma avanzata di idiozia sapiente» (p. 49), una «predisposizione alla follia» (p. 155) oppure una “forma di autismo” (p. 461) forse dovuta alla temporanea mancanza di ossigeno durante il parto che ha arrestato lo sviluppo della parte del cervello dedicata alle funzioni cognitive (p. 166) – ma nulla che giustifichi e spieghi la brutalità degli omicidi e la loro primaria dimensione sessuale. L’analisi psicologica del criminale, che conosciamo immediatamente e nella cui mente labirintica e perversa spesso ci immergiamo, è condotta con una superficialità e un’approssimazione che lasciano un sapore d’irrisolto. Lieberman flirta con le origini del male («compio il volere di Dio», ci dice il killer a un certo punto, p. 88), ma sembra rifiutare di sporcarsi davvero le mani e venire a patti con le proprie paure e i propri orrori. Caccia alle ombre è un romanzo crudo e complesso che disturba ma non sfonda: invece di essere paralizzati dal terrore a volte rischiamo di venire intellettualmente nauseati dall’eccesso.


Herbert Lieberman, Caccia alle ombre, tr. it. di R. Vitangeli, minimum fax, Roma 2020, 515 pp., € 20,00.