«Viveva un tempo nella città di Lopezia un artefice di grandissimo ingegno, donde la fama oltre le mura della città ed i confini medesimi del Principato volava tanto che nei più remoti angoli della Cristianità l’eco se ne coglieva». Inizia così L’imitazion del vero di Ezio Sinigaglia (TerraRossa 2020), con una lingua inventata che si attorciglia su una città di fantasia, Lopezia, in un tempo non ben definito. Pochissime coordinate, eppure la macchina della finzione è da subito attiva, e il lettore sembra già in grado di percepire il sapore di un’ambientazione trecentesca o rinascimentale, e di un genere letterario vicino alla novella boccaccesca. Un riecheggiamento che penetra come un cavallo di Troia nella memoria di chi legge, e che nasconde al suo interno, invece, la freschezza di uno sperimentalismo autonomo e sfrontato.
Il racconto, completato dall’autore verso la fine degli anni ’80, è un gioioso studio sul rapporto tra inganno e verità, circoscritto nel campo gravitazionale di due grandi poli di attrazione, l’eros e il linguaggio. La narrazione si appoggia a pochissimi personaggi e a un’ambientazione abbastanza unitaria, ricostruita con rari ma corposi elementi per creare suggestione. Da sfondo, Lopezia «coi suoi carri e coi suoi frastuoni», la cantina e il lume delle candele, la bottega, San Luca e la stradina fra i campi. A creare densità, gli inganni e le menzogne, il costante mutarsi della verità quando è costretta a interagire, a esporsi al giudizio degli uomini. All’interno di questo scenario appare fin da subito Mastro Landone, «artefice di grandissimo ingegno», un falegname talentuoso, capace di plasmare con la sua arte marchingegni quasi divini, «gigante dalla barba d’oro», «uomo di bellissimo aspetto», «alto, forte e imponente». Mastro Landone è arso da un desiderio proibito, il suo corpo trema alla visione di fanciulli e giovinetti. Un’inclinazione in armonia con la natura, dal momento in cui è parte di essa, ma in contrapposizione con la legge di Lopezia, la quale vede nella sodomia una colpa, e dunque un reato. Così Mastro Landone si mimetizza in un canone che non gli appartiene, aderendo a una prima forma di inganno, la dissimulazione. Fino all’arrivo di Nerino. Da Napoli, infatti, giunge un nuovo garzone per apprendere il mestiere dal gigante biondo, «un giovinetto, nero d’occhi e di pelo com’un saraceno, e di sorriso invece bianchissimo». Da qui, l’innesco di una trama di sotterfugi tutti volti al raggiungimento del piacere, per aggirare una legge a sua volta artificiosa e arbitraria. Mastro Landone, attratto da un Nerino ancora ingenuo, cerca di avvicinarlo attraverso svariati stratagemmi. I due, conoscitori di una parte della verità, rivestono in maniera altalenante il ruolo dell’ingannatore e dell’ingannato, in un ventaglio di punti di vista che a volte li rende allo stesso tempo ingannatori ai danni dell’altro e ingannati nei confronti di se stessi.
La narrazione, in questo modo, accoglie le finzioni che, lungi dall’essere legacci di nascondimento del vero, diventano meccanismi di rivelazione inattesi, puntelli comici in grado di far vacillare le dicotomie prestabilite per farle saltare in aria, sprigionando tutta l’energia di una natura polimorfa, e vera nella sua mutevolezza. In questo senso Sinigaglia sfrutta gli stilemi dello stilnovismo per un ribaltamento parodico: non più la donna dalla pelle candida e dai capelli biondi, ma un ragazzo dai colori scuri; non più un innalzamento a Dio tramite la donna angelicata, ma una passione omoerotica in un corteggiamento incalzato dal pungolo della malizia. L’incedere dell’oggetto d’amore, gli occhi e la capigliatura, tipici di una certa tradizione letteraria, vengono rovesciati nei loro opposti, ma non nei loro contraddittori:
Era colui un giovinetto, nero d’occhi e di pelo com’un saraceno, e di sorriso invece bianchissimo, talché, nel contrasto, più bianca ancora la parte bianca appariva, e più nera la nera. E ciò non pertanto non si facevano quei due contrarii colori dentro il corpo del fanciullo guerra nessuna ma, siccome è virtù della Natura nelle sue prove meglio perfette, la luce dei denti coll’ombra degli occhi mirabilmente si fondeva in un amoroso abbraccio donde l’incanto della pelle nasceva. Ché scura era la sua tinta, che dal nero degli oggi sembrava prender la forza, e chiaro il suo riflesso, che dal biancheggiar del riso il nutrimento traeva, sì che, nel sol di marzo, egli siccome un fanciullo di bronzo e d’oro rifulgeva.
Così, il bianco e il nero si fanno forza, alimentano nel controcanto la loro ragion d’essere, si riappacificano nell’abbraccio di un tutto cangiante. Un passo in cui Sinigaglia, probabilmente, non si limita a contornare la figura di Nerino, ma proclama una coraggiosa dichiarazione di poetica. Il mondo costruito dall’artigiano Sinigaglia è retto dalle tensioni interne tra poli opposti, montato sulla faticosa interazione tra verità e finzione, natura e artificio, un’interazione che va accolta dal momento stesso in cui esiste. Si tratta di un mondo allontanato dalla lingua arcaicizzante e dall’ambientazione rinascimentale, ma la cui impalcatura tematica trafigge una contemporaneità pulsante. Il libro, come già ricordato, è stato ultimato verso la fine degli anni ’80, anni in cui il contrasto tra legge e natura era nient’affatto pacifico, e in cui l’affermazione della propria omosessualità diventava atto politico e non semplice “stato naturale delle cose”. E allora la necessaria e smagata convivenza degli opposti assume tutt’altro significato, sussunta in istanze di rivendicazione ben precise: «Non è vero dunque quel ch’il mondo crede, che vi siano un amor sacro ed un profano! Oh vedi dunque com’ha fatto Iddio di mettere in ciascuna forma d’amor la Sua luce!». Gli inganni, in questo caso, diventano meccanismi di scardinamento dell’inerzia coatta, fanno saltare una legge altrettanto artificiosa che, una volta detonata, permette l’emersione libera di esigenze naturali. Così, anche «l’imitazion del vero» si ribalta nel suo contrario, rifiuta di identificarsi definitivamente nel falso, per scegliere di diventare un momento della verità. Infatti, senza i reciproci inganni mossi dal desiderio naturale, i due personaggi non si sarebbero inoltrati in un percorso di formazione, e quindi di trasformazione: Nerino sarebbe rimasto un garzone intrappolato in un cieco onanismo, e Landone un maestro accondiscendente. L’inganno, l’artificio, possono essere intesi, invece, come eccedenze, in un processo di falsificazione tendente alla verità e, anzi, capace di modificare la verità stessa.
Il contagio tra i due poli, il carnevalesco ribaltamento di prospettive, appare sempre all’improvviso, nella penombra di un atto voyeuristico, quando uno dei due protagonisti, osservando di sbieco, si accorge dell’inganno. E questo avviene, in senso metaforico, anche nell’incontro tra personaggi. Sinigaglia declina con sapienza l’intero studio sulla finzione, arrivando a scandagliare anche la parola, la menzogna. Così il mondo del fittizio si inscrive anche nel teatro delle interazioni, le cui sottili mutazioni psicologiche vengono illustrate con malizia, gustate in tutti i loro riflessi. Anche in questo caso, verità e finzione coabitano nella psiche, sorrette da un giustificarsi reciproco, come la vita per la morte, e nuovamente l’ironia bonaria accoglie con vitalità la rottura di ogni barriera autoimposta:
Si che, a paragon dei teatri, essi s’erano scambiati positura […]. Sì che le parole di Nerino con grandissima forza di verità per gli orecchi e per gli occhi di Petruzzo dentro il tumulto del suo sentimento discesero mentre che, com’in ogni teatro, ess’eran fatte d’una pasta nella quale il vero col falso sapientemente si mescolava. […] Al teatro di Nerino, com’appunto ad una commedia che l’animo suo alquanto più della vita stessa commoveva, il cuore di Petruzzo aveva preso a batter sì forte ch’egli d’aver inghiottito tutto vivo un coniglio si figurava.
Si arriva così al grande protagonista del racconto, il linguaggio. Sinigaglia ha giocato a fare il prestigiatore, ha creato la suggestione di una lingua arcaicizzante, addirittura di una certa tradizione letteraria, senza però materializzarla in un calco pedissequo. Quella dell’Imitazion del vero è piuttosto una lingua tutta personale, organica e polimorfa, ideata per l’occasione, al pari di quella di Manzoni dei Promessi sposi o di quella di Gadda in Eros e Priapo. Ciò che viene declamato, e a cui si crede incondizionatamente (ingannandosi), è un italiano fintamente antico, «d’una pasta nella quale il vero col falso sapientemente si mescolava». A inchiodare il lessico nel passato è solo qualche termine arcaico: reliquie sparse per donare l’impressione di un’imitazione del vero, ma che nascondono «un italiano clandestinamente mio e solo mio». Tuttavia il vero trucco del prestigiatore Sinigaglia risiede nella prosodia, in un ritmo di scrittura con il quale sussurra all’orecchio del lettore il ricordo di melodie scomparse. Sotto il vezzo di un sostrato arcaicizzante, sotto l’illusorietà di un’imitazione boccaccesca, batte una lingua viva e privata. Proprio come Mastro Landone, l’autore usa la scorza della tradizione in qualità di involucro nel quale nascondere la propria prosa, un cavallo di Troia fatto, ancora una volta, di artificio e materia viva, finzione e verità. E allora, nell’ambito dello studio metaletterario portato avanti da Sinigaglia, forse Boccaccio non è più da rintracciare nel linguaggio, né nelle strutture narrative, ma nel ruolo della scrittura, teorizzato nelle Genealogie: una scrittura che accetta e riconosce la propria finzionalità, in grado di spostare sul testo il discorso sul rapporto tra verità e finzione, attraverso la creazione di una realtà autonoma. Per Sinigaglia anche nella prosa l’inganno diventa un momento del vero. E forse il seguente giudizio del critico Giancarlo Mazzacurati su una pagina del Decameron può strisciare nella storia fino a Sinigaglia, prestigiatore ed artigiano, linguista e ideatore di mondi: il primato a cui aspira il racconto novellistico «non può essere quello della verità, ma quello della scrittura, dei suoi artifizi e delle sue trame verbali: una verità della fictio, dell’autonomo lavoro con cui l’artefice costruisce le sue forme». In questo senso Sinigaglia celebra la sua conciliazione degli opposti, la sua «verità della fictio», nella forma di una lingua inventata che, con il suo armonico incedere, inganna il lettore mentre plasma un mondo che la rappresenti, un elegante saluto al collasso delle dicotomie.
Ezio Sinigaglia, L’imitazion del vero, TerraRossa, Bari 2020, 106 pp., € 14,00.