«Ma vi dico che tutte queste cose… sì, dalla stella che abbiamo appena visto apparire in cielo fino alla terra solida sotto i nostri piedi… vi dico che questi non sono altro che sogni, ombre; sono le ombre che nascondono il mondo reale ai nostri occhi.» (Il grande dio Pan, 1894)

Perdersi in un altro quartiere, lungo un’altra strada o in un’altra piazza, fermarsi e perdersi ancora, e indugiare, poi, al suono di passi che si avvicinano in fretta: è soltanto l’irrompere della squallida, agitata vita cittadina, o in quell’incontro imminente e inatteso si nasconde qualcosa di più? Per Arthur Machen la risposta poteva essere soltanto una: ogni episodio improvviso generato dal caos della metropoli può recare con sé rivelazioni occulte e insieme radiose, esplosioni di senso evanescenti e inquietanti, come ben si vede in I tre impostori(The Three Impostors, 1895), ripubblicato quest’anno da Fanucci con traduzione di Roberta Rambelli e introduzione di Carlo Pagetti.

Machen (1863-1947), al secolo Arthur Llewelyn Jones, è uno dei più influenti autori di letteratura del soprannaturale e del mistero, definito da H. P. Lovecraft come uno dei massimi creatori di «terrore cosmico». Di origine gallese, molto attivo nel campo giornalistico (sua l’invenzione degli «Angeli di Mons», che avrebbero coperto la ritirata dell’esercito britannico da Mons nel 1914), Machen fu un osservatore attento della società britannica tra Ottocento e Novecento, e descrisse gli aspetti più nascosti della vita quotidiana nelle grandi metropoli d’Inghilterra.

In effetti, la Londra di Machen possiede un proprio fascino esoterico, ed è il teatro perfetto – forse l’unico – per un’avventura di inganni, terrori e bugie come quella di I tre impostori. Tutto inizia con un episodio casuale: Dyson, flâneur con vaghe passioni letterarie, entra in possesso di un’antica moneta, il «Tiberio d’oro», gettata via da un uomo inseguito tra i vicoli londinesi. Da quel momento, tanto Dyson quanto il suo amico Phillips entrano in contatto con individui misteriosi, in incontri fortuiti – per strada, in piazza, nelle taverne – che si risolvono immancabilmente in racconti dai toni bizzarri e inquietanti, spesso contaminati dal soprannaturale, con titoli evocativi quali Storia della valle oscura, la Storia del sigillo nero, la Storia della vergine di Norimberga e così via. Le storie, autoconclusive, non hanno rapporti di interdipendenza tra di loro (tanto che Machen, dopo I tre impostori, poté pubblicarne alcune singolarmente) e sono legate soltanto dalla cornice esterna e al ruolo di Dyson, Phillips e dei vari narratori, sullo sfondo di una Londra cangiante e mutevole.

Lungi però dall’essere una semplice antologia corredata di una cornice narrativa, I tre impostori conduce il lettore attraverso delle vere e proprie trasmutazioni (e «The Transmutations» è proprio il sottotitolo del testo, talvolta omesso in alcune edizioni), portando infine ad una conclusione – già anticipata dal flash forward con cui si apre il libro – che raccoglie i particolari misteriosi frammentati nelle varie narrazioni, concentrandoli in un’impressione finale sapientemente caricata come un meccanismo a molla nel quale ogni esitazione, ogni non detto, ha l’effetto di un ennesimo giro di chiave.

Proprio l’esitazione, la ritrosia a raccontare dettagliatamente il palesarsi dell’impossibile, è ciò che regge lo stile dell’inquietante di Machen. Distante dal pericolo di risolvere l’orrore in un semplice fatto «indescrivibile» (come pure accadde e accade agli epigoni di Lovecraft), il discorso di Machen gioca agevolmente sul non detto, accumulando una serie di dettagli che permettono di intuire la grandezza delle forze in gioco, la loro potenza e la loro turpitudine, scendendo a volte anche nel particolare grottesco (come accade nella Storia del sigillo nero e nella Storia della polvere bianca) ma senza mai indugiare troppo sull’aspetto concreto. Per un intellettuale così anti-materialista e così attento a sottolineare la portata trascendente – se non spirituale – di ogni manifestazione terrena, il soprannaturale stesso non può risolversi nella semplice e precisa apparizione del mostro, della divinità o del demoniaco: ammettere «che la carne umana possa, di tanto in tanto, magari una volta su dieci milioni di casi, fungere da velo a poteri che a noi appaiono magici» (p. 105) non equivale a trascinare il metafisico sul piano materiale e scientifico (come, per contrasto, accade in alcuni racconti di Lovecraft), ma piuttosto a fare l’esatto contrario, a tradurre le ossa, i muscoli e la polvere in un simbolo, in un geroglifico il cui significato rimanda a pagine oscure e perdute. E per quanto Machen non fosse estraneo agli ambienti esoterici fin de siècle (è nota la sua adesione alla Golden Dawn di Crowley), la sua totale avversione verso alcuni fenomeni sociali dell’epoca, come l’interesse per la telepatia, «i mesmerismi, gli spiritismi, le materializzazioni, le teosofie, le varie imposture, con il loro macchinario di trucchi meschini e di insulse evocazioni» (p. 163) ci dice molto sulla sua idea di soprannaturale letterario: il mistero elude sia ciò che è esclusivamente materiale sia ciò che è esclusivamente trascendente, e il fatto che nella narrativa soprannaturale a lui coeva, «per credere, dobbiamo collegare i nostri racconti meravigliosi a un fatto, a un fondamento, o a un metodo scientifico o pseudoscientifico» (come ebbe a scrivere all’editore John Lane nel 1894, in una lettera citata nell’introduzione di Pagetti), significava una sconfitta della letteratura, a cui lui tentò polemicamente di opporsi.

Non per nulla I tre impostori è pervaso da una polemica contro il realismo letterario di fine Ottocento, incarnato soprattutto dal personaggio di Russell, uno scrittore di belle speranze e poca vitalità, cupo e riservato proprio perché realista. La critica a realismo e naturalismo viene condotta con uno spirito allegro e sarcastico, e il povero Russell ci viene presentato come un individuo tormentato dalle proprie idee, frustrato nelle aspirazioni letterarie proprio a causa della sua stessa idea di letteratura: non si può scrivere l’opera della vita, i volumi ben rilegati «in solida pergamena, a lettere d’oro», «l’unica copertina adatta per un libro di valore» (p. 144), se la materia scelta è tale da impedire qualsiasi gloria, troppo bassa e dimessa per poter aspirare alle vette dell’arte. E di Russell, talmente immerso nel reale da restarvi intrappolato dentro, non si può che dire che «non è timido, è un realista. E forse lei saprà che neppure un monaco trappista può eludere l’isolamento claustrale di cui un romanziere realista ama circondarsi. È il suo modo di osservare la natura umana» (p. 146).

Ma attenzione: non è che a Machen non interessi «la storia di una strada» in quanto tale, delle singole case che sono un «simbolo, una via dolorosa di speranze nutrite e deluse, di anni di esistenza monotona senza gioie e senza dolori, di tragedie e di angosce oscure» (p. 144). Lo scrittore di Caerleon condanna piuttosto lo sguardo che si concentri soltanto sull’immediatezza e sulla superficialità, in una lettura del realismo letterario che, per quanto probabilmente inclemente, respinge ogni interpretazione del mondo che non tenga conto del valore simbolico insito nella materia. 

Citando le trasmutazioni del sottotitolo, l’introduzione di Pagetti allude proprio alle fasi simboliche – quasi allegoriche – attraverso le quali passano i protagonisti della vicenda: girovagare per una Londra labirintica e inquieta significa temprare il proprio intelletto e il proprio spirito, riforgiarli in gironi ora infernali e ora paradisiaci, in grado di rivelare al passante delle piccole oasi di tranquillità, giardini ombrosi e profumati, rinfrescati da antiche fontane, e subito dopo angoscianti quartieri deserti, frammentati tra edifici ancora in costruzione e architetture improvvisate che sembrano sull’orlo di rievocare sulla terra orrori del passato. Per Machen, autore di The London Adventure; or, The Art of Wandering (1925), scorrere attraverso la città significa sottoporsi a una reazione alchemica, intravedere una parte della storia segreta che pervade il mondo, e al contempo correggere il proprio sguardo: raccontarlo significa anche decifrarlo, trarne un senso, una gloria segreta che emerge dal passato per dettare il futuro.

La tradizione è effettivamente alla base della narrativa soprannaturale di Machen. Ne I tre impostori, gli orrori che minacciano i protagonisti (o i personaggi delle loro storie) sono partoriti direttamente dalle leggende e dal folklore, dai racconti sul «piccolo popolo» che abita le antiche terre dell’Inghilterra, un insieme di fate, folletti e gnomi sempre pronto a scambi – volontari o meno – con gli esseri umani. Ma i racconti ascoltati da Dyson e Phillips non sono effettivamente popolati da piccoli esseri magici; a infestare la narrazione è piuttosto la loro eco, le idee a cui le loro figure alludono, il timore per ciò che è stato camuffato con la confortante idea di esseri soprannaturali imprevedibili ma potenzialmente benigni:

Così come i nostri antenati avevano chiamato ‘fatati’ e ‘buoni’ gli esseri terribili perché li temevano, li avevano anche rivestiti di forme affascinanti, ben sapendo che la verità era assai diversa. Anche la letteratura si era messa presto all’opera, e aveva contribuito notevolmente alla trasformazione, così che gli scherzosi elfi di Shakespeare sono già lontanissimi dagli originali, e il vero orrore è mutato in una forma di giocosa malizia. Ma nei racconti più antichi, nelle storie che spingevano gli uomini a farsi il segno della croce quando sedevano attorno al focolare, ci troviamo su un terreno ben diverso: vedevo uno spirito del tutto opposto in certe vicende di bambini, di uomini e donne scomparsi stranamente dalla terra (p. 104).

Dalle storie del passato, raccontate a bassa voce attorno al fuoco, giunge gorgogliando il sentore di qualcosa di sepolto, di inafferrabile ma non davvero sconosciuto, un unheimlich che parla ai nostri ricordi ancestrali e alla nostra carne, manifesto nell’ibridità mostruosa di Cradock, il ragazzo accolto in casa dal professor Gregg in Storia del sigillo nero (una natura ambigua che non può non ricordare quella semidivina di Helen Vaughan in Il grande dio Pan) o nella ripugnante perdizione di Francis in Storia della polvere bianca.

Certo, Machen non risparmia i rimandi più o meno impliciti alla letteratura di genere coeva, e leggendo I tre impostori è impossibile non pensare a Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mister Hyde (nominato anche nella lettera a John Lane citata più sopra) o alle suggestioni orientaleggianti di alcune storie di Conan Doyle (ad esempio, Il guardiano del Louvre, 1890, e La mummia, 1892); e sempre in questo senso vanno contestualizzati i personaggi ambigui e loschi che ne I tre impostori fuggono, indagano e inseguono, con un’intera rete di agenti segreti e criminali dedita alla ricerca di tesori perduti – come il «Tiberio d’oro» trovato da Dyson – il cui valore è proporzionale al legame con eventi infausti e perniciosi. Machen sembra talvolta divertirsi con gli stessi cliché della letteratura del soprannaturale, presentandoci questi personaggi grottescamente equivoci, al limite della parodia, la cui principale preoccupazione sembra essere quella di raccontare ad ogni costo la propria storia, senza risparmiare struggenti analisi delle proprie emozioni e delle proprie speranze.

Eppure, sotto questa facciata che strizza l’occhio alla letteratura a lui contemporanea, Machen alimenta la vera fiamma nera delle sue narrazioni: un orrore atavico e invincibile, un male disgustoso e suadente la cui principale minaccia consiste nel pericolo di confusione, di contaminazione, di unione ad un amalgama primordiale e dionisiaco, in cui l’identità e la morale si frantumano. Nel suo studio The Weird Tale, il critico S. T. Joshi individua nella religione cristiana la matrice filosofica alla base dei racconti di Machen, un’opposizione tra bene e male che ha le sue basi nel sistema religioso; eppure, il terrore de I tre impostori sembra risiedere non tanto nel male in quanto assenza di bene, ma nel male in quanto assenza di confine, mancanza di identità, rottura di quell’unione che tripartisce gli individui in mente, corpo e spirito, come accade nei sabba rievocati in Storia della polvere bianca: «la dimora della vita si scindeva e la trinità umana si dissolveva; e il verme che non muore mai, che dorme in ognuno di noi, veniva reso tangibile, esteriore, vestito di carne. E poi, a mezzanotte, la prima caduta si ripeteva, e la cosa spaventosa velata dal mito dell’Albero dell’Eden tornava a compiersi» (p. 166). Un orrore certamente accostabile ai sistemi morali del cristianesimo, è vero, ma al contempo figura (come il «piccolo popolo») di qualcos’altro, di un’unione che trascende i nomi utilizzati dagli esseri umani. Il pericolo adombrato dal romanzo è quello, squisitamente occidentale e squisitamente moderno, di una distruzione del sé, di una frammentazione in un caos turbinante di cui è impossibile intuire la direzione, una «regressione protoplasmatica», come recita il titolo di uno scritto ipotizzato da Phillips dopo aver ascoltato la Storia del sigillo nero.

Per Machen l’orrore è dunque unico, ammantato di volta in volta con maschere diverse, ma pur sempre concentrato in un’unica angoscia, echeggiante nel passato e nella tradizione. Omnia exeunt in mysterium, il detto latino citato in Storia della polvere bianca, può allora allargare il proprio significato: non sono soltanto le conoscenze a perdersi nel mistero – ma anche i timori umani tendono infine ad un unico baratro oscuro e sconosciuto.

Lo stile del soprannaturale (o del «fantastico», o del «weird», in base a come la si voglia mettere) è dunque il solo che si presti all’idea centrale di I tre impostori, l’idea che nella vita quotidiana si possa alzare il velo, e intravedere, anche solo per un istante, gli ingranaggi colossali, scuri e stridenti che animano il mondo e che ne fanno baluginare i significati; significati intuibili, forse, allusi da un tramonto riflesso sulle vetrate sporche di Londra, ma il cui cuore si sente ancora lontano, nell’eco di una storia mormorata da due passanti che si perdono inquieti tra le strade.


Arthur Machen, I tre impostori, trad. R. Rambelli, Fanucci, Roma 2020, 204 pp. 10,00€